di Stefano Dal Bianco

 

ll 26 marzo, a ridosso del dantedì, il caro Italo Testa, un amabile negriero, mi scrive una mail dicendo che sarebbe una cosa simpatica pubblicare per l’occasione su LPLC una apologia di Petrarca, e chissà perché gli è venuto in mente il sottoscritto. Lo ringrazio ufficialmente del pensiero e aderisco quasi all’istante, ma insomma non aspettatevi niente di ponderato o di scientifico. È probabile che dirò delle banalità, per giunta soggettive.

 

Per cominciare devo fare chiarezza su un punto: è vero che il mio cuore batte per Petrarca ma, rovesciando il paradigma dell’isola deserta, se stessi naufragando e dovessi scegliere quale buttare a mare tra Commedia e Canzoniere, non avrei esitazioni: saluterei senza rimpianti il petrarchino. Dico proprio senza rimpianti perché Petrarca, una volta assimilato, ce l’hai in testa e non ne hai più bisogno, non te lo toglie nessuno. E se anche qualche cosa ti fosse sfuggita, basterebbe uno qualunque dei poeti italiani (e non solo) della tradizione fino a oggi a rinfrescarti la memoria, lì conservata in modo spurio ma comunque riconoscibile.

 

Dal punto di vista della bruta quantità di informazione, non che Petrarca sia proprio un bruscolino nell’orecchio del fuori classe che è Dante ma insomma, Dante parla di tutto, si immerge nella calda vita si sporca e tira fuori fiori dal letame, guarda il mondo con una attenzione e una penetrazione speculativa e sentimentale inarrivabili. È un pozzo di scienza. Di suo, è un avanguardista, uno sperimentatore accanito, che molla lì le opere a metà per l’urgenza di passare ad altro, e in questo ci assomiglia un po’.

Quell’altro sembra un maniaco ossessivo e non parla di niente, o sempre delle stesse quattro cose; è fissato. Sì anche lui molla l’Africa e molla i Trionfi, ma perché si accorge che erano dei pipponi pesantissimi e non ce la fa, si arena, ma rimane ossessionato da un dover-essere cui non riesce a tener testa e che non riesce a soddisfare. Per intanto, a tempo perso, passa la vita a mettere a posto le poesiole, sempre quelle, tutto rincagnito negli affari suoi a inventare l’interiorità, che vabbè prima non c’era quasi per niente, ma a che serve l’interiorità?

 

Certo nessuno dei due brilla per simpatia (volete mettere un Ariosto?). Uno taglia le pezze addosso a grandi e piccini, spedisce all’inferno o in paradiso quelli che gli girano a lui, e ci sta anche che non sbagli, perché è evidente che non ha interessi di parte (vedi l’amato Brunetto tra i sodomiti, e altri amici e parenti bistrattati) ma giudica il tutto da un’altezza morale ineguagliabile, cosa che lo rende doppiamente antipatico. Quell’altro è tutto un piagnisteo quando scrive le poesie d’amore e morte, e intanto se la fa coi potenti del mondo e a giudicare dalle lettere è di un permaloso mai visto, si incazza per un nonnulla, tutto preso dalla sua grandezza, tutto impostato per i posteri.

 

Bisogna però riconoscere che un fattore non trascurabile, e forse la vera base, di questa scarsa simpatia di entrambi è l’assenza totale di (auto)ironia. È troppo presto perché ciò si verifichi in un genere di letteratura “alta”, e per trovare degli esempi plausibili bisogna scendere in ambito comico-realistico, oppure retrocedere alla classicità latina. Ma il fatto è che Dante e Petrarca prendevano sul serio la letteratura, come chi sa di dover costruire e comunicare qualcosa di importante. Per trovare l’ironia vera, a suo modo sublime, ci vorrà un tempo di crisi conclamata, alla cui radice, scava scava ma neanche tanto, sarà la vergogna o l’imbarazzo di non poter coincidere con ciò che si racconta, di non poter essere ciò che si scrive.

