di Ingrid Salvatore

 

Molti fili si intrecciano in questo nuovo libro di Michael Sandel, The Tyranny of Merit. What’s Become of the Common good (Allen Lane, Londra, 2020; trad. it. Feltrinelli, Milano, aprile 2021). La critica della meritocrazia, ovviamente, ma anche un’analisi psicologica dei suoi effetti, un saggio quasi a sé stante sul ruolo dell’università, il rimprovero alla sinistra radical chic di non capire il populismo e di rispondervi anche peggio di come lo capisce, l’abbozzo di un programma filosofico alternativo, insieme a un paio di proposte concrete da attuare subito.

E’ un lavoro di carattere pamphlettistico, a metà strada tra l’intervento politico e il saggio accademico. In inglese, è pubblicato da Allen Lane, un marchio Penguin specializzato in saggi destinati, come recita la pagina web della casa editrice, a “stabilire l’agenda”. E’ facile prevedere che manterrà la promessa.

 

Gli spunti di analisi e riflessione sono offerti da interventi apparsi sul New Tork Times o sull’Economist, da interviste e interventi pubblici dei poco amati Clinton o del promettente (ma non sempre fedele) Obama, con l’intento di rivolgersi ad un pubblico colto. Ma non rinuncia a discutere teorie filosofiche – Rawls, Dworkin, Hayek a altri ancora – né è privo di ambizioni teoretiche chiaramente visibili sullo sfondo.

Riassunta in breve, la tesi del libro è che la sinistra intellettuale e politica, il vero obiettivo polemico di Sandel, essendo scontato il disaccordo con la destra liberista, ha svenduto, forse intenzionalmente, forse no, in ogni caso colpevolmente, la sua tradizionale battaglia per l’eguaglianza materiale, sostituendola con l’eguaglianza delle opportunità, facendo propria una visione meritocratica della società. In questo modo, non solo ha assistito inerme al prodursi di una società sempre più diseguale e ingiusta, ma ha ignorato l’effetto perverso della meritocrazia di produrre umiliazione sugli sconfitti, determinando la nascita del populismo. Trovatasi di fronte al populismo e accecata dall’ideologia meritocratica che aveva contribuito a diffondere e legittimare, la sinistra, anziché simpatizzare con l’umiliazione dei perdenti, si è ulteriormente rinchiusa nella sua torre di avorio, sostituendo a una seria analisi politica del fenomeno populista, un atteggiamento moralistico e giudicante.

Quello che mi propongo di fare è di provare a ripercorre il filo che Sandel tenta di seguire, separando critiche condivisibili alla società dall’edificio che dovrebbero sostenere.

 

Psicologia della meritocrazia

 

Le società in cui viviamo, secondo Sandel, Stati Uniti e Regno Unito, in primo luogo, ma seguite, almeno nella retorica, dalle società europee, sono società meritocratiche e le società meritocratiche sono ingiuste.

Le società meritocratiche sono ingiuste perché scambiano eguaglianza materiale con mobilità sociale. Per quanto promettano di offrire la possibilità a tutti di emergere, di scalare posizioni sociali indipendentemente dalla condizione economica della famiglia in cui sono nati o dal colore della pelle e dall’appartenenza di genere, non possono garantire, né sono intese a farlo, sufficiente eguaglianza di fatto.

 

La meritocrazia, intesa come Sandel la intende, è un ideale di destra. Della destra liberista, in particolare. Lo è perché estende alla società nel suo complesso la logica del mercato, individuando nel preteso spontaneismo del mercato e delle sue logiche competitive la massima espressione della libertà individuale che lo stato non deve né può comprimere.

Pur essendo un ideale della destra, la meritocrazia ha sedotto la sinistra. In suo nome, Blair, Clinton e tutti gli epigoni della terza via, hanno consentito il trionfo del neoliberismo, partecipando, anzi, attivamente al suo successo, quando, nel corso degli anni Ottanta, hanno cominciato a parlare della fine dello stato sociale “così come lo conosciamo” (Clinton), di una rinnovata attenzione alle necessità del mercato, di nuove relazioni sindacali, di un nuovo modello di mercato del lavoro, più flessibile e più conforme all’individuo imprenditore di sé stesso.

I suoi intellettuali hanno fatto la loro parte.

