di Jacopo Galavotti e Giacomo Morbiato

Intervista a cura di Tommaso Di Dio

 

[È da qualche giorno disponibile il volume Una sola digressione ininterrotta. Cosimo Ortesta poeta e traduttore (Padova University Press), scritto da Jacopo Galavotti e Giacomo Morbiato. Il volume è gratuitamente scaricabile al seguente link. Pubblichiamo alcune domande agli autori del volume e tre poesie più una traduzione di un sonetto di Mallarmé.]

 

TDD: Non appena ho appreso della pubblicazione di questo vostro lavoro sulla poesia di Cosimo Ortesta, dentro di me non ho potuto frenare una grande curiosità. È infatti solo da pochi anni che ho scoperto la sua poesia e ho colto questo vostro libro come una preziosa occasione di studio e approfondimento di un autore schivo e poco rappresentato, ma da quanto ho letto sicuramente fra i più notevoli di quel giro d’anni. Come siete arrivati a lavorare sulla sua opera e come mai, secondo voi, la sua opera è stata così poco rappresentata sia editorialmente che nelle maggiori antologie?

 

GM: Prima di iniziare questo lavoro a due, avevamo incontrato Ortesta unicamente attraverso la scarna selezione contenuta nell’antologia a cura di Enrico Testa Dopo la lirica; abbastanza per sviluppare una curiosità, ma non per intraprendere uno studio sistematico. A dare la spinta decisiva a quest’ultimo è stata in primis la nostra partecipazione al progetto di ricerca TRALYT, nel quadro del quale abbiamo potuto affrontare Ortesta come traduttore di poesia francese da Baudelaire a Char (da cui un primo articolo di J.G.); personalmente sono poi debitore a un suggerimento di Sabrina Stroppa, che mi chiese di leggere Il bagno degli occhi per un volume collettivo sulla poesia italiana degli anni Ottanta. Da queste prime esperienze, in parte casuali, è germogliata una passione condivisa e con essa la volontà di costruire una monografia introduttiva che fosse insieme uno strumento di accesso all’opera del poeta e al lavoro del traduttore e una prima immagine globale e articolata della sua vicenda stilistica e tematica.

 

Quanto alla seconda questione, l’assenza di Ortesta da quasi tutte le ricostruzioni del secondo Novecento poetico è probabilmente imputabile a ragioni “di campo” ma anche personali. Per le seconde, basterà immaginarsi un carattere schivo, ma anche rigido, inflessibile nei rapporti e nei rifiuti, contrario a ogni esposizione di sé e compromissione nel circuito sociale e mediatico della poesia – i rapporti privilegiati saranno piuttosto quelli di amicizia, da Risset a Raboni, da Zanzotto a Rosselli, da Giudici a Bertolucci, con ricadute poetiche spesso assai notevoli. Su un altro piano, bisognerà porre mente all’esordio, nel 1980, con Il bagno degli occhi; esordio tardivo di un autore non più giovane, ormai quarantenne (ma il libro era stato in larga parte composto negli anni Sessanta), dedito a uno sperimentalismo di matrice psicanalitica e metapoetica più vicino a Cucchi, Viviani, De Angelis che non all’esordiente prodige Magrelli, ma anche lontano dal manierismo neo-metricista inaugurato dall’Ipersonetto zanzottiano (1978). Dunque un esordio in parte fuori tempo, che risente forse del mito post-sessantottesco del poeta giovane e che finisce per collocare Ortesta in una stagione precedente accanto a nomi ben più noti e visibili.

