Intervista di Federica Iacobelli a Nicola Lusuardi
[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. Questa intervista è uscita il 25 marzo 2012; è stata precedentemente pubblicata su www.rifrazioni.net].
Narrazioni televisive, narrazioni in serie: una realtà che è antica quanto la tv, ma che solo in tempi molto recenti ha cominciato a far parlare di sé nel mondo accademico assurgendo a oggetto di studio critico, analitico e letterario.
Di fatto se ne parla ancora poco. E credo che le ragioni di questo silenzio siano storiche. La narrativa per la tv nasce infatti nel dispositivo combinato di due pregiudiziali che ne hanno determinato l’ideologia, una di ordine sociologico e una di ordine “industrialistico”. Intendo dire che, per decenni, il prodotto narrativo televisivo ha dovuto pregiudizialmente soddisfare due necessità, quella di una economia di scala che doveva mettere a reddito l’idea, e quella di una società/pubblico domestica ritenuta di basso livello qualitativo. In realtà, naturalmente, la televisione non ha mai fatto solo questo: ha fatto di più, già dall’inizio. Ciò nondimeno queste due pregiudiziali hanno condizionato le potenzialità del testo televisivo agli occhi degli studiosi, lasciando che tutto ciò che era ‘racconto tv’ restasse appannaggio di chi guardava alla tv come a un medium omologante, sociologico: approcci tutti legittimi, certo, ma che per le ragioni culturali di cui dicevo sono rimasti esclusivi e hanno rallentato l’attenzione della critica cosiddetta colta e di chiunque potesse rivolgere uno sguardo alto alla prassi del leggere la narrativa televisiva. Si è trattato di un pregiudizio talmente dominante, che non è bastata la velocità della rivoluzione estetica cominciata negli Stati Uniti agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, la rivoluzione della narrazione multilineare che va da ER fino ai Sopranos, perché il tipo di attenzione mutasse. Né è bastato il fatto che cineasti come David Lynch o Quentin Tarantino abbiano cominciato a dedicare attenzione nuova ai modi e alle scoperte della narrazione televisiva.
Che cosa, allora, ha potuto o potrà attrarre l’attenzione del “lettore colto” alla narrativa televisiva?
È stato necessario, credo, che tutto il lavoro di maturazione narrativa elaborato tra i decenni Ottanta e Novanta del secolo scorso desse i suoi frutti dopo i Sopranos, diciamo da Six Feet Under al più recente Mad Men, e producesse opere che arrivano a sovraesporre la propria complessità contenutistica e testuale ponendosi come dichiaratamente filosofiche. Solo di fronte a questa sovraesposizione il mondo dei lettori colti ha cominciato a rendersi conto che la serialità poteva produrre qualità narrativa non inferiore alla letteratura. Considerando, in ogni caso, che si tratta ancora di una presa di coscienza sbalordita. Certo, oggi non esiste un solo cinefilo che non ammetta le vette raggiunte da certa fiction d’oltreoceano. Eppure i testi analitici sull’argomento sono ancora pochissimi, non solo qui da noi, ma anche in America.
Chi si potrebbe citare, per esempio?
Penso alla scuola di Simone Regazzoni e al collettivo Blitris, che ha portato a testi su Dr House e su Lost di stampo filosofico derridiano, o anche a Sex and the City e la filosofia di Carola Barbero (Il Nuovo Melangolo 2010), nato all’interno della stessa scuola. Si tratta però ancora di un esiguo numero di testi, al massimo di qualche tesi di laurea, e di saggi che nella maggior parte dei casi ancora eludono un approccio estetico alto e restano più prossimi a un’analisi sociologica o fenomenologica del corpo del testo. Mi viene in mente, a questo proposito, il bell’articolo di Francesco Pacifico sulla Domenica de Il Sole 24ore del 26 settembre 2010. Pacifico scrive a proposito delle reazioni suscitate dall’uscita americana dell’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, Freedom, e risponde a detrattori e sostenitori dell’ultima opera dello scrittore parlando di qualcosa che secondo lui né gli uni né gli altri hanno preso in considerazione: «Lo scopo per cui Franzen manda indietro l’orologio del genere romanzo, secondo me, è vincere la battaglia contro la nuova grande forma d’arte del nostro tempo: la serie televisiva di alta qualità, che ha già capolavori assodati in Six Feet Under, Sopranos, Mad Men e The Wire, opere di sorprendente complessità, varietà e generosità narrativa, umana e tematica, di largo consumo». Il 26 settembre 2010 ha visto anche il debutto della nuovissima serie della HBO, Boardwalk Empire, creata da uno degli sceneggiatori dei Sopranos, Terence Winter, e diretta da Martin Scorsese. Che il modo seriale produca oggi specificità estetiche dirompenti e punti a standard qualitativi altissimi, negli Stati Uniti è cosa del tutto metabolizzata. Lo è al punto che Francesco Pacifico, per dar conto delle due opposte posizioni critiche sull’ultimo romanzo di Franzen, non può fare a meno di riferirsi al problema della narrazione della fiction come vetta narrativa dei nostri tempi. E se anche da noi, vedi per esempio il paginone su Mad Men uscito sul quotidiano “La Repubblica”, questa consapevolezza comincia a diventare oggetto di dibattito pubblico, vuol dire che presto potrà diventare oggetto anche di una critica più alta e impegnata.