 

Mettendo al centro l’eguaglianza di opportunità hanno dimenticato, e cercato di far dimenticare, l’eguaglianza materiale, facendo di una rinnovata attenzione alla responsabilità individuale e al merito le nuove parole chiave della sinistra, così legittimando tagli della spesa sociale, indebolimento dei diritti dei lavoratori e una selva di contratti di lavoro che producono quel mercato del lavoro parallelo in cui assegno di maternità o malattia, sicurezza sul lavoro e del lavoro, così come la speranza di maturare diritti pensionistici, sono termini sconosciuti.

Naturalmente, osserva Sandel, questo tipo di società non è nemmeno realmente meritocratico.

La promessa di offrire a chiunque un’opportunità è una promessa, appunto, che si scontra duramente con quello che la realtà racconta.

 

L’America, la terra delle opportunità, è da lungo tempo un paese in cui politiche così dette meritocratiche producono un tasso di mobilità sociale stagnante e rispetto a cui i tanto criticati regimi di welfare, che alimentano l’ozio dei pigri e dei lazzaroni, mostrano performance decisamente migliori.

Ma le società meritocratiche non sono ingiuste perché falliscono nel realizzare le loro promesse. Per Sandel, esse sarebbero ingiuste anche se riuscissero a realizzare interamente i loro propositi. E questo per due ragioni fondamentali.

In primo luogo, le meritocrazie sono ingiuste perché autorizzano un grado intollerabile di diseguaglianza materiale. Ma non è questo il punto che più interessa Sandel. La seconda, e più importante, ragione per cui le meritocrazie sono ingiuste è che configurano tipi di società in cui vige una particolare forma di divisione sociale, una divisione sociale che attribuisce differente valore morale a vincenti e perdenti e a cui il populismo reagisce.

 

Le società meritocratiche, Sandel illustra, non sono le uniche società caratterizzate da profonde diseguaglianze. Le società castali o aristocratiche, le società in cui la posizione sociale alla nascita determina interamente il destino di ciascuno, lo sono altrettanto. Rispetto alle società castali o aristocratiche, anzi, le società meritocratiche hanno almeno il vantaggio di impedire (pretendere quantomeno di farlo) che siano solo i rampolli delle famiglie ricche ad accaparrarsi la torta. Impediscono inoltre che fattori come il colore della pelle o l’appartenenza di genere sbarrino l’ingresso, anche quando talento e capacità sono le stesse.

E tuttavia, nonostante siano, per certi versi, meno ingiuste di altre società, le società meritocratiche sono più odiose delle società non meritocratiche. Il contraltare dell’offrire a chiunque una possibilità di salvezza, infatti, è la stigmatizzazione dei perdenti.

 

Nelle società non meritocratiche, argomenta Sandel, chi perde è nato perdente, non ha mai avuto una chance. Il colore della pelle, l’appartenenza di genere, la casta, la mancanza di sangue blu, hanno deciso al suo posto. Chi perde può detestare il suo destino, ma lo consola il fatto di non essere mai stato in gioco.

In una società meritocratica, d’altra parte, si assume che per tutti ci sia stata la possibilità di emergere, che chiunque abbia avuto la possibilità di mostrare il suo valore. Ne segue che chi perde non perde perché la società è ingiusta o perché non è mai stato in gara, ma perché, pur avendo avuto una chance, non ha mostrato di avere le qualità necessarie. Chi perde dimostra la sua inadeguatezza o inferiorità.

Le meritocrazie, dunque, sono particolarmente odiose perché all’ingiustizia comune ad altri tipi di società aggiungono senso di colpa e di inferiorità. In una meritocrazia la sconfitta testimonia la mancanza di valore.

 

Nelle società meritocratiche, inoltre, sembra venir meno l’alea. Chi nasce privilegiato in una società non meritocratica sente, forse senza confessarlo a se stesso, la casualità della sua posizione. Sente che nulla è dipeso da lui.

Ma in una società meritocratica i vincenti sono anche i migliori. E’ per questo che tecnocrazia e meritocrazia sono fratelli gemelli, nota Sandel. I vincenti di una società meritocratica sono i più bravi, i competenti, i sapienti, quelli a cui la società si deve rivolgere ogni volta che c’è un problema. Sono i tecnici, gli esperti, e non solo di economia, medicina, finanza, ma anche di questioni morali. In quanto privilegiati epistemici, come sanciscono i loro curriculum e titoli di studio, i competenti sanno come si sta al mondo: sanno che essere razzisti è sbagliato, sanno quali espressioni si possono usare e quali no, sanno cosa è lecito credere e cosa no.