 

Nei momenti più forti Dante fa così: a partire da un dato sensibile ti porta fuori, o in alto con una musica che pare così consustanziata a ciò che sta narrando o affermando, che non può non catturarti, e quando ci sei stato, in questo “fuori”, o ti è sembrato di starci per un po’, ti fa ripiombare in te, perché ti accorgi che ciò che stai provando ti riguarda, può riguardare una diversa postura che avresti facoltà di assumere nei confronti del tuo stare al mondo. Ti dà una finalità spirituale. Uso un aggettivo che soltanto i poveri di spirito, o qualche disonesto baciapile, possono imparentare con un personaggio-Dio esterno più o meno barbuto, che non ha nessuna attinenza con l’Amor che move il sole e l’altre stelle. Questo amore è uno ed è tutto; comprende e trascina tanto un principio formale/musicale quanto la materia bruta, la penosa pena del vivere, attingendo ai vertici di un pensiero sovra-razionale, quello che per Aristotele era l’“intelletto del cuore”, altre due parole che non hanno a che fare con i significati che la moderna presunzione  attribuisce loro.

 

Petrarca non fa niente di tutto ciò. Parte da te, da dentro di te, e non ti parla di niente, o comunque tu senti che qualunque cosa ti stia dicendo è secondaria rispetto alla rete di suoni e risonanze in cui ti scopri invischiato tuo malgrado. È al confronto serrato con questo niente musicale che lentamente, impercettibilmente, inesorabilmente, Petrarca tira fuori da te, esaltandolo, il niente che tu sei sul piano della tua povera esistenza, e ti spinge verso quello che un buddista chiamerebbe “lo stato naturale della mente”. Scusate la bestemmia: sarà per il tramite di Agostino (altra bestemmia) ma la poesia di Petrarca è buddista. Esagero ma spero che l’immagine renda l’idea. Il velo di Maya del reale si dissolve. Il mondo è illusione. Nel vuoto che resta non ha senso andare a cercare una gerarchia tra le cose del mondo. Non si tratta di inalzarsi dove che sia, si tratta di accorgersi.

 

Dante ti fa piangere, ti pervade di commozione intellettuale e ti butta giù dalla sedia. Petrarca no, ti intorta con qualcosa che forse è meno forte e certamente è più sottile, qualcosa che ti coglie quasi alle spalle, a tradimento, e non è fatta di pensieri e di concetti e sentimenti: ha poco a che fare con le cose di questo mondo, e nemmeno con quell’altro, di mondo. Probabilmente sto soltanto cercando di definire in essenza ciò che si chiama “brivido estetico”, l’effetto del quale consegue all’esasperazione di un principio tecnico formale che si fonde con qualche cosa di fisico e sì, di trascendente, e la voce che parla parla a noi attraverso la sapienza dei secoli e dei millenni.

 

Stilisticamente a volte Dante, soprattutto in giovinezza, può risultare stonato, magari di proposito, magari per ottenere effetti particolari oppure perché impegnato in grandi ragionamenti dottrinali. Petrarca non lo è mai. Le sue complesse architetture sintattico intonative reggono sempre alla prova di una esecuzione ad alta voce. La voce è sempre quella, autoritaria, inflessibile, castigatrice di ogni fantasioso tentativo di interpretazione attoriale. Qualunque mimica, qualunque effetto che soltanto lontanamente possa far pensare all’intervento esteriore di una retorica dell’actio, o anche alla pertinenza di elementi enfatici che non siano già perfettamente inscritti nella lingua, a prevalere sulla pura voce, è bandito per costituzione. È impossibile allontanarsi da questa dizione millimetricamente imposta. L’esecuzione è quella, obbligata, anche nei momenti più mossi o emotivi:

 

Ahi, bella libertà, come tu m’hai,

partendoti da me, mostrato quale

era ’l mio stato quando il primo strale

fece la piaga ond’io non guerrò mai!

Gli occhi invaghiro allor sì de’ lor guai

che ’l fren de la ragione ivi non vale,

perch’hanno a schifo ogni opera mortale.

 

Provate a enfatizzare indebitamente l’Ahi o il come al primo verso, oppure a leggere di fila, senza una pausa sospensiva a fine verso la sequenza inarcata “mostrato quale / era il mio stato”: è impossibile; nemmeno il peggior attore potrebbe permetterselo.