Della narrativa televisiva tu sei studioso, ma anche autore: che ricaduta ha questa doppia prospettiva sul tuo lavoro di scrittura?
Ha un’enorme ricaduta. Personalmente, da militante della narrazione, ritengo che non si possa praticare o tentare di praticare nell’innocenza nessuna delle forme d’arte di cui mi occupo. Non è un caso che io, come molti altri, abbia appreso le cose più importanti sulla narrazione sui testi di scrittori che parlano di scrittori. Le riflessioni di Proust come di Stevenson, di Kundera come di Borges o Calvino, sugli scrittori e sulla scrittura, possono portare a illuminazioni folgoranti a proposito dei processi del narrare. Per me non esiste grande scrittore che non sia stato grande lettore, intendendo per grande scrittore il creatore di opere rimaste valide nei tempi o comunque rivelatrici rispetto alla realtà, e per grande lettore non un lettore onnivoro ma uno capace di farsi interrogare sempre dai testi che legge e che ama. Oggi forse nelle scuole di arte e di drammaturgia non si dedica abbastanza attenzione all’esercizio della lettura. Insegnando in diversi contesti, mi accorgo che i giovani, anche se hanno gusti propri e spesso sofisticati, mancano di quella tensione etico-estetico-conoscitiva sui testi degli altri. Così accade che semplicemente imitino ciò che amano, senza consapevolezza, e pervengano quindi a un manierismo superficiale. Lo studio, la lettura analitica dei testi che si amano, è molto sottovalutato. Ma non puoi leggere, se nessuno ti ha dato gli strumenti per farlo. Credo sia un problema culturale e formativo, ma anche un problema di percezione e tensione rispetto alla necessità di un sentimento agonistico in rapporto con una materia viva come la nostra. Si tende a considerare il gesto creativo come un gesto che nasce dalla pigrizia e di conseguenza non si insegna la enorme complessità dello spazio e del passaggio tra un tempo funzionale e un tempo non funzionale nella creazione.
Una domanda paradossale: secondo te, si potrebbe oggi utilizzare la stessa distinzione che era ed è tuttora in uso per il cinema e parlare di una fiction d’autore e di una fiction commerciale?
Credo che questa distinzione si sia generata in un tempo che non è più il nostro, dentro paradigmi culturali che non sono più i nostri: che questa dicotomia, insomma, non ci aiuti più a interagire con la complessità del reale. Se volessimo continuare ad usarla, e volessimo applicarla alla fiction, troveremmo già un cortocircuito, per esempio, in una realtà come quella della televisione americana, che ha trovato proprio nella centralità dell’autore la sua risposta commerciale più convincente. Si tratta di una logica di “diritto”, dei cosiddetti “creative rights”, ma si tratta in fondo anche di una logica trascendente. Negli Stati Uniti il sistema editoriale televisivo ha trovato un equilibrio di efficienza tra gli anni Ottanta del secolo scorso e gli anni Dieci del Duemila proprio massimizzando il valore economico nella massima ricerca di originalità. Quando grandi idee “tout public” come ER ottenevano un successo planetario, ci si accorgeva che a fare la differenza ‘commerciale’ era stata proprio l’identità stilistica del prodotto. All’interno di questo processo, è andata affermandosi l’idea che la pietra preziosa da cercare sia l’idea, e non l’idea qualunque ma l’idea di un autore, e non di un autore qualunque ma di uno che la sua idea sappia gestirla, accudirla e svilupparla. In assenza della pressione della necessità commerciale, non ci sarebbero stati serie come Lost, Desperate Housewives e Grey’s Anatomy, che nel 2004 hanno portato la ABC dall’ultimo al primo posto televisive degli incassi pubblicitari. Ma in assenza di questo processo, non avremmo oggi nemmeno una serie come Mad Men che ha risvegliato e sfidato gli intellettuali alla narrazione televisiva e che sfida la creatività dei grandi romanzieri con un prodotto sofisticatissimo e di certo non rivolto al pubblico generalista. Il fatto è che con Mad Men, a processo già avanzato, la logica dei grandi numeri è potuta diventare logica dei numeri di qualità. Perciò, tornando alla definizione di partenza, credo che la distinzione tra commerciale e autoriale non sia più capace di descrivere le dinamiche reali dell’editoria e dell’autorialità contemporanee.
Parliamo invece dell’autore di fiction in Italia: dal di dentro, che cosa puoi raccontarci?
