di Andrea Inglese
[Esce oggi il secondo romanzo di Andrea Inglese, La vita adulta, per Ponte alle Grazie: Ne pubblichiamo qui un estratto]
Il genitore guastatore
A Nina sembra, a volte, di combattere contro la corrente, anzi è convinta di andare per la sua strada, una strada percorsa in realtà a tastoni, piena di sbandamenti e vicoli ciechi, di vecchi fantasmi con cui regolare i conti, e di veri e propri capitomboli, faccia a terra, e tutto questo andamento irregolare della sua vita le dà almeno l’illusione di un’individualità forte. Poi, come oggi, apre gli occhi sul mondo circostante, sugli ambienti in cui finisce per insediarsi, sulle persone che la circondano, e capisce che quella strana pressione che agiva su di lei in direzione contraria, e a cui lei credeva di opporsi, combattendo contro una corrente generale, non è null’altro che il risultato di una spinta che invece di ostacolarla la porta, la trascina amorevolmente con sé. Le sue energie per sfuggire al movimento di massa, all’inclinazione delle abitudini, alla facile coesione delle opinioni, tutte queste energie, senza che lei se ne renda pienamente conto, non fanno che rafforzare proprio quella corrente a cui credeva di sottrarsi.
Le traiettorie di ognuno sembrano così aleatorie, specifiche, prodotte da una serie continua di decisioni autonome, ma viste dall’esterno, con uno sguardo di sorvolo, mostrano di marciare al passo con innumerevoli altre. Dovunque Nina si sposti, dovunque pretenda di svoltare all’improvviso, o di retrocedere per capriccio, la tribù sociale di provenienza la contiene, la accompagna fedelmente, mettendole accanto figure dai gesti e dalle frasi simili. Com’è possibile, d’altra parte, per tutti loro, così acculturati e smaliziati, non sentirsi alla punta di qualcosa? Si percepiscono come non ulteriormente perfezionabili, perché intorno a loro tutti gli altri esseri umani non possono apparire che più volgari, o più spietati socialmente, o più danneggiati socialmente, o più manipolati, o più immorali, o più poveri d’immaginazione, di gusto, di audacia esistenziale. A Nina, però, e questa è una differenza vera, il loro apparecchio interno, l’organo dell’autosoddisfazione, le manca. O in ogni caso le si era guastato. E si è costruita nel tempo un racconto abbastanza dettagliato a proposito di questo guasto, anche perché assomiglia più a una predestinazione, a una fatalità biblica, che a un incidente fortuito.
Il guasto c’era stato, ma ripetutamente, come se qualcuno avesse voluto davvero assicurarsi, dopo diversi tentativi, che l’apparecchietto fosse irrimediabilmente sgangherato e inservibile. Aveva iniziato Carlo, il padre, soprannominato da lei Dolomite per la sua esagerata passione alpinistica. C’è sempre un genitore guastatore, questa almeno è la teoria di Nina. Ognuno nasce per far fronte ad almeno un genitore guastatore, ma quando va molto male, per i più disgraziati, i genitori guastatori sono addirittura due, anche se, di norma, due genitori guastatori finiscono quasi immancabilmente per entrare in conflitto, dal momento che ognuno di loro vorrebbe guastare il proprio figlio secondo il metodo che gli è più caro, e quindi la divergenza di metodi, a parità di obiettivi, crea spesso quel conflitto tra padre e madre, che si può persino rivelare positivo per il figlio o la figlia, dal momento che l’odio reciproco dei genitori finisce per neutralizzare, indebolire, se non del tutto vanificare la loro congiunta opera di demolizione filiale. Alcune persone che Nina ha incontrato sostengono che si tratta di una teoria del tutto esagerata, di una teoria semplicemente falsa, dal momento che solo in casi eccezionali, certamente tristi, uno dei due genitori può trovarsi, per circostanze inusuali, nel ruolo di guastatore del proprio o della propria figlia. La verità, secondo Nina, è che i figli impiegano sempre un lungo lasso di tempo, prima di capire da quale persona del proprio ambiente è venuto il primo guasto, primo e per ciò stesso, in genere, più efficace e deleterio. Chi ha fatto una qualche terapia, non per forza l’analisi di vecchio stampo, quella di sette anni con freudiani ortodossi e lettino, ma anche una delle cure “nuove”, alleggerite, ebbene costui fin dalla quarta seduta comincia a vedere chiaro nel ruolo che uno dei due genitori ha avuto nella sua infelicità. Questo perché la terapia è un grande acceleratore per la dismissione dei miti familiari. Nina non è mai diventata una sfegatata sostenitrice dell’analisi, o di terapie simili, e le considera in fin dei conti come rituali di classe, o di gruppo sociale, rassicuranti ma spesso inefficaci. Su una cosa, però, è certa: in ogni terapia, di cui ha avuto testimonianza da amici o conoscenti, si finisce per stanare in tempi molto brevi un’operazione genitoriale malsana, che nella maggior parte dei casi era rimasta del tutto inconsapevole, e non di rado cade proprio la maschera del genitore a lungo ritenuto più angelico, comprensivo, o se non altro innocuo.
