di Pietro Pascarelli
Come nativo dell’Appennino Lucano, il mio tetto del mondo sempre luminoso e d’estate abbastanza caldo, di un caldo vero e solare ma non eccessivo sulle alture percorse da brezze, e che invece dilaga silenzioso e aumenta molto a valle, lungo i letti di fiumi e fiumare in secca, ho appreso presto che si deve bere assai piano, quando si è accaldati, vincendo l’impetuosa avidità d’acqua che la sete genera, insieme a visioni di ruscelli e fresche cascate, come quelle che mi aiutavano da ragazzo a percorrere a piedi con la gola riarsa, al ritorno dal campetto di calcio, i tre chilometri di salita che mi separavano dalle prime case e dalla prima fontana del paese. Bisogna bere a piccoli sorsi, questo sapevo, con lentezza assorta e prescelta. E bere diventa subito una manifestazione rituale nel dominio di sé in cui l’acqua ritrova il suo carattere di elemento sacro e anche mistico, perché simbolicamente unisce a qualcosa di invisibile e superiore che fa trasalire e tremare, e ha sede nei cieli cui salgono la contemplazione e la preghiera — e dai quali, come leggiamo nel canto XIV del Paradiso di Dante — scenderà un giorno la “ploia”, la sacra pioggia del divino amore, sotto la quale vi sarà la resurrezione dei corpi:
Qual si lamenta perché qui si moia
Per viver Colà su, non vide quive
Lo refrigerio dell’etterna ploia.
A questo canto della Commedia si rifà secondo Harold Bloom[1] anche Hart Crane, il grandissimo poeta americano dei primi del Novecento, nell’immagine finale del poema “La torre spezzata”. Riporto qui le due ultime strofe della sua “The broken tower”, in cui si parla della poesia, della fatica del poeta e del suo destino finale, trasfigurati, e la mia traduzione[2]:
And builds, within, a tower that is not stone
(Not stone can jacket heaven) — but slip
Of pebbles, — visibile wings of silence sown
In azure circles, widening as they dip
The matrix of the heart, lift down the eyes
That shrines the quiet lake and swells a tower…
The commodious, tall decorum of that sky
Unseals her earth, and lifts love in its shower.
[1932]
E costruisce, dentro, una torre che non è di pietra
(Non può la pietra rivestire il cielo) — ma cascata
Di ciottoli,— ali visibili del silenzio seminato
In circoli azzurri, che si allargano immergendo
La sorgente del cuore, abbassano lo sguardo
Che consacra il placido lago e gonfia una torre…
L’ampio, alto decoro di quel cielo
Le dischiude la terra, e innalza amore nella sua pioggia.
Il rito di misura nel dissetarsi rimette infinitamente in scena un momento di temperanza, nel senso antico e astrale (recuperato nella figura dei Tarocchi) di flusso di elementi fisici e di entità vitali, psichiche e spirituali. Un concetto in cui non importano solo il punto di partenza e l’approdo finale, ma anche il concetto stesso e il momento di travaso e scorrimento di questi fluidi, di qualcosa di puro ma composito e temperato, addolcito, attenuato — perché sia soave ora, nella memoria e nell’oblio. Qualcosa che nell’evanescente e imprecisabile sua durata assomiglia alla nostra volatile essenza soggettiva, ai soffi spirituali (psiche) che in infinita successione fanno la vita, e in essa il risuonare perpetuo della parola che respinge lo spettro di un grande silenzio finale.
Credo che si debba alla stessa scuola, al confronto con l’eternità, la particolare intensità dell’attenzione e dello sguardo che i vecchi dedicano al loro interlocutore, alla persona che sta parlando, interrompendo un tempo di silenzio ipnotico, per passare a un altro registro in quella piccola comunità vivente, al registro della parola in cui pulsano logos e vita. È un fatto che colpisce in un’epoca in cui nessuno ha tempo da dedicare a un altro (e cioè, metonimicamente, a se stesso). Dal riposo e dall’intima fantasticheria, mentre il sigaro brucia e mani stanno strette in grembo o riparano gli occhi dal sole per meglio guardare, da uno stato di beatitudine e di trance orfica ci si riscuote alla voce di un’altra persona che è vicino e dà da parlare. Anche in questo caso la scena ha caratteri rituali, il volto ha un’espressione di attenzione assoluta — con una modalità e un’emozione che si interiorizzano lentamente e non si improvvisano — la quale culmina in una concentrazione cui partecipano gli occhi e i muscoli del volto, e ha ed emana quel tratto particolare che è proprio di “una” vita, un’ecceità che sfugge all’anagrafe e alla burocrazia, e può essere una persona col suo solo nome proprio in un pomeriggio d’estate, come un fiume all’incrocio fra una certa sua ansa e le cinque della sera.