Il mondo editoriale italiano è fatto, come tutti sanno, di pochissimi editori, ovvero Rai e Mediaset con un solo canale per ciascuno, più rari pezzi di Sky e Fox che in ogni caso non fanno sistema. Tutte queste produzioni hanno grande lentezza nel rinnovare l’offerta, e l’esiguità dell’offerta determina che il rapporto tra l’editore broadcaster e il singolo prodotto da lui scelto sia un rapporto molto forte, fondato sull’ossessione di affermare l’identità del broadcaster nell’identità del prodotto. Ci si è così equilibrati attorno a un baricentro, ovvero all’idea che il vero autore sia l’editore, ciò che ha generato conseguenze e sui processi di selezione e sullo sviluppo dei progetti. Di fatto, una parte estremamente rilevante delle prerogative che nel sistema americano o anche semplicemente nel cinema fanno capo all’autore, si sono spostate nella tv italiana in capo all’editore.
E il pubblico della fiction italiana, in tutto questo?
I dati Auditel sono disponibili a tutti, basta cercare su www.tvblog.it. Ma illuminante da questo punto di vista è stato anche l’esito di un convegno organizzato dall’associazione 100autori a Roma nel luglio 2010. Il pubblico oggi si è frammentato e ha articolato i suoi consumi. Nella fascia oraria della prima serata, molti si sono spostati sulla rete. Un anno fa il picco su Internet era a mezzogiorno, diciamo nella pausa ufficio, ed era quantificato attorno al 10% di share, mentre oggi si è spostato attorno al 14 % di share nell’ora del prime time! Se poi analizzassimo meglio questo dato rispetto al tipo di pubblico che usa la rete, un pubblico relativamente colto e relativamente giovane, la prospettiva si farebbe di impressionante complessità. Quello che è accaduto, di fatto, è che il pubblico si è diversamente distribuito. Il pubblico degli affezionati alla fiction della televisione italiana si è ridotto e va riducendosi, ovvero riduce la sua varietà nella composizione sociale, culturale e geografica, va omologandosi sempre più ed esclude sempre più larghe fasce di spettatori potenziali: quelle al di sotto di una certa età, al di sopra di un certo livello culturale e al di là di una linea geografica. La fiction televisiva, vista in questa prospettiva, si specializza nel soddisfare una nicchia che una volta era sempre nicchia ma larga e oggi invece si fa sempre più stretta. Questo vuol dire che il sistema è sempre meno efficiente dal punto di vista economico, perché non rinnova l’offerta né sul piano formale né sul piano delle differenze e specificità del pubblico.
Nel tuo percorso, ti sei occupato a lungo anche di drammaturgia per l’infanzia. In che modo questa esperienza entra nelle tue riflessioni e nelle tue pratiche attuali di narrazione televisiva?
Durante gli anni Novanta, anche quando la mia vita non era più in Emilia ma già a Roma e si legava sempre più al lavoro per la televisione, ho avuto una lunga esperienza di lavoro drammaturgico con il Teatro Gioco Vita di Piacenza e con le sue produzioni di teatro per l’infanzia riuscendo anche, da questo osservatorio privilegiato, a gettare uno sguardo ad ampio raggio sulla drammaturgia per l’infanzia italiana ed europea. Non c’è dubbio che questa lunga pratica mi abbia addestrato e educato alla necessità della chiarezza, che sempre implica la necessità della precisione. E parlo, essenzialmente, di una chiarezza e di una precisione nel racconto delle emozioni. Oggi, quando scrivo per la televisione, sento di rivolgermi agli spettatori come a bambini, in un senso alto: non perché siano o debbano essere poco capaci di comprendere, ma perché sento in loro quel bisogno infantile che in ogni animo resta e non muore, il bisogno di ascoltare storie raccontate in modo chiaro e preciso, ovvero raccontate con quel rispetto che ti permette, come spettatore, di prendere posizione. Ecco, questo senz’altro me lo porto dentro dall’esperienza del teatro per l’infanzia, e in particolare di un teatro di figura come quello di Gioco Vita, un teatro che esige la parola sintetica a servire la chiarezza del dramma, del conflitto e della scelta. In questa chiarezza, credo, consiste anche il nodo di difficoltà dei miei allievi di scrittura: nel riuscire a conquistare la capacità di leggere se stessi e quindi di arrivare a comprendere se e quando si sta dicendo davvero e in modo chiaro ciò che si crede di voler dire.