Quindi, fin dalla nascita, ognuno – sostiene Nina – deve realizzare questa sorta di salto mortale psicologico, in quanto si trova a fronteggiare, da un lato, almeno un genitore guastatore ma, dall’altro, deve impegnarsi a fondo nell’erigere un piedistallo idealizzante per quello stesso genitore nemico. Più il figlio o la figlia vengono guastati, più essi debbono rendere plausibile l’immagine di un genitore amorevole, anche se non è possibile decidere in anticipo chi sia il guastatore, se la madre per la figlia o il padre per il figlio – a volte ci piace pensare che le cose siano lineari, che solo la madre abbia voglia di guastare la propria figlia, e che solo il padre abbia voglia di guastare il proprio figlio, ma costantemente l’esperienza ci smentisce. (Nina, ad esempio, ha avuto nel proprio padre il genitore guastatore, ma questo le era stato evidente fin dall’inizio, l’unico vantaggio, infatti, di avere un padre scatenato nell’intento di guastare, è che tutto ciò viene alla luce quasi subito e si ha quindi la possibilità di difendersi, di organizzare strategie di ripiegamento e fuga.) Se le persone guardassero abbastanza presto, diciamo il prima possibile, alla propria famiglia come al primo grande pericolo, o alla prima grande trappola della loro vita, forse sarebbero in grado non di evitare i guasti, gli avvelenamenti morali, le ferite psicologiche ripetute, le demolizioni insidiose e mirate, ma almeno correrebbero ai ripari, si esporrebbero con meno idiozia ai colpi del nemico, e soprattutto non spenderebbero quell’enorme quantità di energia per ripulire la faccia dell’aggressore, per cambiargli ogni volta i connotati con uno sforzo quasi sovrumano d’immaginazione, che addolcisce la piega delle labbra, ammorbidisce i toni della voce, rende aggraziati i gesti secchi, infonde benevolenza nelle frasi che ne sono completamente prive.
Nina, nel petto, ha semplicemente un buco, un vuoto, ma non un vuoto pacifico, una mancanza mansueta di qualcosa; ha un buco attivo, che si fa spesso risucchio, perché un vuoto ha una capacità di aspirazione quasi infinita, soprattutto un vuoto, diciamo, psicologico, un buco non di carne, che in qualche modo uno potrebbe riempire o suturare. Per lei, da molti anni, questo buco, che impedisce ogni irradiazione di sicurezze intime, assiomatiche, e ogni bagno di autosoddisfazione, è legato a Carlo. Carlo ne era stato il primo artefice, non certo l’ultimo. Un padre fisico teorico, dice Nina, non lo augurerei neppure al mio peggior nemico, un padre inoltre amante della montagna e delle scalate, un padre Dolomite. Non è che Carlo fosse un mostro, o in ogni caso non lo è più per Nina; è semplicemente stato, e cerca ancora di esserlo, ma con meno efficacia, il genitore guastatore della sua famiglia, quello che opera fin dall’inizio per sottrarre al proprio figlio ogni sicurezza di sé, che si dedica con serena inconsapevolezza a formare il buco, anche perché, nel caso di Nina, che è figlia unica, l’azione guastatrice non rischiava di disperdersi, di frazionarsi. Nella vita familiare, nella vita di tutti i giorni, Dolomite era stato un programmatore furioso, qualcuno che doveva sapere con molto anticipo con chi, dove e cosa fare. E la sua gioia, perché Dolomite poteva essere anche un personaggio gioioso, era tanto più intensa e pura, quanto più le cose erano andate per il verso giusto, erano andate cioè come lui le aveva ipotizzate, e poi preparate, e poi seguite fase dopo fase nella loro evoluzione. Se Nina, a sette anni, non voleva arrampicare, o non voleva arrampicare quel dato giorno, o in quel tratto di ferrata, Carlo non la sgridava, non le urlava violentemente contro, semplicemente taceva di colpo e, con una rapidità sorprendente, la liberava dall’imbragatura, raccoglieva tutto il materiale, ficcandolo nel suo grande zaino, dal momento che la giornata ormai era stata rovinata, e non restava che tornare indietro. Questo Carlo però non lo diceva, o lo diceva solo se più volte incalzato, messo alle strette, eppure il suo comportamento globale, il comportamento silenzioso, non faceva che ripetere solennemente fino al