Attenzione a che cosa? A me pare che essa sia rivolta non tanto al contenuto del dire, alle parole, ma al dire stesso, al manifestarsi del prodigio della presenza dell’altro, che è quindi ciò che si saluta nella sua speciale istantanea dignità.
E intanto, in quelle care montagne lontane di crete ed erbe gialle che interrompono le ombre grandi dei boschi, in una luce che dissolve i colori, su grandi querce riposano le Muse:
Sulla collina
Io certo vidi le Muse
Appollaiate tra le foglie.
Io vidi allora le Muse
Tra le foglie larghe delle querce
Mangiare ghiande e coccole.
Vidi le Muse su una quercia
Secolare che gracchiavano.
Meravigliato il mio cuore
Chiesi al mio cuore meravigliato
Io dissi al mio cuore la meraviglia[3].
Il prodigio dell’esserci si riflette a sua volta nella rapidità estrema con cui anche può sorprenderci ogni scomparsa. Ed è la consapevolezza del carattere effimero della presenza, nella veglia continua dell’enigma e della fine sui viventi, che rafforza il suo valore nello sbigottimento di fronte all’abisso, a ciò che eccede smisuratamente la nostra minimale dimensione nell’universo naturale.
Un’energia sovrumana può metterci l’uno accanto all’altro, unirci e fonderci l’uno con l’altro, ma anche separarci o incenerirci, come la Bibbia e Pompei insegnano. Diventiamo una statua di sale o di cenere, a causa della poca fede e della violazione di un divieto, o solo per destino.
Si ritrova poi nella storia dell’umanità la possibilità di subire metamorfosi, che rispecchiano quelle del mondo naturale. Ad esempio — ricorda Elias Canetti in Massa e potere — per aver copulato col diavolo si diventa una strega, secondo quel che si credeva nei secoli passati, per un destino riservato solo al genere femminile, mentre il maschio può presentarsi come un abile e apprezzato trasformista, Il Trickster, il briccone principe delle metamorfosi che diventando sciamano può assumere infinite sembianze, parlare con gli spiriti e dominarli. E c’è chi subisce il divieto di una qualunque trasformazione, la condanna a non poter mai fare il minimo cambiamento, come il re della monarchie delle origini, che deve restare sempre giovane e forte, senza mai mostrare segni di invecchiamento, i quali possono costargli la vita.
Nella cupa angoscia che attraversa il tempo e in esso le esistenze, si può diventare un derelitto quanto disgustoso scarafaggio come accade — non si può non ricordarlo — al povero Gregor Samsa nel racconto La metamorfosi di Kafka, cui il padre ignaro un mattino allunga un calcio sdegnato.
Non sono escluse tuttavia trasformazioni non terribili ma anzi pietose e rispettose della vicenda singolare, ad esempio di certe ninfe, che danno una significazione comprensibile agli umani dei loro sentimenti di esseri eterei e anche arborei, acquatici, aerei, marini, che vivono però esistenze e passioni terrene. Gli dei pongono fine al panico di Dafne e all’inseguimento di Apollo che la incalza perdutamente innamorato, trasformandola in un albero di lauro, e similmente soccorrono Aretusa, salvata nella sua verecondia dalle insistenti profferte di Alfeo, che a sua volta ottiene di poter raggiungere come fiume sottomarino l’amata divenuta sorgente che sgorga a Ortigia, e di mescolare, con le sue, le proprie acque. Mi sembra tuttavia più fortunata la vivace e zampillante nuova forma di Aretusa rispetto a quella che dà rifugio a Dafne. Come albero, per quanto si dica che anche gli alberi camminano, in un certo senso, coi semi, e per quanto l’ondeggiare delle sue fronde odorose dia l’idea di un movimento arioso e felice, di una specie di abbraccio cosmico, nella sua forma nuova le è possibile solo un moto in luogo.
Jacques Lacan ha osservato come le incredibili linee di fuga del barocco consentano un’attenuazione dell’angoscia nel movimento delle linee, nel sottrarsi all’immobilità assoluta che accentua il dolore, nel fluido rifarsi incessante della materia nella sua rappresentazione in quello stile, che è anche quello delle sue provocatorie enunciazioni. Ma forse ciò che uno stile mostra come possibile via di fuga non corrisponde a una completa libertà, che è indissolubile dall’idea di potersi spostare, anche solo di poter vagare senza una meta, come Dafne faceva prima che Eros le tagliasse la strada nel suo innocente girare per boschi.