 

Poiché la meritocrazia li elegge come i migliori, i vincenti non solo occupano posizioni di privilegio, ma hanno ogni ragione di credere di meritare la loro posizione. I pochi soldi che i perdenti guadagnano, la mancanza di titoli di studio o lo scarso prestigio delle università in cui si sono laureati, tutti i posti dove non sono stati e le lingue che non parlano, testimoniano senza possibilità di appello la differenza con i vincenti e il titolo di questi ultimi ad occupare la posizione che occupano.

E siccome chi vince è autorizzato a credere di aver meritato la vittoria, all’inadeguatezza dei perdenti si aggiunge la hybris dei vincenti, fonte di umiliazione e risentimento. Nessuna sorpresa che i perdenti votino Trump. Nessuna sorpresa che votino Brexit.

L’idea che la meritocrazia costituisca un tipo particolare di ingiustizia, l’idea che la meritocrazia aggiunga ai problemi tradizionali delle società ingiuste una speciale forma di umiliazione, da una parte, e orgoglio dall’altra parte, è molto interessante. Credo che catturi una convinzione molto diffusa a sinistra, specialmente a fronte dei fenomeni populisti.

Ma temo anche che sia falsa.

 

Per credere che la meritocrazia rappresenti un tipo speciale di ingiustizia bisogna credere o che altri tipi di società ingiuste, come le aristocrazie o i sistemi castali, non producano orgoglio e senso di superiorità, o, più debolmente, che, pur producendo un qualche senso di superiorità, non si accompagnino alla hybris e contemperino, quanto meno, l’umiliazione degli sconfitti. Ma entrambe le vie sembrano poco promettenti.

E’ un singolare eccesso di razionalismo, bizzarro per un severo critico della razionalità come Sandel, assumere che ciò di cui siamo orgogliosi o di cui ci vergogniamo sia soltanto ciò che può esserci attribuito.

I tifosi di una qualunque squadra di calcio non hanno certamente alcun merito per le performance della propria squadra. Ma non comprenderemmo il tifo calcistico se non vedessimo l’orgoglio del tifoso per la vittoria della squadra e la genuina umiliazione per la sconfitta rovinosa.

 

Certamente, non è merito di un figlio se i suoi genitori hanno una casa con vista sui Fori imperiali, magnificamente arredata. Ma negare che ne vada fiero mi sembra una fuga dalla realtà.

Per converso, nemmeno il più sfegatato cognitivista può credere che sia sufficiente mostrare ai suoi pazienti che i difetti e le mancanze che tanto li fanno soffrire non siano colpa loro, per guarirli. Forse, non è colpa nostra essere come siamo, ma questo non ci toglie la vergona, l’imbarazzo che proviamo quando, essere come siamo, ci mette in condizioni in cui avremmo preferito mille volte non essere.

I ricchi, i potenti, i favoriti dalla sorte, hanno la hybris, quando ce l’hanno, perché sono ricchi, potenti e favoriti dalla sorte, non perché è merito loro.

 

Queste notazioni di psicologia del senso comune possono sembrare marginali rispetto al tema centrale di Sandel e può sembrare, dunque, ozioso prenderle così tanto sul serio. In realtà, esse giocano un ruolo significativo nella costruzione del suo edificio.

Con l’intento di schiacciare la sinistra, politica e intellettuale, su posizioni di destra, Sandel mira ad individuare nella meritocrazia un tipo speciale di ingiustizia che l’eguaglianza di opportunità, nuovo mantra della sinistra, secondo Sandel, neppure sfiora.

Ma neanche così, in realtà, raggiunge il suo scopo.

Sandel pensa che se soltanto si abbandonasse l’ideologia meritocratica, compreso, dunque, l’eguaglianza di opportunità, se soltanto si comprendesse che i nostri meriti e talenti sono parte di ciò che ci è capitato, tanto quanto la posizione alla nascita, diventerebbe subito chiaro che la distribuzione delle risorse non può basarsi sul merito. Solo che questo non è vero.

 

Robert Nozick, il bersaglio non menzionato di Sandel qui, non ha mia pensato che il ricchissimo campione di basket Wilt Chamberlain credesse di meritare le sue lunghe gambe, la destrezza nel palleggiare o l’eleganza del suo gioco. Il problema che Nozick pone è diverso.

