di Francesco Rocchi *
La questione della studentessa di Verona bendata perché non imbrogliasse all’interrogazione in didattica a distanza (dad) ha suscitato reazioni molto forti, ma in direzioni diverse. Il risultato è la solita rissa mediatica. Occorre chiarezza, invece, e capire cosa c’è veramente in gioco.
Una cosa va detta subito: qualsiasi cosa si pensi della valutazione in dad, di quella in presenza, della severità dei docenti o, di contro, della disonestà degli studenti, bendare gli studenti è qualcosa di semplicemente inaccettabile. Ci sono cose che non si possono fare e quindi non si fanno, a costo anche di farsi imbrogliare dagli studenti.
Ovviamente ogni docente che prenda sul serio il proprio lavoro non può accettare, in senso generale, di farsi prendere in giro. Non possiamo insegnare educazione civica un giorno e sorvolare bonariamente sui falsi prodotti dai nostri studenti quello successivo, quasi fossero ragazzate. E non possiamo lasciare che la valutazione sia inquinata dalla sciocca goliardia del copiare.
Credo che su questo siamo tutti d’accordo. Ma credo anche che a questo punto l’abitudine e la routine ci giochino un brutto scherzo. Se la dad ci ha insegnato qualcosa, invece, è che ogni tanto dobbiamo fermarci e riflettere sul senso di quello che facciamo per poterlo fare meglio, nonostante tutte le difficoltà.
A cosa serve la valutazione? La valutazione a scuola è fondamentale: se non abbiamo percezione di quello che i nostri studenti stanno imparando, di quali siano le loro difficoltà e le loro potenzialità, la nostra didattica si impoverisce. Che ci stiamo a fare in classe con i ragazzi (in presenza o in dad ugualmente) se non per conoscerli? Di che parliamo quando difendiamo la continuità didattica o discutiamo di classi pollaio, se non di una relazione educativa efficace?
E credo che anche su questo siamo tutti d’accordo. Il problema non è su questi fondamentali, ma sulla pratica quotidiana, su cui interviene un sistema molto mal congegnato capace di scavare solchi profondi tra docenti e studenti. Noi questi solchi dobbiamo individuarli ed eliminarli per salvaguardare allo stesso tempo sia la serietà della valutazione, sia la serenità degli studenti, che non ha alcun senso considerare contrapposti.
Gli studenti i voti li temono, da che mondo è mondo. Quindi cercano di scansarli. Questo è sbagliato, perché i giudizi negativi vanno affrontati. Ma se noi facciamo diventare la valutazione strutturalmente ansiogena, gli studenti non ci daranno mai retta e continueranno a cercare di imbrogliarci. Semplicemente, non crederanno mai che una prova andata male non sia ragione per deprimersi, se il docente in classe si indigna di fronte ai brutti voti, mentre a casa l’atmosfera si fa plumbea e magari scatta pure qualche punizione per aver preso un votaccio.
Nei miei ormai tre lustri di insegnamento ho avuto studenti che copiavano anche in prove senza voto. Perché? Perché avevano comunque paura. Gli studenti italiani non vogliono essere valutati, vogliono essere assolti.
Però, per fortuna, la valutazione non è un processo e il docente non è un inquisitore. O meglio, non lo sarebbe se al docente non fosse chiesto di comportarsi come tale. Come un inquisitore, infatti, il docente deve raccogliere un congruo numero di prove, cioè volevo dire voti, e poi emettere un verdetto, cioè volevo dire fare uno scrutinio, il cui esito può trasformarlo in una divinità benigna oppure nel suo avatar malvagio, come una qualsiasi divinità indiana.
Questo è aggravato dal fatto che il docente di questi voti è responsabile, e se lo studente vi si sottrae, egli deve inseguirlo, metterlo nell’angolo e riuscire a interrogarlo o fargli scrivere un compito. Non solo deve essere giudice, il docente, deve essere anche sbirro. Se il docente non acchiappa lo studente, questa mancanza gli sarà rinfacciata, nei famosi eventuali ricorsi al TAR.
Lo studente è in ansia, e lo è anche il docente, alla fine. Lo studente imbroglia, il docente ringhia. E non è finita.
Siccome alla scuola italiana non interessano le chiacchiere, ma i numeri, oltre al guardia e ladri di cui sopra abbiamo anche una ricca cabalistica: gli studenti imparano prestissimo a manipolare i numeri dei voti, calcolando se e quando conviene recuperare, se e quando fare un compito in classe, se e quando giustificarsi. Il docente risponde con una contro-cabalistica: il voto da confermare, i più, i meno, il numero di giustificazioni, e via di seguito.