Ma prima, o invece, di folgorarci riducendoci a un mucchietto di resti fumanti in una radura del bosco, quelle potenze numinose, e il loro nunzio che ci abita, possono farci dono di altre cose speciali. Possono darci, oltre all’ebbrezza dell’amore che scuote e segna i corpi come una tempesta, la capacità di leggere nel cuore e nella mente dell’altro, di vedersi nei suoi occhi, di capire quanti altri mondi si nascondono dietro le quinte di quello che di volta in volta ci appare o alluciniamo perché desideriamo che sia.
C’è una porta nel mercato di ogni città che nessuno può vedere, e chi ha la ventura di varcarne la soglia entra in un’altra realtà parallela, in un mondo non più né meno misterioso e magico di quello che si dischiude in certe pagine di Carlos Castaneda, o in Through the looking-glass di Lewis Carroll. Attraversando lo specchio Alice entra in uno straordinario altrove in cui incontra Humpty Dumpty e i fratelli Tweedle Dee e Tweedle Dam (ripescati anche dai Beatles e da Bob Dylan). Di questo mondo incantato dice in poesia lo strampalato e geniale poemetto detto Jabberwocky, di cui cito pochi versi, e la traduzione di Tomaso Kemeny:
’Twas brillig, and the slithy toves
Did gyre and gimble in the wabe;
All mimsy were the borogoves,
And the mome raths outgrabe.
Era rombo e i fangagili chiotti
Girascavano e succhiellavano i pratiali;/:
Tutti erano infoli e cenciopi,
E lo spirdito primaticcio murpissi[4].
Oppure, secondo quanto ci dice il premio Nobel per la letteratura Olga Tokarczuk, ci viene donata semplicemente la capacità di un’intelligenza unica, che guarda oltre le singole cose, non le vede mai separate, e percepisce i collegamenti fra di loro secondo una trama di relazioni che rende infine intelligibile la carta del mondo.
Ci sono due modi di guardare. Con uno vedi semplicemente gli oggetti, cose utili all’uomo, oneste e concrete, si sa subito come si usano, a cosa servono. E poi c’è una visione panoramica, più generale, grazie alla quale si vedono i legami tra gli oggetti, le loro reti di rimbalzo. Le cose smettono di essere cose, il fatto che vengono usate è una questione di secondo piano, è solo apparenza. Ora sono segni, indicano qualcosa che nelle fotografie non c’è, che sta oltre i bordi delle immagini. Bisogna concentrarsi per poter mantenere quello sguardo che è essenzialmente un dono, una vera e propria grazia[5].
Ci sono in realtà molti modi di pensare le cose, perché è grande la distanza che da esse ci separa, in quanto ci sono le parole fra noi e le cose.
Moby Dick e Achab potrebbero essere considerati due rappresentanti del male, animati da ferocia e vendetta, ma nella lettura che ne danno Gilles Deleuze e Félix Guattari, come esempio di infinite altre possibili letture, di altrettanti effetti di linguaggio, sono votati all’inesistenza soggettiva.
“Moby Dick non è un individuo né un genere”, è nient’altro che un bordo, colpendo il quale si colpisce l’intera muta di cui è capo: “per me questa balena bianca è la muraglia, vicinissima a me [ ] A volte credo che al di là non ci sia niente, ma tanto peggio!“[6].
Ma Achab lo fa senza odio, dice al suo secondo di non avere “nulla di personale contro Moby Dick, nessuna vendetta da attuare, né alcun mito da condividere, ma ho un divenire!”[7] Per effetto di una spinta deterritorializzante Achab e la balena perdono ogni soggettività, escono dal loro guscio esistenziale per divenire l’uno balena, l’altra Achab. Fino a concatenarsi alla fine facendo una cosa sola nella fusione di quelli che sono ormai non più soggetti ma, in un crescendo di indeterminazione, solo due velocità sul piano di consistenza su cui si muovono.
Priva di sentimenti e di caratteri significativi, senza essere individuo né specie, “questa cosa o entità, la Cosa, che accade ed eccede lungo il bordo, lineare e tuttavia molteplice”[8], che H. P. Lovecraft chiama outsider”, citando le sue stesse parole è “brulicante, ribollente, agitata, schiumante, [e] si estende come una malattia infettiva, [un] errore senza nome”[9]. Quel bordo, quella muraglia, sono l'”anomalo” che il bordo circoscrive definendo il contorno di una molteplicità e questa stessa.
E ancora su questa base possiamo complicare quel concetto di bordo pensandolo come una posizione del potere, che viene ad occupare un capo della muta, o come un luogo del potere, dove troviamo lo stregone: “gli stregoni hanno sempre occupato la posizione anomala, alla frontiera dei campi o dei boschi. Abitano i confini. Sono ai bordi del villaggio o tra due villaggi. L’importante è la loro affinità con l’alleanza, con il patto che conferisce loro un patto opposto a quello della filiazione”[10]: non discendenza nella specie, non eredità, ma moltiplicazione per epidemia o per altre abominevoli procreazioni.
