[E’ uscito da poco il nuovo numero di “aut aut”. Proponiamo qui un articolo dalla sezione monografica, dedicata al tema Prendersi cura delle parole]

 

 

di Ilaria Papandrea

 

Non c’è altro trauma: l’uomo nasce malinteso.[1]

 

 

Cura delle parole. Parole da salvare… Non si può che girare un poco in tondo, senza affrettarsi a credere di aver compreso. Che cos’è quel curare/salvare? E le parole? Come prenderle? Sempre che non ci abbiano già preso.

È forse il caso di cominciare con una sospensione. Sì, ecco, ci vorrebbe un “alt”, un “fermo immagine”, qualcosa che ci dia il tempo di rendere meno stretti certi nessi, per esempio quello fra due parole: cura e malattia. Le parole potranno anche non portarsi attaccata alla suola delle loro scarpe – ci piace immaginare che ne abbiano – le cose delle quali dovrebbero parlare, ma non mancano di portarsi dietro catene di altre parole. Detta una, ce n’è già un nugolo pronto in agguato. Saremmo sorpresi di scoprire quante sono le vie di queste concatenazioni. Alcune corrono lungo il filo del cosiddetto “senso”, che non ci mette poi troppo a diventare “comune”. Il senso funziona come un condensatore, fa un po’ come il magnete con la polvere di ferro, attira la limatura e dopo aver esercitato la sua attrazione un certo numero di volte, senza quasi che ce ne accorgiamo, cominciamo a credere che ci siano delle congiunzioni naturali. Dall’inerzia del senso risulta alquanto difficile svegliarsi. Ma ci sono poi anche altre concatenazioni. Sono meno corpose, forse perché invece di percorrere la via del senso, si attaccano a brandelli di parole e partono da questi per costruire altri percorsi e scavare le proprie vie.

Se ne era accorto Freud, impegnato ad analizzare un proprio atto mancato.[2] Mentre la sua memoria falliva a ricordare un nome, qualcosa riusciva proprio così come avrebbe dovuto, offrendogli una parola per un’altra, un nome per un altro. È sempre salutare rileggere queste pagine di Freud. Per inciso: l’aggettivo “salutare”, che salta fuori, è un bell’esempio di come le parole ci parlano (ci andrebbe letto come complemento oggetto e non come complemento di termine, quasi fossimo noi, che crediamo di padroneggiarlo, gli oggetti parlati dal linguaggio). La “salute” rispunta infatti fuori, senza che la si sia troppo cercata, segue come un vagone il resto del convoglio e si aggancia a “cura” e “malattia”. Guarda caso, è su queste stesse faccende che si arrovellava anche Freud, mentre su un treno diretto da Ragusa in Herzegovina si intratteneva a discorrere col suo compagno di viaggio.[3] Parlavano, come capita di fare quando si viaggia, spostandosi da un argomento all’altro.

Dopo aver scambiato qualche parola sugli abitanti di Bosnia e Herzegovina e sulle caratteristiche dei turchi che abitano quelle regioni, il discorso si sposta sull’Italia e sulla sua pittura. Freud vuole invitare il suo compagno a visitare Orvieto e ammirarne gli affreschi della cattedrale, ma la sua memoria fa cilecca. Non ricorda il nome del pittore che li ha dipinti. I nomi propri, ci dice, sembrano spesso subire la sorte di venire dimenticati sul più bello.[4] Potrebbe prenderla come una défaillance, di quelle che capitano e che lasciano un certo amaro in bocca (forse perché il nome è lì, sulla punta della lingua, ma non vuole saltar fuori). Freud, però, non si accontenta, non gli basta annotare questa fallacia della memoria. Non è il buco ad attirare la sua attenzione, ma la pezza che lo rattoppa, quel Botticelli e quel Boltraffio che prendono il posto del Signorelli dimenticato. Lo schema di Freud è magistrale.[5] Le parole, in questo caso i nomi, si scompongono in elementi più piccoli. Freud le frammenta e racchiude questi frammenti in circoletti e piccoli rettangoli, collegati da frecce che si muovono in varie direzioni. Più che una pezza, quel che salta fuori è una vera e propria tessitura che si snoda e annoda i diversi frammenti fino a comporre una rete sul buco della morte, dell’impadroneggiabile (Signor Herr) per eccellenza. La dimenticanza del nome non è presa come un semplice deficit della memoria, da indagarsi in termini più o meno patologici.

Quel fallire nel ricordare e il nome che si fa avanti per tamponare la faglia rimasta aperta diventano per Freud una sorta di paradigma della formazione dei sintomi psiconevrotici.[6] È così che lavora l’inconscio, ci dice, mostrando sin da subito che questo non ha niente a che fare con una qualsiasi psicologia del profondo, e che interessarsi di un oggetto così particolare comporta un certo gusto per la lingua. Si tratta di leggerlo, l’inconscio, di leggere quel che si scrive per far emergere quel che insiste continuando a non potersi scrivere. Occorre appassionarsi ai détours, a quel girare in tondo, alla ricerca di una parola che finalmente potrebbe prestarsi a fare da anello di congiunzione nella catena, perché tutto sia finalmente dicibile, parola che continua a vedersi sostituita da altre, mai ancora quella giusta, le mot – potremmo dire se parlassimo francese – qu’il faut,[7] “che ci vuole”, ma anche “che manca”, strutturalmente.