Stupisce che in questo marasma rimanga del tempo ai docenti per insegnare e agli studenti per imparare. Non stupisce che qualcuno non all’altezza del proprio ruolo finisca per credere che il suo mestiere sia mettere gli studenti in condizioni di non nuocere.
Stiamo parlando di un sistema completamente balordo, in cui i trucchetti per attirare gli studenti alle interrogazioni o ai compiti (“ti programmo l’interrogazione!”, “facciamo un compito di recupero!”) servono solo a stancare un docente di solito già abbastanza esaurito dal dover correggere compiti a ritmo da stampante laser (chiedete a quei docenti che hanno cinque, sei o addirittura nove classi…).
Perché non cambiare tutto? Facciamo così: basta voti in itinere, basta complicati calcoli, basta minacce e concessioni. Lo dobbiamo agli studenti e anche a noi stessi come professionisti: non possiamo farci sfibrare quotidianamente da un lavoro senza senso.
Agli studenti facciamo fare esercitazioni, prove, simulazioni, da valutare solo formativamente, ovvero con giudizi discorsivi che dicano con molta semplicità cosa va bene e cosa no. Si può farlo con la giusta cadenza, senza sopraffare i docenti ma soprattutto senza far diventare la valutazione un’ordalia. Si può farlo con tanta auto-valutazione, che fa bene agli studenti e allevia la fatica dei docenti (e che non ha niente a che vedere con l’auto-regalarsi i voti, se i voti non ci sono). Poi alla fine di ogni anno ci si prende qualche giorno per delle prove complessive che siano in grado di far decidere ai professori: “Ma nella mia materia questi studenti se la cavano abbastanza bene da poter andare avanti?”. Qui sì che sarà vietato copiare, qui si che si faranno controlli: ma perché per arrivare a quel momento preparati avremo dato ai nostri studenti tutti le competenze e le conoscenze che servono.
Durante l’anno gli studenti ci sottoporranno tutte le loro difficoltà, i loro dubbi, le loro idee, e noi potremo discuterne con loro sia serenamente sia seriamente. Ne ricaveremmo una scuola che finalmente non farà a pezzi tanto chi ci studia, quanto chi ci lavora, e in cui l’idea di imbrogliare un docente o bendare uno studente semplicemente non avrà alcun senso.
* Condorcet. Ripensare la scuola: http://condorcet.altervista.org/
Purtroppo ogni nobile considerazione pedagogica cade: la valutazione attraverso verifiche orali e soprattutto scritte, a scadenza periodica, non serve affatto per misurare gli apprendimenti, ma solo e miseramente per rendere tracciabile il lavoro dei docenti, da sempre accusati di essere nullafacenti. È triste da ammettere ma è così e per questo le valutazioni attraverso il famoso “congruo numero” di verifiche sono imposte dalla normativa e ad esse ci si appella in caso di controversie legali. Diversamente ognuno sarebbe libero di agire come meglio ritiene a vantaggio dei propri studenti. La scuola è ormai diventata una prigione burocratica. Per tutti.
Condivisibile, la prassi suggerita estirperebbe il problema alla radice
” La scuola è ormai diventata una prigione burocratica. Per tutti.” (Teresa)
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Quella detta “di massa” (senza le strutture, i programmi, la formazione dei docenti, gli scopi chiari) lo è SEMPRE stata.
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P.s.
” Più dei colleghi, gli studenti (e i suoi due figli?) stavano già tutti “altrove”. Ma dove? Anche se erano nell’altra stanza accanto a leggersi fumetti. O in classe, lì, visibili. Prof Samizdat non si voleva illudere e non sapeva fare l’amicone degli studenti. Lui chiedeva e quelli rispondevano? Ai vecchi tempi! Ogni tanto, poteva succedere che uno di loro, inseguendo fantasie inafferrabili o ispirato da una parola o una frase che viaggiavano in classe assieme ai rumori, ai borbottii, nel flusso del discorso, gli facesse una domanda. All’improvviso. Fuori posto. E lui dava (si sforzava di dare, in realtà) una risposta “precisa”, “chiara”. Una pedagogia improvvisata? Aveva fiducia anche nel caso, rischiava volentieri. Se poteva seminare qualcosa sui terreni anche inattesi, dove si spingeva l’immaginazione degli studenti, perché non farlo? E però poche volte la cosa funzionava. La tendenza era a cazzeggiare o a provocare o a interrompere la noia della lezione con altre noie a cui essi erano più abituati fuori dalla scuola ( le cose che gli arrivavano dalla TV, dalle canzoni…). Una resistenza – opaca, sorda e capricciosa – riduceva non solo il dialogo possibile sugli argomenti da studiare ma anche su quelli estemporanei o improvvisamente venuti fuori da uno di quei cervelli che seguivano percorsi propri e a cui lui tentava di dare spazio. Cominciava a sospettare (ma non lo sapeva avendolo provato da studente) che fosse artificioso e coatto proprio lo spazio in cui essi provavano a comunicare. Dove erano possibili soltanto la noia della lezione o il cazzeggio della conversazione improvvisata. Non era soddisfatto delle loro risposte alle sue domande e nemmeno delle sue alle loro. E entrava in ansia quando erano loro a fargli qualche domanda. S’aspettava sempre qualcosa “in più”. Vuoi vedere che oltrepassa! Oltrepassa, cosa? E stava a scervellarsi nell’ideazione di altre Trappole Comunicative. Per attirare la loro attenzione. Per suscitare quelle che lui considerava passioni buone. E però non era più convinto che nella scuola potesse esserci più un cambiamento…Tutti quei discorsi sulla didattica!…”
(da E. A., Prof Samizdat, inedito)
“con giudizi discorsivi che dicano con molta semplicità cosa va bene e cosa no” dalla velocità laser delle correzioni alla velocità warp delle correzioni più le chiacchiere. Ma formative.