[Immagine: Jon Hamm (Don Draper) in Mad Men (gm)].
bellissima intervista! complimenti a lplc per aver deciso di pubblicarla: l’attenzione verso le serie è sicuramente indice di una benemerita attenzione più generale verso la reale concretezza dell’industria culturale oggi. non nascondo (anzi!) di essere un appassionato spettatore di serie televisive (passione che, per me, rientra in una più ampia affezione verso la rete come strumento di “lettura generale”). ho potuto apprezzare la complessità narrativa e di merito, oltre alla bravura registica e attoriale, che più di una serie propone. soprattutto, però, per esempio di serie come lost, mi affascina la capacità di generare un campo di narrazione e immaginario, in parte pilotato (secondo la logica del grand master), in parte ritornando nelle comunità on line con continue citazioni, parodie, riformulazioni. not pennys boat ;-)
Quest’intervista è a tratti pericolosa. Lo dico con rammarico, con preoccupazione, senza alcun intento polemico. Conosco bene l’argomento: ho una solida formazione critico-letteraria e da qualche anno ho cominciato a seguire alcune serie televisive inglesi e statunitensi, in principio semplicemente per allenare l’orecchio all’inglese. Ho visto Mad Men, Twin Peaks, Breaking Bad, Skins, Misfits, perfino Battlestar Galactica e Game of Thrones, me ne sono fatto coinvolgere e sono stato spesso colpito dalla qualità: non mi si può accusare di snobismo. D’altro canto, conosco molti miei coetanei, di formazione rigorosamente filosofica o letteraria, che da qualche anno vanno sostenendo in giro l’altezza artistica e la complessità di pensiero delle serie televisive americane: partiti magari da Mad Men o da Breaking Bad, arrivano oggi a includere il Doctor House e Lost, o tutta quella tetra paccottiglia sulle scene del crimine, gli psicologi di serial killer, i sensitivi etc. Di fronte a certe argomentazioni, da parte di persone per altri versi anche stimabili, provo nausea e timore. Basterebbe usare Benjamin nel modo giusto, senza la neutralizzazione in stile “parco giochi midcult” con cui lo si deturpa oggi, per ridurre a zero tutte le chiacchiere pseudocritiche e pseudofilosofiche che si possono fare a proposito. Se poi mi si nominano, a dimostrare l’indimostrabile, le chiacchiere in forma di libro di gente macabra e grottesca come il Regazzoni o la Berbero, persone che andrebbero umiliate pubblicamente ogni qual volta aprono la bocca, animali da sagra pop che perseguono cinicamente il successo con la loro pervicace opera di immiserimento del pensiero, io non ci sto. Tutta l’impalcatura della filosofia pop, del pop d’essai, dell’allegria vetero-contenutistica dell’intellettualità generalista, l’alleanza quanto mai tenebrosa tra accademia e palinsesti editorial-televisivi, è uno dei capitoli più cupi della cultura europea postmoderna – un’aria di vecchiume e di semplificazioni da liceo che ci vuol essere venduta come ultima moda, il peggio che potesse fermentare dal cadavere in marcescenza del postmoderno. A confronto, l’elitismo classicista dei modernisti era di una carica sovversiva pari al brigatismo. Non dico voltiamoci indietro a sospirare, non dico ignoriamo la televisione e il pop, non dico fossilizziamo la letteratura in un emblema: ma movimento non significa sbracatura e conoscenza non significa gaia regressione, non cerchiamo di giustificare le nostre umanissime tentazioni da pubblico televisivo con una Weltanschauung decadente che già è una parodia di se stessa, tanto più mortifera quanto forzosamente sorridente:
“Basterebbe usare Benjamin nel modo giusto”. Sono d’accordo.
Assolutamente innegabile che ci sono serie televisive più attraenti di altre, ma di che percentuali si tratta? Come si può parlare di ” Rivoluzione estetica “? Quante migliaia di ore di schifezze televisive si producono nella fiction americana rispetto alle poche decine di ore decenti? Quello che non mi convince, in analisi come questa (a parte la retorica autoriale), è far coincidere il gusto del pubblico delle fasce sociali medio alte con il nuovo, con il bello, finanche con il giusto. Perché invertendo i fattori si fa coincidere il gusto popolare con il vecchio, con il brutto e con l’ingiusto. Allora, non so perché, mi tengo il posto al sole e il medico in famiglia. Anzi, lo so il perché: perché so che la macchina di produzione della narrazione sta in mano alle classi dominanti, che la usano a proprio favore (e pure ci fanno i soldi…), per rappresentarsi come esseri più avanzati di altri (si pensi alla dominanza bianca, in queste narrazioni, alla preponderanza ebraica, al benessere che in genere avvolge i protagonisti delle fiction, assolutamente incuranti delle vere proporzioni numeriche). E poi, se vogliamo rimanere sul piano estetico, si dimentica sempre che già negli anni ’80 in Europa si faceva fiction di qualità altissima, penso a Berlin Alexanderplatz di Fassbinder, a Heimat di Edgar Reitz. In Italia pure si fa fiction non affatto disprezzabile – sempre in termini percentuali risicati – penso a serie come la Squadra, Raccontami, Amiche Mie, Romanzo Criminale, Boris (in tempi precedenti, la Piovra). Così come in Italia si è avuto, per un certo numero di anni, il coraggio intellettuale di produrre una serie irripetibile come Cinico Tv (per non dire Televacca); ché se si tratta di sostenere fiction innovative, bisogna che lo siano rispetto al gusto di tutti, non solo delle fasce di pubblico caciarone. Ecco, questo è il problema. La tesi dell’intervistato, infatti, tende a mettere ancora di più nell’angolo il pubblico caciarone. Ciò mi fa riflettere, perché facendo finta di nulla (come si fa anche con la lettura) si portano al centro della discussione i prodotti di narrazione più amati dal pubblico colto, in fondo in fondo per portare al centro se stessi, cercando di vieppiù legittimare i propri privilegi (reali o aspirati) in nome di una superiorità che altrimenti non so definire che antropologica. Può darsi che mi sbagli…
“Quello che non mi convince […] è far coincidere il gusto del pubblico delle fasce sociali medio alte con il nuovo, con il bello, finanche con il giusto”
beh però è da dimostrare che sia posta questa equivalenza. tanto più che i serial hanno un pubblico trasversale. detto questo, dato che è pur vero che la classe egemone è egemone anche nella definizione del gusto, la questione semmai mi sembrerebbe porre in questi termini il problema piuttosto che ipotizzare una specie di operazione di politica culturale spicciola.