C’è qualcuno – Nozick chiede – che può far uso dei talenti di Wilt Chamberlain, a parte Wilt Chamberlain? C’è qualcuno che può mettere a frutto la bellezza, l’intelligenza, la forza-lavoro di un altro (ricorda qualcosa?), traendone vantaggi per sé?

La risposta di Nozick è notoriamente no. Per Nozick, notoriamente, usare i talenti di qualcuno per arricchirsi, senza il suo consenso, equivale a sfruttarlo. Far notare che i nostri talenti sono solo occasionalmente nostri non elimina il fatto che siano nostri.

 

Se vogliamo, e vogliamo, rispondere a Nozick dobbiamo fare di più che mostrare che i nostri talenti non sono merito nostro. Oltre a mostrare che nessuno merita i talenti che ha, dobbiamo mostrare che in una società è possibile, legittimo, giustificabile, mettere i differenti talenti di ciascuno a servizio degli altri, trattandoli come patrimonio comune. Dobbiamo consentire a tutti, e possibilmente a partire dai più svantaggiati, trarre vantaggio dal talento altrui. Ma questa via è preclusa a Sandel.

Gli è preclusa perché, in polemica con la sinistra più che con la destra, per Sandel il problema non può essere che cosa una società debba farsene del talento. E’ costretto a sbarazzarsi del talento stesso, acquietando, se è permessa l’insinuazione, la sete populista.

Suppongo che sia per questa ragione che Sandel presenta una versione particolarmente insensata dell’eguaglianza delle opportunità, schiacciandola sul sistema delle libertà naturali – la meritocrazia in senso stretto – che qualunque egualitarista rigetta.

 

Nella lunga disamina sul ruolo dell’università, Sandel cerca di mostrare come l’eguaglianza di opportunità, almeno a parole spasmodicamente ricercata da tutte le super-esclusive università americane, si possa facilmente trasformare in una assurda lotteria che separa i sommersi e i salvati del sistema.

Così facendo, Sandel lascia credere che tutto quello che l’eguaglianza delle opportunità richiede è che, a un certo punto della vita di ognuno, ragionevolmente all’università, si selezionino i talenti migliori in modo da farli fiorire, non permettendo che diverse condizioni sociali, la razza o il genere interferiscano nella valutazione. Ma questa è una visione decisamente di parte dell’eguaglianza delle opportunità, non solo perché tutti gli egualiaristi, siano Ralws o Dworkin, o chiunque si preferisca, mettono precisamente in rilievo la relazione fra lotteria genetica e sociale, vale a dire l’impossibilità pratica, se non di principio, di separare la dotazione genetica con cui siamo venuti al mondo dalla possibilità che abbiamo avuto di coltivare i nostri talenti in differenti condizioni sociali.

 

Ma soprattutto perché per tutti gli egualitaristi l’eguaglianza di opportunità consiste nel predisporre un complesso di politiche sociali che possa fare in modo, e il prima possibile nella vita delle persone, che a ciascuno sia concesso di sviluppare i suoi talenti.

Politiche di questo genere possono richiedere modi specifici di organizzare le scuole della primissima infanzia, politiche urbanistiche che impediscano lo sviluppo di quartieri privi di servizi, servizi di assistenza sociale capillari e diffusi, assistenza per bisogni speciali, fino all’organizzazione di spettacoli, concerti, teatro, vacanze e qualunque cosa pensiamo possa essere utile o necessaria alla formazione di una persona. Non c’è limite alle politiche sociali che possono essere richieste per perseguire una genuina eguaglianza di opportunità. E’ semplicemente arbitrario suggerire che l’eguaglianza di opportunità si realizzi eseguendo un qualche tipo di valutazione, in un qualche momento della vita, che separi i capaci dagli incapaci.

 

Questo detto, c’è un suggerimento nell’analisi di Sandel che credo sarebbe un errore lasciar cadere.

C’è qualcosa di fastidioso, almeno per quelli di noi che proprio non si sentono vincenti e hanno un brivido sulla schiena ogni volta che ascoltano Creep, nel concepire la società come divisa fra i bravi e gli scemi, fra quelli su cui la società investe e la zavorra di cui devono farsi carico. C’è qualcosa di antipatico nell’ossessione del merito e del talento che credo valga la pena prendere sul serio.