 

JG: Poco da aggiungere: il profilo che Enrico Testa gli ha dedicato in Dopo la lirica resta tra le cose più belle che siano state scritte su di lui: da lettore la scintilla è partita da lì. Circa la marginalità di Ortesta rispetto al “canone”, mi chiedo se il discorso sullo spartiacque del ’68 – a cui accenniamo anche nel libro – vada esteso anche ad altri autori più o meno coetanei: superficialmente disconosciute, non è detto che logiche generazionali non abbiano continuato ad agire sottotraccia. Temo però di non saperne abbastanza, e, certo, Il bagno degli occhi, così legato alle pratiche di scrittura di «Tel Quel», proprio per la sua lunghissima gestazione poteva essere (e forse è stato) preso per un anacronismo. Poi l’isolamento degli ultimi anni e la malattia l’hanno ulteriormente allontanato dalla ribalta. Quando è morto pochi hanno rotto il silenzio per darne notizia: lo hanno ricordato Cortellessa (sul «Sole 24 ore») e Bonito (su «Versodove»), che da critici e amici l’avevano valorizzato e promosso tra gli anni Novanta e i primi Duemila. Anche ai loro lavori dobbiamo molto.

 

TDD: Nell’introduzione al volume, fate riferimento ad un intervento di Zanzotto che proponeva una divisione del nostro ‘900 poetico secondo un “polo Artaud” e un “polo Mallarmé”: da un parte il «il rifiuto quasi di uscire dalla fisicità», dall’altra invece l’opposto, il tentativo di «cancellare la propria corporeità spostandola tutta sul lato della dissoluzione del corporeo nel verbale». La scrittura di Ortesta sembra però anche qui disporsi in maniera scalena rispetto al ‘900 italiano e non stare né da una parte né dall’altra. Secondo quali peculiarità la poesia di Ortesta si situa in questa dicotomia?

 

GM: Zanzotto formula la sua distinzione nel quadro di un intervento dedicato a Ungaretti, avendo però subito cura di precisare che lo stesso Ungaretti mostra di situarsi all’incrocio tra questi due poli della ricerca letteraria. Lo stesso farà più tardi Ortesta, che non a caso citerà proprio Ungaretti (sua conoscenza degli anni universitari a Roma) tra i poeti che più hanno determinato il suo percorso. La poesia, per entrambi, coincide con un processo di astrazione o verticalizzazione del vissuto che però diventa possibile solo dopo aver fatto, di quel vissuto, esperienza urticante (la sessualità, la malattia, la morte, il trauma nelle sue varie forme). In questo senso, la natura della poesia è per Ortesta insieme antinomica e precaria, sempre suscettibile di ricadere nel silenzio del corpo sofferente o di una pura idealità disincarnata (vedi Mallarmé). Una simile concezione del lavoro poetico è condensata nel sintagma La passione della biografia, che da titolo di un poemetto in prosa apparso per la prima volta nel 1975 diverrà trent’anni dopo titolo del libro riassuntivo stampato da Donzelli nel 2006. Per intenderlo, bisogna riconoscervi una citazione, dalle lettere dal manicomio di Rodez di Antonin Artaud, che rivendicava per sé il rischioso privilegio di «patire la propria opera prima di scriverla». Il patimento e la scrittura, dunque, uniti e però anche disgiunti e gerarchizzati da quel prima; perché una non esiste senza l’altro, ma per esistere deve distaccarsene e divenire forma. Il lettore di Ortesta seguirà lo svilupparsi di questa poetica dal Bagno degli occhi e dai suoi prodromi su rivista, dove l’attraversamento del corpo materno coincide con l’adozione di una lingua insieme precisa e frantumata, fino alle prove di Serraglio primaverile (1999) e agli inediti contenuti ne La passione della biografia (2006), dove una dizione più ferma, classica e composta s’incarica di dire i tormenti e le liberazioni di un corpo senile e prossimo alla propria fine.

 

TDD: Ortesta è stato anche un importante traduttore di poeti francesi: negli anni ha infatti tradotto Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, ma anche i suoi contemporanei René Char, Philippe Jaccottet, Jean Thibaudeau, Yves Bonnefoy e Claude Ollier. Da quanto emerge dal vostro studio, per Ortesta non solo risulta difficile far «valere il principio di distinzione tra traduzioni “di servizio” e traduzioni “artistiche”», ma è evidente che gli autori con cui si misura il traduttore abbiano anche «notevoli punti di contatto» con la sua poetica. Ne risulta l’opera di un traduttore appassionato e coinvolto, che reputa il lavoro di traduzione decisivo per la propria scrittura. In che modo Ortesta costruisce questo rapporto fra traduzione e scrittura? E in che modo la categoria di “manierismo” può essere utile per comprendere il suo stile?