Che cosa fa il medico, Freud, confrontato con l’angoscia di fronte all’incurabile, alla morte, ai misteri di una sessualità che non ha niente di naturale e di preordinato (nel caso del racconto di viaggio, è l’impotenza maschile, insomma, una sessualità che fa cilecca)? Accoglie quel punto di impossibile per interessarsi al modo con il quale lui stesso, così come ogni altro essere parlante, fallisce l’incontro con ciò che non si lascia prendere nel dire.

C’è un altro aspetto interessante in questo piccolo esempio freudiano. Se lo ripercorriamo ancora una volta, se risaliamo su quel treno diretto in Herzegovina, possiamo accorgerci che mentre Freud e il compagno di viaggio si intrattengono a conversare, mentre usano il linguaggio per la finalità che supponiamo essergli propria – vale a dire, per comunicare –, quel che si rivela è il modo in cui ciascuno di loro (Freud ce lo mostra chiaramente) è già menato per il naso dai giri che le parole fanno, da quegli agganci e sganciamenti di vagoni fatti di lettere inanellate, che vanno per una strada che, solo a posteriori, su un’altra scena – di analisi – si potrà ricostruire. Si parlano? Non si può certo negare che parlino l’uno all’altro, ma occorre forse aggiungere che mentre si parlano, ciascuno è anche già parlato dalle proprie elucubrazioni, diviso fra quel che vuole dire e quel che si dice a sua insaputa in quel nome che resta sulla punta della lingua.

Se il viaggio fosse più lungo, se i due condividessero il letto e non solo i sedili di quel treno, non ci vorrebbe molto per far saltare fuori che parlano senza intendersi: “Il parlessere […] si ripartisce in generale fra due parlanti. Due parlanti che non parlano la stessa lingua. Due che non si intendono parlare. Due che non si intendono e basta”.[8]

Dal treno alla camera da letto e poi, forse – non che sia scontato, ma talvolta accade –, al lettino dell’analista. Su questo si approda, il più delle volte, perché non se ne può più di avere a che fare con un altro che non ci intende, che si ostina a restare altro, rifiutandosi di perdere almeno un poco della sua estraneità. Basterebbe che si sforzasse di comprenderci e di farsi comprendere, per dissipare il malinteso e far riuscire un rapporto destinato altrimenti a fallire. Capita che a questo lettino si arrivi dopo essere passati per molti letti, perché il proprio è rimasto troppo a lungo deserto o perché il lui o la lei con cui lo si divide ha perso a un tratto quel brillio che ci aveva folgorato.

Ci sono infiniti possibili altri inizi, altrettanti modi, quanti sono i parlesseri, di declinare l’insopportabilità di un rapporto che non si scrive, il fastidio estremo per quel due che non si decide a fare uno. Il lamento che si indirizza all’analista non fa che girare attorno a questo punto di fallimento, alla faglia che si scava fra l’uno e l’altro per consegnarli a un destino di malintesi. L’invito a dire, la sola regola fondamentale dell’analisi, è l’invito a sperimentare, ogni volta di nuovo, che qualcosa non passa nel dire, che il fallimento è strutturale e che quella beanza senza sutura si scava nel cuore stesso del soggetto.

Ecco, forse il girare in tondo non era affatto un movimento accidentale, ma la condizione stessa nella quale siamo presi in quanto esseri parlanti, parlesseri, inventa Lacan. Il francese, la lingua in cui parla e dalla quale è parlato, fa risuonare in quel parlêtre, l’essere, il parlare, la lettera. Quest’ultima va persa, quando traduciamo in italiano. Tradurre senza resti, si sa, è un’impresa votata al fallimento, ma questo fallire può trasformarsi nell’apertura sorgiva di una creazione inedita, se solo si è acconsentito ad abbandonare la pervicace ostinazione che ci fa insorgere contro ciò che si ostina a non passare indenne da una lingua all’altra.

 

 

[1] J. Lacan, Le malentendu (1980), “Ornicar?”, 22-23, 1981, p. 11.

[2] S. Freud, Meccanismo psichico della dimenticanza (1898), in Opere, vol. ii, Boringhieri, Torino 1982. (L’esempio è ripreso anche in Id., Psicopatologia della vita quotidiana [1901], in Opere, vol. iv, Boringhieri, Torino 1982.)

[3] Cfr. ivi, p. 424.

[4] Cfr. ivi, p. 423.

[5] Ivi, p. 428.

[6] Cfr. ivi, p. 427.

[7] In francese la terza persona singolare del verbo falloir, dovere, e del verbo faillir, fallire, mancare, sono identiche.

[8] J. Lacan, Le malentendu, cit., p. 12.

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