Questa ossessione per la precisione intonativa – che è uno dei lasciti più potenti di Petrarca alla poesia occidentale, e italiana in particolare – si esercita a tutti i livelli con la stessa intensità, a volte raggiungendo il parossismo sintattico, con intere sequenze che sembrano messe lì a dimostrazione che la cosa si può fare, che la complessità non esclude né la limpidezza né la freschezza di quanto si va dicendo:

 

Se lamentar augelli, o verdi fronde

mover soavemente a l’aura estiva,

o roco mormorar di lucide onde

s’ode d’una fiorita e fresca riva,

là ’v’io seggia d’amor pensoso e scriva;

lei che ’l ciel ne mostrò, terra n’asconde,

veggio e odo ed intendo, ch’ancor viva

di sì lontano a’ sospir miei risponde:

 

È la fronte di un sonetto giustamente famoso, dove ogni verso ha un andamento intonativo ascendente e sospeso, in attesa della risposta melodica che arriva soltanto al settimo verso, con la principale (“veggio e odo ed intendo…”). Un tour de force sintattico cui seguono due terzine strepitose per la freschezza e il realismo del discorso diretto di Laura rediviva nel sogno a occhi aperti (una fantasticheria, si noti, indotta dall’auscultazione del dato naturale). Due terzine che sintatticamente smorzano la tensione intonativa delle quartine e ci lasciano a sguazzare in una pace che non è di questo mondo ma è decisamente tutta nostra:

 

«Deh perché inanzi ’l tempo ti consume?»

mi dice con pietate «a che pur versi

degli occhi tristi un doloroso fiume?

Di me non pianger tu, ché miei dì fersi

morendo eterni, e ne l’interno lume,

quando mostrai de chiuder, gli occhi apersi».

 

Ma insomma, al di là del messaggio esplicito, che non è certo da buttar via, che cosa è questa campata sintattica iniziale, perfettamente intonata, ferrea, se non il puntare al fondo dell’analisi del pensiero che l’ha prodotta; se non l’immersione nei meandri della testa di uno che pensa fino a non pensare niente, fino a smascherare la finzione del pensiero in sé, e dunque intaccando la realtà della sensazione stessa – visiva, auditiva – che lo sostanzia, per puntare diritti sul vuoto che siamo. E il bello è che noi questo percorso lo seguiamo in tutto, e nel seguirlo ci perdiamo nel momento stesso in cui ci rendiamo conto di averlo riconosciuto come nostro.

 

Il controllo esasperato sull’intonazione è ciò che permette a chi legge, o a chi ascolta, di entrare davvero nella lingua di chi scrive. Senza questo controllo, senza la certezza di essere tenuti per mano intonativamente da qualcuno che sa il fatto suo, il lettore non si può fidare. Di Petrarca ci si fida, ed è lì che ti frega perché, quando ti ha preso, Petrarca ti devasta. Lo fa con una cattiveria pari soltanto a quella che esercita contro se stesso. Sulla solida base di una sintassi, di un ritmo, di una prosodia, di un’intonazione che funzionano perfettamente su regole certe e autoctone, non appiccicate ma emanate direttamente dall’alto del proprio magistero, regole sulle quali un qualunque discreto o anche grande poeta si adagierebbe felicemente, Petrarca, come si è visto, si accanisce a metterle alla prova, a infilare un dubbio là dove ci si aspettava una certezza, o un rilassamento nel ron ron di una tradizione endecasillabica che proprio lì nasceva. È qui che la lingua è costretta a riflettere su se stessa, ed è qui che l’adepto petrarchista esce di testa, perché di fronte alla quantità e qualità degli enigmi ritmico prosodici che il maestro si inventa è costretto ad affinare a dismisura il proprio orecchio. E peggio per chi non ce la fa, e magari nemmeno se ne accorge.