ultima cosa: l’appunto sulla “preponderanza ebraica”, oltre a suonare un po’ male messo così, non mi sembra troppo calzante. è vero che ci sono serie che sfruttano la tradizione dell’umorismo ebraico ma rappresentano una nicchia (per altro credo, ora, neppure troppo vivace).
Sì, Bortolotti, ” la classe egemone è egemone anche nella definizione del gusto ” è esattamente quello che volevo dire.
Il pubblico trasversale, non è completamente vero: in Italia almeno le serie citate vengono trasmesse dalle tv a pagamento e seguite dal pubblico più benestante…
Vabbè, l’importante è parlarne, d queste robe, inutile andare a cercare il pelo nell’uovo: l’avevo già detto, può darsi che mi sbagli… Però non mi va di passare anche da antisemita (che già debbo sedimentare l’etichetta di seminatore d’odio nelle patrie lettere…). Io ho scritto così: ” si pensi alla dominanza bianca, in queste narrazioni, alla preponderanza ebraica, al benessere che in genere avvolge i protagonisti delle fiction, assolutamente incuranti delle vere proporzioni numeriche “. Intesa senza nessuna venatura antisemita, l’espressione preponderanza ebraica suona benissimo, perché non lo invento io che Hollywood appartiene ad affaristi ebrei (così come i grandi gruppi editoriali), che pare ne facciano anche una questione di cultura e religione di appartenenza. Lo stesso Marlon Brando, nel 1996, polemizzò ferocemente contro la lobby ebraica, in una nota intervista al Larry… King Show: “Gli ebrei, che sono stati sfruttati nel corso della storia, dovrebbero essere molto più sensibili alle razze che vengono sfruttate adesso”. Altre centinaia di testimonianze si potrebbero portare. Quello che volevo dire io, però, è che le fiction soprattutto americane tendono a perimetrare alcune comunità, quelle vincenti, a evidente danno di altre. Infatti si sa tutto di come vivono gli ebrei, ma poco, pochissimo, di come vivono i musulmani, i buddisti, finanche i cristiani; tutto di come vivono i giornalisti, gli architetti, gli psicanalisti e gli avvocati, ma poco, pochissimo, di come vivono gli operai, i sottoccupati e i disoccupati. Quando sappiamo bene che nel mondo c’è un ebreo ogni 50 appartenenti delle altre religioni monoteiste (se va bene). Lo stesso rapporto che c’è tra le categorie di persone descritte e quelle taciute. Per non parlare dei neri, troppo spesso assenti dalle narrazioni, da Sex and the City a Desperate Housewives. Ma non per colpa dell’umorismo ebraico… ché lo stesso nel cinema di Woody Allen di neri se ne sono sempre visti pochi… mi sembra che se ne era accorto anche Roberto Bolano in 2666.
però il discorso che in parte pare emergere è che – tardivo il riconoscimento – a compensazione questo vado esteso quasi ecumenicamente a tutta la produzione seriale.
se “the wire” solleva questioni forti (già su lplc visitate) e in generale david simon pare un dickens venato di “verghismo” (per l’enorme respiro della sua narrazione polifonica che affonda spesso nel buio di contesti sociologici impedenti l’emersione dei coinvolti), a parte i soliti mostri sacri hbo e qualche eccezione d’altri network, mi pare ci sia una fecondità di letture forzate volte, come già detto, a autoratifica del proprio buon gusto da “easy watchering”.
c’è effettivamente una stagione assai feconda (ma lost mi pare fenomeno di abnorme e ingestita “trickeria” hitcthcockiana, più che portatore di chissà quali riflessioni filosofiche) e servirebbe in effetti un po’ d’indirizzamento vista l’abnorme produzione – solo a vedere quel che succede negli stati uniti, tra l’altro.