 

L’Università e il merito

 

C’è un libro nel libro nel lavoro di Sandel, un lungo saggio sul ruolo fondamentale che l’università svolge all’interno di un sistema meritocratico. Le università cui pensa Sandel sono quelle americane e inglesi il cui impianto meritocratico e grado di competitività non trovano (non ancora) corrispondenza in Europa. Non c’è Oxbridge nel continente e nessuna Ivy League. Le università restano in buona misura accessibili a molti e ancora, nei nostri sistemi universitari, non costituisce un titolo da sbandierare la percentuale dei rigettati sul numero delle domande, anche se molte università hanno ormai cominciato a farlo.

Queste università, le super-esclusive università inglesi e americane, rappresentano, per Sandel, il luogo in cui si costruisce il privilegio epistemico che sostiene l’organizzazione tecnocratica delle meritocrazie. Sono i luoghi in cui si alimenta la convinzione dei vincenti di essere i migliori e si edifica, dato il loro prestigio, la svalutazione sociale del lavoro manuale e di chiunque non abbia il titolo giusto per prendere parola che alimenta il populismo.

 

E’ fin troppo facile, a proposito del tentativo di Sandel di legare la meritocrazia del sistema di formazione americano al populismo, far notare come, benché tendenze meritocratiche stiano prendendo piede anche nei sistemi continentali, essi restano profondamente diversi da quelli americani e inglesi. Mentre non altrettanto si può dire del populismo.

L’Italia non vanta il sistema accademico più prestigioso ed esclusivo d’Europa, ma vanta i due più grandi partiti populisti d’Europa, Lega e Cinque Stelle, almeno se si tengono ferme, per quest’ultimo, le percentuali di qualche anno fa. Diventano tre se il movimento guidato da Giorgia Meloni conta come populista (o peggio).

Ma l’università rappresenta una sfida particolare per l’eguaglianza delle opportunità, anche corretta rispetto alla parzialissima versione di Sandel.

 

Le ragioni per cui le critiche di Sandel alla meritocrazia nulla hanno a che fare con l’eguaglianza delle opportunità sono già state chiarite. Quello che Sandel chiama meritocrazia è il sistema delle libertà naturali che qualunque egualitarista rigetta.

In sistemi ingiusti, in sistemi in cui la scelta dell’università arriva in un’età nella quale le differenti posizioni sociali alla nascita hanno già potuto esercitare tutto il loro peso e nulla è stato fatto per dare a tutti la possibilità di sviluppare i propri talenti, è del tutto ovvio che affidare all’università la selezione dei più bravi è ingiusto.

 

Nessuna sorpresa, da questo punto di vista, che le università americane siano, come Sandel mostra, assai meno meritocratiche di come pretendono di essere. Non solo perché nelle università americane resistono (di fatto e, a volta, anche di diritto) corsie privilegiate per gli Alumni, favorendo, in pieno contrasto con la meritocrazia, dinastie familiari che hanno frequentato la stessa prestigiosa università, ma anche perché i meccanismi di selezione all’ingresso, il test SAT in primo luogo, ideato per selezionare le capacità di apprendimento, sono sensibili alle differenze sociali. Possono essere preparati, per esempio. A suon di centinaia di dollari a lezione, specialisti possono addestrarti a superare il SAT. Inoltre, le famiglie agiate americane, per le quali l’iscrizione all’università dei figli si propone come la battaglia di una vita, cominciano ben presto a preparare i loro pargoli alla sfida, attrezzandoli con lo studio delle lingue, i viaggi, attività extracurricolari ma che fanno titolo, dagli sport al volontariato, ai campus estivi e così via. Non ci sarà partita, evidentemente, con chi non ha goduto di nessuna di queste opportunità.

Ma supponendo che tutte queste iniquità possano essere superate, supponendo che ogni tipo di politica sociale sia stata messa in essere per consentire a ciascuno di sviluppare i suoi talenti, tocca all’università selezionare, infine, i più capaci?

 

L’idea di Sandel è che le università semplicemente non debbano selezionare i talenti e che il loro scopo sia un altro. Questo mi sembra interessante. Mi sembra una sfida genuina all’idea dell’eguaglianza di opportunità e l’occasione per chiarire quella che a me sembra la sua corretta comprensione.

Le università occupano una posizione specifica nella struttura di una società.