Non so, ai tempi miei (ho 43 anni), il tipo di didattica era esattamente lo stesso: le interrogazioni, i compiti in classe, i voti. Ma no c’era tutta questa ansia. Forse il problema non è della scuola, ma dello spirito dei tempi, che certamente la scuola aiuta a creare e diffondere ma allo stesso tempo lo subisce.
Da vecchio pensionato, ex docente di storia e filosofia e poi preside nei licei, noto che la prima parte dell’articolo è condivisibile, ma quando si passa alle proposte alternative si offre il solito bicchiere d’acqua calda. Il controverso tema della valutazione è uno di quei temi che ho trovato già molto dibattuti e da molti anni all’inizio della mia carriera, nel 1969, ed ancora, in questo 2021, sembra porsi allo stesso modo. Passano i decenni, e le presunte rivoluzioni del ’68 e dintorni, ma la scuola è sostanzialmente rimasta la stessa. In tutte le trattazioni del problema, comprese quelle di pedagogisti esperti, mancano alcune considerazioni fondamentali. Teresa (qui sopra) scrive: «La scuola è ormai diventata una prigione burocratica. Per tutti». L’errore sta i n quel: «è ormai diventata». Infatti, la scuola è una prigione burocratica da secoli, peggiorata da quando è diventata una delle istituzioni totalitarie dello Stato, come l’ex manicomio e come le caserme. Il cammino è lungo e copre secoli: dal giuseppinismo del Settecento al bonapartismo ottocentesco e via dicendo. L’istruzione è diventata sempre più complessa e sempre più “affare di Stato”, sottratta all’autonomia delle famiglie e delle associazioni private. Queste, del resto, si sono sempre più adeguate alle direttive statali.
La scuola è una istituzione statale e dialoga con le altre istituzioni statali. La pedagogia del 99% dei pedagogisti in circolazione non si occupa di educazione e istruzione, ma di adeguamento dell’educazione e dell’istruzione all’interno delle istituzioni statali. E lo Stato è la prigione principale che tiene insieme le altre prigioni, fra cui la scuola.
In questo contesto la valutazione non ha un compito semplicemente “diagnostico” per organizzare al meglio una “terapia” didattica, ma ha un compito misto, che, scomponendo in analisi, si può così elencare: 1) diagnostico, rispetto all’apprendimento in itinere; 2) disciplinare, rispetto alla formazione complessiva dello studente, anche dal punto di vista del suo atteggiamento “sociale”; 3) giuridico, di valutazione ai fini della promozione o bocciatura, e di che tipo e grado di promozione o bocciatura; 4) psicologico, come arma del docente e dell’istituzione e come deterrente nei confronti dello studente ribelle o “diverso”, per tipi di diversità non omologati e inclusi nella “normalità” scolastica.
È evidente che solo la finalità diagnostica (punto 1) sarebbe legittima in una scuola improntata ai migliori principi educativi, mentre le finalità di cui ai punti 2-3-4 andrebbero affrontate in maniera completamente diversa.
Ma ciò richiederebbe una profonda trasformazione della scuola, da “istituzione totale” a “rete” educativa. Uso il termine “rete” e non istituzione perché una rete educativa non può avere docenti e programmi uniformi su scala nazionale, ma deve articolarsi all’interno del sociale e quindi affrontare anche le differenze, con strumenti differenti.
