di Enrico Capodaglio
[E’ uscito da poco per l’Associazione “La Luna” (Grafiche Fioroni) Paolo Volponi romanziere. Il fascino della società, un saggio di Enrico Capodaglio. Presentiamo un estratto dell’introduzione].
Il fascino della società
I romanzi di Volponi sono pieni di anarchici e autarchici, di lottatori solitari, di uomini e donne in conflitto con la società, con l’industria soprattutto e con la politica, con la città in cui vivono, con il contesto storico e geografico, eppure i loro dolori, le insoddisfazioni, le angosce non sono mai per ragioni private, sentimentali, affettive soltanto. Non si trovano molti drammi d’amore di coppia nella sua opera, che ne decidano l’esito, fatta eccezione per la storia di Norma nel Lanciatore di giavellotto, neanche nella Macchina mondiale o nel Sipario ducale, se non orchestrati con l’urgente passione sociale dell’autore. I suoi protagonisti soffrono perché non possono appartenere alla società che vorrebbero e come vorrebbero.
Un’attitudine così passionale investita, invece che in un legame personale, in una collettività, in una comunità, la quale il più delle volte neanche esiste o è, e sarà sempre, molto meno armonica e civile di come la si vorrebbe, non è frequente in uno scrittore del Novecento, soprattutto italiano, giacché presume l’idea convinta che una società più calda, umana e civile, si possa ancora pur sempre riguadagnare, quando tutto parla contro questa possibilità ideale. Le dosi di disincanto e scetticismo in materia fra i nostri scrittori maggiori, i più diversi tra loro, da Carlo Emilio Gadda a Beppe Fenoglio, da Pier Paolo Pasolini a Italo Calvino, fino a Leonardo Sciascia, sono evidenti, mentre in Paolo Volponi sopravvive, spes contra spem, una carica antropologica più avventurosa, benché a prezzo di smacchi continui e infelicità cantate poeticamente.
Un trittico da antropologo
Già nel primo dei suoi romanzi, Memoriale, pubblicato nel 1962, riviviamo la storia di Albino Saluggia, un contadino che diventa operaio. Che cosa mi colpisce? Non c’è una storia d’amore per una donna, se non pensiamo al legame con la madre e alle sue fantasie sentimentali, non c’è una rielaborazione del periodo recente della guerra o un giudizio effettivo sul contesto storico. L’oggetto del suo amore dominante, se non unico e assoluto, è la fabbrica. A tutti i costi egli vuole entrare in una dimensione più sociale del lavoro rispetto alla campagna dalla quale proviene: egli si aspetta non soltanto l’emancipazione ma l’appagamento della sua felicità elementare dal suo lavoro.
Egli lo ama con passione, nella giornata dura a fianco degli altri operai con i quali non può parlare, nella sua fabbrica senza nome, fino a sentirla, come è proprio di tanti operai che maturano un orgoglio professionale e aziendale, la propria casa. Ma insorge in lui una malattia, che nasce da una protesta inconscia contro quella alienazione di fabbrica che egli invece accetta e quasi ama. Malattia che poi diventa tisi e lo costringe ad abbandonare il luogo di lavoro in cui si era identificato. La potenza dell’intuizione di Volponi va altrove rispetto a ogni trasposizione letteraria, in forma ideologica e schematica, della lotta di classe giacché in Albino, senza che lo sappia e lo voglia, è una forza intima che si scatena fino a farlo ammalare.
Io troverei più potente chiamarla anima, come una potenza naturale e indomabile in noi. Qualcuno può preferire chiamarla animo, o addirittura inconscio, per sottolineare la sua segretezza, pur al di fuori di una mappa freudiana codificata. In ogni caso, si tratta nell’opera di Volponi di una forza intimamente sociale. Seppure puntiamo al nostro benessere individuale, tale forza si ribella e ci richiama, facendoci soffrire, alla coscienza che la condizione in cui viviamo non è né giusta né buona.