poi che torcendo derrida o anche deleuze si riesca a cavare pure sangue da una rapa, rende il tutto ancora più etereo…
Fu nominato Un posto al sole, perla della serialità nostrana. Oggetto di studio presso le facoltà di Scienze delle comunicazioni da almeno una decina d’anni. Chiunque riesca a vederne una puntata, non potrà fare a meno di sbottare: “è una cagata pazzesca!”. Ma quanto ci vuole per parlare brillantemente bene di Un posto al sole? Tempo fa ho tentato l’esperimento tra amici, per provocazione. Qualcuno mi ha preso perfino sul serio. Già che ci siamo, copio e incollo a vostro ludibrio. Bastano un paio di strumenti alla mano e una buona dose di cinismo per elevare di rango qualsiasi cosa – nel mio caso, ahi me, per quanto la materia prima sia tutta originale, non ho resistito al registro ironico:
Un posto al sole è diventato un laboratorio di ardito sperimentalismo cinematografico, con registri da commedia, dramma sentimentale, thriller, pamphlet sociale o edificante, tragedia: tutti compresenti e intersecantisi, in uno sfoggio di virtuosismo senza precedenti nell’ambito della fiction italiana. La sceneggiatura è semplicemente geniale, assolutamente sopra le righe, un pastiche letterario. Ha contemplato ultimamente, fra l’altro: una storia lesbo tra danarose carampane, il camorrista ravveduto in odore di santificazione, la prostituzione maschile, i neomelodici, una morte per acqua poi rivelatasi falsa, l’obesità, una pseudo-intellettuale con manie di suicidio, abusi infantili da parte di fratelli psicotici, l’emergenza rifiuti, lo stalking e il gioco d’azzardo, la sfiga, una vincita alla lotteria, l’ospedale, i giovani e la discoteca, la crisi, i rapporti tra camorra e imprenditoria, vari consigli d’amministrazione, rapimenti di bambini, la spiritualità new age. Insomma qui si aspira a fare un’opera-mondo, aperta al divenire, e costantemente aggiornata alla notizia del giorno, al clima, al calendario (il giorno di Natale i bambini aprono i regali, quando c’è la partita del Napoli i protagonisti si riuniscono per seguirla, e così via). Ma ciò non toglie che tutta questa materia incandescente sia disciplinata da una forma e da una tradizione bene individuate, a partire dallo smarmellamento delle luci in tipica salsa soap, passando per le location riprese – anche in esterno – sempre dalla stessa angolatura, fino all’immancabile cliffhanger in coda d’episodio. I ruoli dei personaggi di più lunga gittata sono spesso ribaditi con tipici espedienti metateatrali da commedia plautina, o tramite autocitazioni, imitazioni reciproche, forzature nel meccanismo narrativo che si giustificano solo a un secondo grado di lettura. Ogni trovata eccentrica è ribadita entro i limiti sovraesposti del genere, come avviene per opere al confine tra manierismo e parodia (si pensi solo, per rimanere in zona, al Candelaio di Giordano Bruno). Insomma Un posto al sole sa integrare i piani più eterogenei di realtà – altrove accuratamente selezionati a seconda del sottogenere di riferimento – entro un disegno corale organico, che adopera il realismo con un intento a suo modo classicista – chiaramente di un classicismo attinente al proprium delle serie televisive. Lo dimostri il momento in cui Andrea (o almeno credo) tenta di riconquistare la sua donna tampinandola al bar con una sorta di serenata neomelodica via stereo che recita “Qui tre metri sottoterra / je mo’ stu cielo nun o’ veco cchiù”, cui partecipa una gioventù danzante volutamente grottesca e caricaturale, e come la disperazione di lei prosegua, dopo uno stacco, in una scena di solitudine domestica cui fa da contrappunto la stessa melodia in salsa drammatica. E si compari questa scena all’explicit dell’episodio: vediamo l’arcidanaroso, a-tratti-cattivo-ma-premuroso-verso-il-figlio, torvo e corrucciato Roberto Ferri, a capo dei celeberrimi cantieri Palladini e vero signore del Palazzo Palladini (ove i destini di tutti si raccordano), avvicinarsi con aria ambigua alla sua giovane, stronza-ma-un-po’-pentita, fedifraga moglie, e dopo un campo e controcampo dei due volti, col climax musicale a commentare la faccia sempre più funerea di lei e lo sguardo cattivo e/o compassionevole di lui, le dice:
“Greta… sono arrivati i risultati del test di paternità.” Altri cinque interminabili secondi di sguardi in tensione, e poi stacco. Sigla.
@maxime
esattamente. Mad Men e The wire possono meritare uno sforzo di comprensione e di giudizio, per dire, ma la massa della serialità televisiva – massimamente statunitense – no. Quindi nessuna “rivoluzione” in senso stretto. Come al solito occorre saper distinguere, e saper prescindere dalle proprie personali simpatie perversioni idiosincrasie: il che vale anche per le forme d’arte più tradizionalmente elitarie.