 

JG: In Ortesta poesia e traduzione nascono quasi nello stesso momento: l’anno dell’esordio in volume come poeta coincide con quello della sua edizione dei Sonetti di Mallarmé, e sempre nel 1980 si è occupato di ristampare anche i sonetti del poeta barocco Giacomo Lubrano. Non è casuale. In entrambi la vertigine metaforica calata nella forma chiusa e perfetta del sonetto ha il potere di trasformare la realtà in emblema. Ortesta però viene dopo la psicanalisi e deve fare un passo avanti: sa che quei frammenti isolati e raggelati sono anche frammenti di una scena, dietro ai quali il vissuto non smette di premere. Allo stesso modo, se guardiamo all’estremo opposto, la traduzione di poesie come Un homme qui vieillit di Jaccottet nel 1997 entra in dialogo fertile con le poesie degli ultimi anni, la cui dizione è resa più limpida dallo sguardo onesto e disincantato rivolto alla morte. Si può dire che il lavoro di traduzione ha accompagnato da vicino la storia della poesia di Ortesta, favorendone un tratto importante, cioè la conquista progressiva, e mai perfetta, della dicibilità dell’io. Da Mallarmé e Rimbaud, passando per Baudelaire, si arriva alle cose più tarde di Char e a Jaccottet: la morte non è più una pulsione irresistibile della materia che ci compone, ma è l’orizzonte che dà consistenza all’individuo e gli consente di situarsi nello spazio e nel tempo. Da Freud a Heidegger, se vogliamo, ma così semplifico brutalmente. Tutto questo abbiamo provato a motivarlo unendo i fili, ma Ortesta non ne parla apertamente: per lui la traduzione, così come la poesia, deve parlare da sé.

 

Venendo al manierismo, va detto che si tratta di una categoria scivolosissima (lo è ancora per gli storici dell’arte, figuriamoci per chi si occupa di letteratura). Noi l’abbiamo messa a frutto per parlare di una modalità di riuso della parola altrui che emerge spesso nei suoi testi poetici: un meccanismo di assimilazione e rimodulazione di pagine e pagine di poesia e di prosa, niente affatto esposte ma che emergono solo in filigrana a una lettura attenta (il primo a parlarne estesamente è stato Bonito). Questa forma di riscrittura ci è sembrata funzionare – così come la sua acribia formale ma mai formalistica – come maschera, che protegge mentre rende esprimibile un vissuto doloroso. Ortesta non legge “col rampino” per esibizionismo, ma perché riconosce che ogni parola vera può incastonarsi nella sua, con «atroce precisione» (per citare un suo verso). Quel che colpisce è che il modo di smontare i testi che lui cita e ridetta nelle sue poesie somiglia molto a quello con cui si relaziona alla struttura dei testi che deve tradurre. In questo senso appare evidente che la traduzione fa parte di un più complesso approccio alla scrittura “di secondo grado”. Aggiungo che, come in ogni grande poeta-traduttore, va messa in valore la componente tecnica: per questo abbiamo cercato di dare rilievo a quelle forme del verso e strutture della sintassi che in traduzione vengono messe a punto per trovare ospitalità nella poesia, e viceversa.

 

Da Il bagno degli occhi (1980)

 

Il bagno degli occhi

 