Albino è malato di tisi, soffre, è debole, e a che cosa pensa? A quanto sarebbe bello avere al fianco una ragazza amata? A sua madre, agli amici? Ai suoi campi abbandonati, alla pace del lago e dei suoi colli? No, egli è disperato perché l’amore assoluto della sua vita, per il lavoro sociale, in una comunità che sia la casa del bene comune è stato tradito, offeso e reso impossibile. Proprio in quanto è un autentico e nativo amante della società Albino Saluggia, nonostante le malinconie depressive, è un personaggio tragico che trova una sua viva dignità.
Osservo che Memoriale e La macchina mondiale formano un trittico antropologico con La strada per Roma, il romanzo ispirato e lieto, dal tipico sapore agrodolce, che, seppure ambientato tra Urbino e Roma, al di fuori del triangolo industriale del nord, risente dell’onda del progresso economico vigoroso dell’Italia in quegli anni, tanto da essere definito il boom, di una bomba benigna sia pure; oppure ‘il miracolo economico’, quasi dal lavoro degli italiani non fosse da aspettarselo. La fiducia nell’avvenire e un tono sociale più sereno e benevolo intridono infatti quest’opera che Giovanni Raboni definì, come mi torna spesso in mente quando ne scrivo, aurorale.
Quando egli finalmente pubblicò La strada per Roma, nel 1991, il quadro storico e politico non era però neanche allora dei più felici, con il settimo governo Andreotti, ma poteva sembrarlo, almeno come auspicio. Poco dopo presero vita le inchieste giudiziarie contro la corruzione, dette di Mani pulite, nel senso che ve ne erano poche, di tali mani, tra i politici, e si aspirava a lavarle. Nel gennaio del 1994 Berlusconi dà inizio alla sua carriera politica, inducendo nel nostro autore pensieri poco incoraggianti. Quando gli dissi sorridendo che lui era il più grande scrittore italiano vivente, amareggiato dal quadro politico, che temeva sempre più cupo, rispose: “Il più grande scrittore morente”. Non poteva sentirsi sereno chi aveva seminato segni di rivolta e liberazione in tutta la sua opera. Ne avrebbe scritto un’altra commedia grottesca, sulla scia delle Mosche del capitale, tra parodia, dramma morale e satira? Immaginarlo è ozioso, ma mi piace farlo.
Dalla tragedia alla commedia
Una volta che nel 1964 si assisté a un riflusso conservatore e a un ripiego repressivo, il romanzo non parve all’autore più in sintonia con i tempi, che avevano perso lo slancio di quella fiducia nell’avvenire, mentre diventò per lui più urgente denunciare il nuovo quadro sociale conservatore, con un altro romanzo serio e ammonitore nella sua angoscia: La macchina mondiale.
Seguendo la parabola della sua opera narrativa si vede come a una tragedia storica, Memoriale, succeda una commedia, La strada per Roma, poi un’altra tragedia, La macchina mondiale. Poco da ridere, anzi nulla, con il dramma di un mondo che sta per essere tagliato fuori, quello delle campagne, senza che il suo dolore muto e l’ingiustizia storica subita gli siano riconosciuti. È singolare che ne sia il cantore proprio colui che più lo avversa: Anteo, l’antagonista, l’ostile, che pure trae forza dalla propria terra.
In questo modo, rendendo il romanzo al suo tempo, è più chiaro come l’autore ami alternare la tragedia e la commedia, e come sia questo un tratto permanente della sua opera e della sua attitudine verso la vita. Quando gli dissi che Socrate, nel finale del Simposio (223c-d), convinceva i suoi interlocutori ad ammettere che la stessa persona deve saper comporre commedie e tragedie e che il poeta tragico è anche comico, ne fu felice e prese a farmi domande sui dialoghi di Platone.