@No!
penso anch’io che ci sia in effetti un giusto fermento d’analisi ma precoce barricare d’autorialità e letture alte un fenomeno ancora incipiente. certo che che rispetto agli anni 80\90 la situazione è “drammaticamente” migliorata (ma magari esistono serie di allora che han retto il tempo? da pischeletto guardavo mcgyver, a-team… robaccia; “il prigioniero” e “dr who” sono sixties, e britanniche: gli ottanta\novanta del reaganesimo rampante hanno posticipato lo svezzarsi del “cigno” attuale?)
anche i videogiochi ogni tanto sollevano la questione “artistica”, però lì è effettivamente prematura. forse le serie mutuando così tanto dal cinema (e trovandosi la hollywood mainstream in crisi nera d’idee e d’autori), nel momento in cui la qualità è salita si sono trovate subito portate sul carro dei meritevoli di trattazioni inter\multidisciplinari a prescindere
“Mad Men e The wire possono meritare uno sforzo di comprensione e di giudizio” (@No!)
Questo mi sembra il punto importante dell’articolo e del fenomeno che cerca di mettere a fuoco. L’esperienza della visione di serie TV ha fatto un salto di qualità e di quantità, a partire da serie come “Sopranos” fino a “Mad Men” e “The Wire” – questo lo si ricava sia da una riflessione sulla propria esperienza di visione, sia da indizi sociologici (anche se osservati in modo non sistematico) come le strategie di produzione e di marketing, il consumo, la presenza significativa di questi oggetti nel discorso pubblico.
Questo salto quantitativo e qualitativo di un genere come il serial TV è il fenomeno interessante, sia per una “lettura interna” delle opere d’arte audio-visive, sia per una loro “lettura esterna” (diciamo, di sociologia dell’arte).
Dal mio punto di vista penso che la riflessione sulla serialità televisiva si trovi ad affrontare oggi un problema analogo a quello che si trovò ad affrontare la teoria del cinema agli albori del cinema stesso. Ovvero ruota intorno alla domanda, centrale, su quali dovrebbero essere gli strumenti critici adatti ad affrontare questa nuova forma di espressione.
A partire dagli anni ’70 e per tutti gli anni ’80 e ’90 la serialità televisiva è stata affrontata dalla sociologia che era interessata soprattutto alla ricezione e alle strategie di decodifica messe in atto dal pubblico. In tempi recenti sono stati i cultural studies ad affrontare l’oggetto nell’ottica di individuarne i discorsi egemoni della cui esistenza ricordava qualcuno in un precedente commento.
La teoria del cinema e quella letteraria (più avanti spiego perché la includo) se ne sono disinteressate, specialmente la prima che non concedeva alla televisione il privilegio del linguaggio, guardandola come una sorta di fratello minore un po’ balbuziente.
Ora ci si sta accorgendo che ci sono alcuni prodotti che stanno rivendicando una dignità estetica, ma come definirla? Con quali attrezzi concettuali?
La teoria del cinema può aiutare in certi casi, ma non è sufficiente per esaurire il discorso sulle serie, perché queste non sono solamente dei costrutti visivi. Se ci si fa caso di una serie si ricorda il creatore (come si dice con acume qui http://jumpinshark.blogspot.it/2012/03/su-mad-men-5×01-02-e-tutto-il-resto.html) e non tanto il regista (che spesso cambia di episodio in episodio) il quale fa parte della bottega creativa da cui nasce un prodotto seriale.
Inoltre, quando si parla di serie ci si concentra molto sulla scrittura e sul lessico della scrittura per descriverle (si parla di narrativa seriale, di una serie si dice se è scritta bene oppure no, ecc.).
Credo che una critica e una teoria del linguaggio della serialità televisiva si trovi all’incrocio tra la teoria del cinema e quella letteraria e sia ancora da venire in maniera compiuta, poiché nell’evoluzione del genere si è cominciato a privilegiare dapprima la scrittura e solo in un secondo momento la dimensione visiva (cinematografica).
Vedo molte affinità tra il dibattito teorico sulla serialità televisiva e sui videogiochi, perché entrambe sono forme di espressione che solo in tempi recenti hanno provato e stanno provando a rivendicare una dimensione estetica per la cui analisi non abbiamo ancora degli strumenti concettuali chiaramente definiti
Nella seconda serie di Desperate personaggi di colore c’erano, in Scrubs (una delle mie serie preferite) tra i protagonisti ci sono un nero e un’ispanica, il fratello di Barney Stinson in HIMYM è gay e afroamericano, personaggi neri fissi si trovano nel cast di Grey’s anatomy, Ice T recita in Law & Order Unità vittime speciali e gli esempi possono continuare (non dimentichiamo Lincoln Heights e una serie animata satirica e “politicamente scorretta” come The Boondocks di Aaron McGruder) Quello che a me interessa è la qualità della serie-tv, il fatto che racconti storie avvincenti con personaggi credibili e non il mestiere, lo status sociale o l’etnia dei protagonisti
mi sembra che il punto sia colto perfettamente da el_pinta, sia sul versante serial che videogiochi. per altro, un aspetto che non possiamo ignorare è che quando parliamo della produzione culturale di massa (uso questa espressione anche se è ormai completamente svuotata di senso – e soprattutto, fortunatamente per conto mio, del senso che aveva una volta) la dimensione estetica e formale non è mai definitiva e, sebbene necessaria, non è assolutamente sufficiente a dare conto del prodotto, della fruizione, del gioco di significati, valori e così via che mette in moto. in questo senso, l’esempio più lampante lo abbiamo nel campo della musica pop ma ormai è un’acquisizione di buona parte dell’arte contemporanea, per dire. anche perché permette di affrontare queste questioni mi sembra benemerita la pubblicazione dell’intervista.