Ciò richiederebbe una preparazione molto diversa dei docenti, i quali, attualmente, nonostante tutte le loro lamentele, sono saldamente complici della scuola come prigione. E non mi si tiri in ballo i docenti di sinistra. In quanto a statalismo e centralismo e istituzionalismo bonapartista non c’è differenza fra destra e sinistra, esclusi i libertari anarchici e pochi altri. Se guardiamo agli esempi delle scuole delle “società socialiste” (Urss, Cina, Cuba…) troviamo, spesso, più, efficienza, ma sullo stesso piano di problemi. Più efficienza perché il modello centralistico istituzionale era (è qualche volta) applicato con più rigore, con più, e non con meno, selezione; con più, e non con meno, peso delle valutazioni dei docenti. Che possono essere migliorate con l’applicazione di criteri più scientifici che la docimologia ha elaborato da tempo ma che docenti e scuole continuano a ignorare; possono essere migliorate con una maggiore selezione dei docenti evitando di mandare in cattedra asini e, qualche volta, purtroppo, anche malati mentali squilibrati e squilibranti. Possono essere migliorate, ma continueranno ad avere gli stessi caratteri, perché la scuola come istituzione totale non può farne a meno.
Se si vuole avviare una soluzione del problema, è necessaria una radicale riforma della scuola, con la netta separazione fra i suoi compiti educativi e le finalità giuridiche connesse al valore legale dei titoli di studio. È necessario abolire le bocciature (ma anche le promozioni) e la struttura rigida delle classi, a favore di un’organizzazione della didattica che segua il percorso di formazione dei singoli allievi promuovendoli, in senso educativo ma non in senso giuridico, man mano che la loro formazione avanza. Il momento della valutazione ai fini giuridici va spostata altrove. Ad esempio, l’esame di maturità (o un esame sostitutivo) potrebbe essere organizzato indipendentemente dal percorso scolastico e ad iscrizione volontaria per chi vuole iscriversi all’università, e magari organizzato dalle stesse università e con programmi diversi, secondo le facoltà a cui aprono l’accesso.
Ma questo è solo un esempio. La trasformazione della scuola da istituzione statalista e centralista a rete educativa comporterebbe tante altre modifiche che alcune correnti teoriche della pedagogia hanno anche immaginato (e qualche limitatissima pratica ha realizzato a pezzettini), ma che la pedagogia ministeriale ignora completamente.
Se non si desidera uscire dalla scuola di Stato (che è sempre e per forza “scuola per lo Stato”, al servizio dello Stato), è inutile lamentarsi e proporre alternative che non sono alternative di niente. Meglio allora proporre una applicazione più scientifica e rigorosa dell’attuale modello, magari prendendo ad esempio le scuole dei Paesi (o ex Paesi) socialisti. Tipo: ogni due mesi una settimana intera dedicata a prove scritte e orali di livello; didattica uniformata su testi e per unità di lavoro uguali a cui i docenti devono attenersi; licenziamento dei docenti non all’altezza, per preparazione o per caratteristiche psicologiche; lezioni di recupero obbligatorie per gli studenti che non raggiungono il livello previsto (e, ovviamente, impartite obbligatoriamente dai docenti per i quali le lezioni individuali fanno parte del lavoro normale); dirottamento obbligatorio in altri tipi di scuole e/o corsi di formazione per gli studenti che per due o tre bimestri di seguito non rispettano i programmi; ecc. ecc.
Paradossalmente, la scuola ottocentesca offriva percorsi più liberi, potendoselo permettere avendo a che fare con una cerchia di studenti ristretta appartenenti a famiglie benestanti. Al liceo, per esempio (prima della suddivisione fra licei classici e scientifici) lo studente era libero di scegliere fra greco e matematica, seguire i corsi di una sola di queste materie, ma anche, volendo, di tutti e due. Non aveva l’obbligo di studiare una lingua straniera, ma tutti, privatamente, ne studiavano una o due. Una parte consistente della preparazione che l’università richiedeva agli studenti non proveniva dal liceo ma dal libero e volontario studio parallelo e privato. Con la scuola di massa la situazione, sotto il profilo didattico, è peggiorata progressivamente, e naturalmente non si può tornare ai modelli dell’Ottocento, ma nemmeno ai modelli attuali a quelli assai simili. È necessaria davvero quella riforma radicale della scuola che agli inizi del ’68 gli studenti sembravano chiedere, per poi ripiegare in una becera politica di “più Stato, più scuola, più centralismo” che ha aggravato i problemi e ha fatto della scuola non solo la tradizionale prigione burocratica, ma una prigione del tutto inefficiente anche ai fini perseguiti dallo Stato, sempre più in mano a una burocrazia parassitaria e irresponsabile, sindacati docenti compresi.
@Luciano Aguzzi tesi spettacolarmente intenibili. Se Lei fosse stato il mio D. S. che teatro, anzi che circo avremmo fatto ad ogni CdC e CdD!