Dopo la tragedia, ecco infatti una nuova commedia, Corporale, intendendo non già un’opera che faccia ridere (non si attinge quasi mai nelle pagine di Volponi la leggerezza del riso, se non a tratti nel Pianeta irritabile), bensì una forma movimentata nel dialogo e nell’azione, con l’alternarsi di situazioni gaie e tristi, senza che per forza vi sia un lieto fine. Egli scrive di seguito ancora una commedia, giacché tragicomici sono i toni, i modi e la lingua, con Il sipario ducale.
Ecco arrivare poi, grazie a una vena così fresca che lo spinge verso forme espressive ancora nuove, Il pianeta irritabile (1978). Ciò che mi preme ora osservare è che esso tratteggia, pur sempre e in ogni caso, una società mobile, in miniatura, microscopica, sia pure, questa volta dopo la fine del mondo. Il fascino dei quattro nomadi: il babbuino, l’oca, l’elefante e il nano non deriva solo dal fatto che essi vogliono sopravvivere con ogni forza ma che lo fanno insieme, socialmente. Il fascino della società non viene meno neanche dopo le catastrofi atomiche e i vari flagelli biblici.
Dopo la commedia, Paolo Volponi scrive di nuovo una tragedia, quella storica del fascismo, nel Lanciatore di giavellotto (1981): una tragedia, nella logica del mio discorso, proprio perché il fascismo è il regime per antonomasia di una vita quotidiana e collettiva senza poesia sociale. La giovane mente del protagonista è sconvolta dall’eros violento che domina la scena, fino all’omicidio e al suicidio di Damìn: il secondo, dopo quello di Anteo Crocioni, non considerando la sparizione di Gerolamo Aspri alla fine di Corporale.
Allegorie mobili
I romanzi dello scrittore, anche quando narrano solo una vicenda, in questo caso nella forma del realismo lirico, suggeriscono in ogni caso una lettura allegorica più ampia, nel senso che, oltre a poter essere gustati nel flusso narrativo e sofferti nelle scalate argomentative, possono diventare parabole che si aprono all’interpretazione sociale e storica. In questo caso la mia lettura è che il fascismo, nella storia d’Italia, è la società senza fascino, nel senso di un’attrazione limpida tra il valore e la bellezza, che possa stimolare l’immaginazione, suscitando invece un’attrazione perversa, erotica e aggressiva, che rompe il patto tra il bello e il giusto con prepotenza, attivando l’impulso distruttivo e funereo di thanatos, l’istinto di morte.
Incompiuto, ma in uno stadio di filatura già suggestivo, è il romanzo che non esiste: La zattera di sale (scritto nel 1982), un’altra favola per adulti, anch’essa fantastorica. Infine arriva Le mosche del capitale (1989), un dramma storico inesorabile sulla decadenza di un’industria razionale, narrato in una sarabanda da tragicommedia degli ultimi giorni dell’umanità: sì, viene in mente proprio l’opera di Karl Kraus. È il trionfo del caos sociale e personale infatti, che prefigura quel caos dell’informazione e quel miscuglio di vero e falso, di fatto e opinione, di tridimensionale e piatto, di naturale e artificiale, che da tempo stiamo abitando, se non vivendo, moltiplicato per dieci, per cento, rispetto a quel passato. Qualche virtù divinante Paolo Volponi deve proprio averla avuta.
L’autore affronta con gran serietà ogni impresa, ricercando quella che Eraclito chiama l’armonia dell’arco e della lira. Egli cerca il sollievo in qualcosa di più brioso, di vitale e di dialogico, dopo ogni impresa di scrittura tragica, la quale è per lui essenzialmente monologica, come in Memoriale e nella Macchina mondiale: due monologhi infatti, due memoriali. Ciò significa che l’uomo solo, fisso nel suo dramma individuale e assoluto, è tragico, mentre l’uomo che dialoga, che ascolta, si mette in relazione e vive socialmente è, per drammatica che sia la sua vita, più o meno felicemente, comico.