quella sui videogiochi è anche un’analisi che m’interessa molto. una qualche specificità “artistica” lì però mi è sempre sembrata altissima – mi riferisco soprattutto alla scuola degli action giapponesi, un po’ meno ossessionata a meccanismi narrativi di fruizione passiva – in quell’elemento proprio e solo del videogioco che si riassume con la parola fumosissima che è “gameplay”, cioè la bontà dell’impianto ludico, le regole che permettono una riuscita (e quindi per forza divertente? anche lì mi pare s’annidi un problema specifico di questo media) interazione.
l’intervistato non pare comunque affetto da una qualche balbuzie contenutistica, sicuro com’è dei suoi strumenti d’indagine e assertivo di realtà che l’italia, as usual, ha tardivamente recepito (e mal riformulato, tranne rari casi, leggi i boris e romanzo criminale del caso).
benemerita direi, l’intervista, per l’indotto di discussione dirottata su lidi più interessanti, giacchè più “malfermi”
Anche a me piace Un posto al sole. Ne seguo le vicende dalla primissima puntata (alcune le ho perse perché non sono un fanatico dei posti al sole). Penso, nonostante alcune perdite, che sia la migliore soap italiana.
Aprirei volentieri una parentesi su Cento Vetrine dove dai pochi lampi d’occhio che gli ho lanciato negli anni credo sia la peggiore cosa che naviga nei cieli radioattivi italiani. Ho anche iniziato a pensare che lo facciano apposta a fare una roba così scadente, per recitazione, fotografia, sceneggiatura e regia. Oggi ne sono convinto. Ci vuole anche bravura ad incartare un pacchetto così fetuso. Borat non è la parodia di come si possa fare una fiction tanto penosa? chissà quanta ispirazione!
Poi c’è real time come etere televisivo aparte come dice Di Pietro. Ha dei colori diabetici, da collirio negli occhi, da gelato avvelenato. Mi spaventa. Spero mi chiamino per fare l’autore di un programma sui cartomanti poveri. Quegli stessi indovini che vengono ignominiosamente picchiati dai celerini di Striscia la notizia… tanto so’ poveracci… Striscia la notizia… per dire un altro programma carico di floride visioni e tutto fiori e plausi italici.
(Se Ezio Greggio – sono due le g vero? – è un comico io sono Andy Kaufman).
A me sembra semplicemente che le serie televisive, le fiction, e i programmi della tv non vogliono trasmettere la povertà. Se il telespettatore, quando non tele aspetta, non fa altro che scansare la testa dai poveri, ed i poveri da sé stessi, perché se li dovrebbe ritrovare a cena? Meglio allora (se proprio dobbiamo vederli, questi poveri) servirli colpevoli di qualcosa. Ecco allora che i cartomanti di Striscia la notizia sono succulenti.
Farei notare che c’è una rete chiamata MTV dove vanno i video delle canzoni. Il novanta per cento delle hits sono cortometraggi musicati dove il più povero ha lo yacht e una mercedes. Ispanoamericani o afroamericani sembrano avere i redditi più alti del globo terracqueo. ditemi un po’ voi…
Insomma, possiamo dire tante cose, ma che ci sia una certa tendenza ad allontanare tutto ciò che non è prosperato o che gonfia le vele verso la prosperità è difficile da negare.
ps: Larry ha citato Woody Allen. Ovviamente i film di WA ce li teniamo tutti, pure quelli meno riusciti, ma che la sua narrativa cinematografica sia stata per vari decenni (e lo rimane per protagonisti e situazioni anche dopo la sterzata di pubblico di Match point) ad esclusivo appannaggio di elite e borghesie varie è una verità secca e sputata, tanto che se scorrete col carrello della memoria a Stardust Memories dell’80 (che volle essere l’8 1/2 di Allen) c’è una riflessione metacinematografica condotta da WA e una ragazza raccattata lì, riflessione su come leggere Ladri di biciclette, e mentre la ragazza tirava per accentrare la sua componente sociale sulle altre, Allen inizia qualsiasi valutazione sgrassando il film di questa condizione di miseria.
Cose e cosucce.