momento di andare a dormire quanto quella giornata fosse stata sfregiata. E d’altronde ogni altro progetto familiare, si trattasse di un cinema o di un ristorante serale, veniva immediatamente sospeso, differito a giornate migliori, a giornate meno fallimentari. Spesso Carlo diceva semplicemente, e a voce bassa, come parlasse tra sé e sé, “Va bene, facciamo dietrofront”. Nina aveva vissuto da piccola con il terrore di causare il “dietrofront”, perché era evidente che quel “dietrofront”, per Carlo, era conseguenza di un accidente atmosferico, di una piena che impedisce, ad esempio, di attraversare un tratto di strada lungo un fiume. Quel “dietrofront”, quindi, era la conseguenza dell’accidente atmosferico “Nina”, dal momento che Nina portava in sé, senza neppure esserne consapevole, questo carattere di accidente, di catastrofe naturale. Nina era l’intoppo tipico allo svolgimento del programma, Nina impediva che le cose andassero per il verso giusto, e Carlo non la sgridava né la puniva per questo, ma ne era come ogni volta atterrito e profondamente deluso. E per non sprofondare nella disperazione, o per non rischiare di infuriarsi, doveva togliersi di mezzo il più velocemente possibile. Di fronte allo scacco, bisognava scappare via senza voltarsi, raccattare ogni cosa, rimettersi lo zaino in spalla, e allontanarsi il prima possibile da quei luoghi, che oramai costituivano l’allegoria materializzata del suo fallimento.
Anche più tardi, quando Nina era più grande, e già in parte autonoma nelle scelte di studio o nelle frequentazioni personali, se Carlo era costretto a un confronto, a un dialogo, a prendere in conto il punto di vista della figlia, finiva sempre per ripetere: “Nina, ti sto ascoltando, ma davvero non capisco quello che dici, non ci riesco”. Nina parlava, e parlava italiano, la lingua comune, la lingua materna e paterna, e costruiva frasi corrette, anche se le pronunciava magari eccitata, in modo rapido, ma il problema è che Carlo sosteneva di non capire quanto Nina dicesse, la guardava, la lasciava argomentare, e poi se ne usciva con la frase tipica, che la mandava fuori dai gangheri: “Nina, non so cosa stai dicendo”.
Quando Nina aveva deciso, dopo un ultimo anno di liceo molto burrascoso, di entrare all’Accademia di Brera di Milano, con l’idea di diventare un’artista, Carlo non era riuscito, nonostante le molteplici e convulse discussioni, a capire cosa Nina gli dicesse. Non era servito neppure l’intervento della madre Loredana, che era l’intervento di una donna stanca, e quindi troppo timido, o troppo tardivo, per essere davvero efficace. Loredana si era data negli anni il ruolo di traduttrice, e quando aveva un po’ più di energia del solito, o quando lo scontro tra Nina e il padre era particolarmente insostenibile, lei interveniva come traduttrice, e nello stesso italiano di Nina. Con qualche riformulazione qua e là ripeteva al marito i medesimi concetti espressi dalla figlia. La traduttrice era d’altronde il ruolo perfetto per una madre stanca, che pur volendo difendere Nina, non si autorizzava a prendere partito, e quindi agiva in nome dell’armonia linguistica, svolgendo un compito neutrale, apolitico, puramente di servizio.
Ma Nina ha fatto i conti con tutto questo, con Dolomite, il padre pietroso, con Loredana, la madre stanca, e sa anche che il risucchio in mezzo al petto è divenuto negli anni una specie di forza, una particolare forza di deprogrammazione radicale, con la quale aveva fatto saltare tutto quanto era solido, piano, regolare, dentro di sé e intorno a sé. È il suo modo di restituire il guasto ricevuto. Di farne tesoro, come si dice. O carburante, o semplice dinamite.
[Immagine: Paul McCarthy, Tomato Head].
Mi piace la prosa apparentemente oggettiva e da new journalism, il punto di vista che si trasforma dalla voce narrante alla voce testimone, l’uso della parentesi e le citazioni del personaggio. Nina è lì ben presente e viva nella pagina e noi la sentiamo, è vicina.
Lingua affilata che scava nei recessi della mente con l’acribia di chi cerca di togliere ossessivo una scheggia dolorosa con la lama di un coltellino.