Nitida madre caduta a spron battuto

da scalea posando calzata in cima al bisbiglío

mi si musica a tutto misi mu

parte senza un grido

e mi pare di no

cosí come è che

a quattro a quattro si separa

cadendo lontano dalla scala

 

e non basta che a riva

il suono al colore la mano in cerca

d’occhi neanche

gli occhi cadendo e occhi del bambino

che si bagna

non basta al cavallo

frescura d’alloggi

né voce da pastiglia in atra notte

per celare culi in equilibrio

 

ad alta voce: – Questo è l’anno di Rubens –

una tazza mi sceglie soffiando

scrocchiando il disegno e la fattura

la mano siede in ascolto avvampa

stridendo tutta assai nella selva e si plasma

e me a produrla /mi/ dai piedi appannati

via via mi più lieve stravolgo

 

petto non basta perché seno

è petto levato

in tempo d’uccelli

e mi pare di no

la siesta i roghi dei perlutti finiti

i pasti in lingua chieduti

al giardino pigolato si ruppe nella testa

 

e bocche disfama seduta

colonie di buona stagione – mia bella mano –

e botte in fracasso nelle diverse dita

a nord al nord del piumato si spinge mi hanno

mi hai timbri sul ferimento?

 

Da La nera costanza (1985)

 

La ricreazione del paggio

 

I

 

spuntò un muso color di rosa

poi la pelliccia tutta intera

il paggio leggero battè un colpo

rimase stupefatto sopra il piccolo corpo

che non si mosse più

una goccia di sangue sulla pietra

fu asciugata. Fuori gettò il topo

e non disse nulla a nessuno

 

II

 

la sera, prima di cena, le convulsioni dell’uccello

fecero battere il cuore. Il mantello

rifulse come seta – nera, in un cortile

appartato, una zolla preparava

trabocchetti ordigni d’ogni sorta

 

III

 

le dita incontrarono una scheggia

di pietra, alzò il braccio e il colombo

cadde nell’acqua del fossato

 

IV

 

le quaglie si alzano in volo

nella trappola cadono volpi

dall’unghia azzurra l’ala

si sfrangia dilaniata

sul guanto di ferro la bestia

torna a posarsi

 

Da Serraglio primaverile (1999)

 

[Verso dove lo sai?]

 

Verso dove lo sai?

Non c’è direzione: solo fronde e perfetti

boccioli dal prato al selciato

freddi come luce di primavera

verdi nel cespuglio agitato dal vento

impercettibilmente variegato nel sonno

 

                        sul tronco stringendo le cosce

balbetta adolescente in un alito dolce

fiore dentro fiore retrocede balbetta

a una scia di neve caduta nell’acqua.

 

Verso dove lo sai –

il collo della margherita il docile verme

sopra il viola rampicante

che s’affaccia sopra il letto del torrente

verso dove lo sa lei

che retrocede tra sorella e sorella

vigile al dolore rifiutandosi

al canto serrate le ali

immaginato il calore di un bocciolo.

 

 

Da Stéphane Mallarmé, Sonetti (1980)

 

Hommage

 

Le silence déjà funèbre d’une moire

Dispose plus qu’un pli seul sur le mobilier
Que doit un tassement du principal pilier
Précipiter avec le manque de mémoire.

 

Notre si vieil ébat triomphal du grimoire,
Hiéroglyphes dont s’exalte le millier
A propager de l’aile un frisson familier!
Enfouissez-le-moi plutôt dans une armoire.

 

Du souriant fracas originel haï
Entre elles de clartés maîtresses a jailli
Jusque vers un parvis né pour leur simulacre,

 

Trompettes tout haut d’or pâmé sur les vélins,
Le dieu Richard Wagner irradiant un sacre
Mal tu par l’encre même en sanglots sibyllins.

 

Omaggio

 

Il silenzio già funebre di una seta

Sui mobili dispone le pieghe screziate

Che un crollo del pilastro principale deve

Con l’assenza di memoria rovinare.

 

Nostra vecchia tenzone dell’oscuro segno trionfale,

Geroglifici che un drappello infiammano

Con l’ala a propagare un brivido familiare!

Seppellitela piuttosto in un armadio.

 

Dal ridente fracasso originale odiato

Balzò tra loro sovrane di chiarore

Fin verso il tempio a loro simulacro eretto,

 

Trombe là in alto d’oro sfatto sulle pergamene,

Il dio Richard Wagner che un rito effonde

Svelato dall’inchiostro in singhiozzi sibillini.

 

 

[Immagine: Alvin Langdon Coburn, Winter Shadows1903].

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