 

Un esempio banale: Ché bel fin fa chi ben amando more. (140,14). Fa una bella fine colui che al momento della morte avrà indirizzato il suo amore nella giusta direzione, cioè al cielo. Ma siamo sicuri di riuscire a pronunciare questo verso tranquillamente, o ci perderemo nella sequela di monosillabi senza riuscire immediatamente a soffermarci su quelli più probabili affinché la linea melodica non venga devastata? La soluzione c’è, è una sola, e non è difficilissima, ma il punto è che ci abbiamo dovuto pensare, siamo stati costretti a soffermarci sulla lingua, abbiamo effettuato una sia pure tutta mentale sosta di decodificazione. E tutto ciò non a causa dell’improntitudine del poeta, perché è chiaro, è chiarissimo da questo e da una miriade di altri esempi possibili, di natura simile e diversa, ma sempre coinvolgenti fenomeni di registro ritmico e intonativo, è chiaro che Petrarca lo fa apposta. Lo fa perché in questo rallentamento autoriflessivo della lingua, ciò che si esalta e ci viene addosso non è il “messaggio”, non è ciò che ci sta dicendo, bensì il rallentamento stesso; sono le pause di incertezza, di vuoto linguistico che ci costringono a fermarci, e a soffermarci nel silenzio di noi stessi.

 

Questa è l’operazione che viene condotta sulla nostra povera psiche. Non è cosa per i deboli di mente. È il momento meraviglioso in cui l’esasperazione di un principio stilistico mette in moto qualcosa sul piano interiore. Qualche cosa che perviene al piano etico, e ci arriva dalla porta giusta, quella interna.

Se Petrarca ha scoperto l’interiorità non è perché ha scritto Solo e pensoso, è perché in modo quanto mai consapevole, con la sola forza del silenzio nella lingua, ci ha costretti a fermarci. E dunque, a che serve l’interiorità? La risposta, ovvia, è pur sempre parabuddista. Serve in politica. Serve a sconfiggere il male che è in noi. Serve a recuperare il sapere silenzioso della Natura.

 

[Immagine: Giorgio Vasari, Sei poeti toscani, 1544].

13 thoughts on “Che cosa ci fa Petrarca

  1. Petrarca è oltre. Certo bisogna celebrare Dante, con tutti i rischi nazionalsovranistici correlati alla sua “italianità”. Ma bisogna avere anche il coraggio di superare la sclerotizzazione culturale di un Paese fermo a Dante e che peraltro lo imbalsama con la retorica delle celebrazioni. Petrarca supera la logica binaria dantesca (bene/male, Inferno/Paradiso), è moderno, vicino a noi perché spiega la complessità dell’interiorità, le sue sfumature, le sue lacerazioni. Dante ci interessa per la distanza da noi, Petrarca per la sua presenza in noi.

  2. Scopro con autentica felicità che si può scrivete un brillante (e denso e coltissimo) testo di critica letteraria con un codice chiaro, caldo, coinvolgente… umano: evviva! Una bella vigilia di Pasqua, merci.

  3. “Scusate la bestemmia: sarà per il tramite di Agostino (altra bestemmia) ma la poesia di Petrarca è buddista. ” (Del Bianco)
    +
    E già siccome è di moda (di nuovo) il Dante “itagliano”, noi proponiamo un bella apologia di Petrarca ,”buddista” però. Bestemmia? No, giochino. In più con la pretesa che “serve in politica”, che -altro giochino – “serve a sconfiggere il male che è in noi” (!) e – in piena pandemia – a “recuperare il sapere silenzioso della Natura”.

  4. “Mira res dictu, scribere cupio nec quid aut scribam scio. [Straordinario a dirsi, desidero scrivere senza sapere cosa e a chi, ”

    Francisci Petrarce Familiarum Rerum Libri, XIII, 7

  5. Grazie puntualissimo Ennio! Pensavo proprio a te quando ho scritto quelle cose. Buona Pasqua di Resurrezione!

  6. @ Stefano Dal Bainco
    Troppo buono. Sono quasi onorato. Ricambio l’augurio con una minima variazione: Buona Pasqua di Insurrezione !

  7. Mi associo ai ringraziamenti per il pezzo postato, ai vivi complimenti all’autore, agli auguri pasquali comunitari e al cenno amichevole al persistentemente e valentemente diogeniaco Ennio Abate.

  8. Complimenti, grande pezzo di critica (per così dire “divulgativa”). Ce ne fossero: davvero complimenti.

  9. “tutto rincagnito negli affari suoi a inventare l’interiorità, che vabbè prima non c’era quasi per niente”.
    Inventa l’interiorità Petrarca, come ammette (quasi controvoglia) Dal Bianco. E allora non si capisce questa fretta di togliere il tappo dell’interiorità e farla defluire nel nirwana. O forse si capisce: il nirwana è di moda.

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