Nessuna linea di confine è invalicabile, o netta, e in ogni punto la linea può ospitare qualcosa che si trasforma: punti di divenire. E così è forse quella che separa la notte dall’alba; il mare dal cielo all’orizzonte; la ragione dall’insania; il sogno dalla realtà, il familiare dall’ignoto, come ci dice Freud nel suo saggio Il perturbante (Das Unheimliche, 1919) in cui si vede come il primo possa rovesciarsi nel secondo. E ancora è così quella che segna i contorni di noi stessi, plurimi e mutevoli nel proliferare delle identificazioni che ci propone l’esperienza nell’oceano di segni, sensi e stimoli in cui siamo immersi. Siamo attratti e presi nella vorticosa attività di una macchina inarrestabile i cui ingranaggi girano e ronzano senza sosta. Il linguaggio e l’inconscio (che potremmo considerare con Lacan coincidenti) sono un flusso e una struttura che ci coinvolge, ci determina e ci trascina, anche se non sempre supera il confine della coscienza, anche se non sempre la loro influenza, o semplicemente la loro attività, è avvertita. E questa macchina che ci lavora dentro e sempre vorrebbe mandarci messaggi dall’interno, è sempre in funzione, con o senza la nostra partecipazione, in quanto autonoma: come la musica, la radio, il brusio del mondo e lo sciame di segnali che invece ci provengono ininterrottamente dall’esterno e dallo spazio.
Ed è in altro modo, nella fantasia umana, indistinta e perfino discontinua la linea che separa vita e morte, come incubi e letteratura, ma anche le credenze dell’antichità, ci insegnano.
L’umanità ha immaginato possibilità di incontro e di scambio fra i vivi e i morti. Nell’antica civiltà romana il rito del Mundus identificava nell’anno determinati giorni in cui tutte le normali attività erano sospese, e luoghi deputati ad accogliere la mescolanza fra i vivi e i morti, la riunione del mondo della luce e l’oltretomba.
E nella rappresentazione figurale di Dante il senso di una vita si scopre solo dopo la sua morte, per un disegno divino che solo in essa trova compimento[11].
Note
[1]Bloom, H., (2011) The Anatomy of Influence: Literature as a Way of Life, p. 293.
[2]Crane, H., Key West e altre poesie.
[3] Sinisgalli, L., Vidi le Muse, nella raccolta omonima.
[4] Carroll, L., ( 1967) Attraverso lo specchio, e quel che Alice vi trovò.
[5] Frase riportata da Francesco M. Cataluccio.
[6] Deleuze, G., Guattari, F., Mille Piani, p. 304
[7] Ivi.
[8] Ivi.
[9] Lovecraft, H., P., in Mille Piani, cit. p. 304.
[10]Deleuze, G., Guattari, F., Mille Piani, p. 305.
[11] Si veda in Auerbach, E., Mimesis, Il realismo nella letteratura occidentale
Bibliografia
Auerbach, E. (1956) Mimesis, Il realismo nella letteratura occidentale (Torino: Einaudi).
Auerbach, E. (2017) Studi su Dante (Milano, Feltrinelli)
Bloom, H., (2011) The Anatomy of Influence: Literature as a Way of Life, Yale University Press.
Canetti, E., (1960) Masse und Macht, (Hamburg, Claassen Verlag), (1981) tr. it. di Furio Jesi, Massa e potere, Milano, Adelphi).
Carroll, L., (1871) Through the looking-glass, and What Alice found there (London, MacMillan) (1967) tr.it. di Tomaso Kemeny, Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò (Milano, Sugar).
Cataluccio, F.M. (2019) “Lo sguardo di Olga Tokarczuk”, Doppiozero, rivista online, 14/10/2019. https://www.doppiozero.com/materiali/lo-sguardo-di-olga-tokarczuk.
Crane, H., (2017) Key West e altre poesie, tr. it. e introduzione di Pietro Pascarelli, testo originale a fronte, (Potenza, Grenelle Edizioni).
Dante, La Divina Commedia; Paradiso
Sinisgalli, L., (1943) Vidi le Muse (Milano, Mondadori).
Deleuze, G., Guattari, F., (1980) Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, (Paris, Les Editions du Minuit), tr. it. di Passerone, G., a cura e con introduzione di Massimo Carboni, (2010) Mille Piani. Capitalismo e Schizofrenia, (Roma, Castelvecchi).
[Immagine: Abelardo Morell, Camera Obscura: 5:04 AM Sunrise Over the Atlantic Ocean].