Se pensiamo alla formazione primaria, alla scuola dell’obbligo, per intenderci, appare evidente come, poiché essa svolge un ruolo cruciale nello sviluppo e formazione dei talenti, compensando le disuguaglianze che la famiglia d’origine può determinare, essa entra a far parte delle condizioni di sfondo che rendono giusta o ingiusta una società. Se la scuola non funziona le differenze sociali ed economiche favoriscono i più fortunati, impedendo agli svantaggiati di gareggiare alla pari. E questo è ingiusto.

 

Nelle società giuste alcune istituzioni proteggono tutti, ma altre, quelle che hanno lo scopo di compensare le diseguaglianze sociali ed economiche, devono prestare maggiore attenzione ai più fragili e deboli, anche se questo va a svantaggio dei più favoriti. Se un bambino vive in un ambiente familiare che favorisce la sua capacità di apprendere, gli toccherà di aspettare che tutti i bambini meno favoriti imparino altrettanto prima di fare qualche progresso. La scuola guarda ai più svantaggiati e non a chi ha maggiori possibilità perché la formazione costituisce il principale strumento attraverso cui le differenze sociali ed economiche possono essere compensate. Non ce n’è uno migliore. Ma vale lo stesso per l’università?

Nonostante, come accennavamo, il sistema universitario continentale sia distante dal parossismo inglese e americano, l’intenzione di immettere anche da noi criteri meritocratici è del tutto evidente. Non solo anche da noi le famiglie che possono permetterselo cominciano oramai molto presto ad individuare le scuole in funzione dell’accettazione all’università, ma anche da noi la logica del ranking che mette le università in competizione le une con le altre e distribuisce i fondi in funzione della quantità e qualità dei “prodotti” è sempre più presente.

 

Alla base delle nostre politiche meritocratiche, alla base dei sistemi di valutazione, vi è l’idea che l’università non faccia parte delle condizioni di sfondo di una società giusta. Si assume che il compito dell’università non sia quello di migliorare direttamente la posizione dei più svantaggiati, ma di farlo, semmai, indirettamente, favorendo, in realtà, i più bravi.

Lasciando che i più bravi abbiano le maggiori possibilità di successo e carriera si fa in modo che la società progredisca, si arricchisca, con l’intento di distribuire i vantaggi in modo che proprio gli svantaggiati ne siano favoriti.

 

Questa almeno immagino sia la tesi di coloro che sostengono, da sinistra e non da destra, politiche meritocratiche per l’università, come, per esempio, hanno fatto di recente Tito Boeri e Roberto Perotti sul giornale on line lavoce.info. In verità, nell’articolo non si chiarisce se l’intento sia puramente meritocratico o basato su più generali considerazioni di giustizia. Ma si può immaginare che l’invito a “premiare chi fa la ricerca migliore” poggi su considerazioni relative a che cosa, effettivamente, benefici maggiormente la società nel suo complesso, senza escludere che tali benefici vadano in primo luogo a vantaggio di chi sta peggio. In ogni caso, in questi termini la tesi potrebbe essere formulata da un sostenitore dell’eguaglianza di opportunità, ciò che lascerebbe spazio ai dubbi di Sandel.

Ha davvero senso questo sorting morale fra chi merita e chi no? E quando è il momento opportuno per farlo? E’ l’università il momento giusto per decidere chi passa e chi no? Chi è bravo e chi no? Chi è socialmente produttivo e chi è zavorra?

 

Cominciamo col dire che in una società ingiusta come la nostra premiare i più bravi, senza fare altro, è senza appello ingiusto. In assenza di condizioni di giustizia di sfondo, premiare i più bravi significa solo premiare coloro che hanno avuto maggiori possibilità perché sono nati in condizioni migliori.

Ma io credo che ci sia molto di più in gioco. Ed è per questo che il caso dell’università è interessante.

Anche se l’idea di eguaglianza di opportunità può essere facilmente associata all’immagine di una gara, non credo che si tratti di mettere tutti su un qualche nastro di partenza – quando poi? – per vedere chi vince.

 

In una società in cui si persegue l’eguaglianza di opportunità si può non smettere mai di farlo. Non c’è ragione di credere che debba darsi un momento della vita in cui tocca a qualcuno decidere se appartieni alla prima fascia o alla seconda, se vali l’investimento oppure no. Mi sembra piuttosto che, intesa la vita come un avvicendarsi di successi e insuccessi, lo scopo precipuo di una società giusta sia quello di impedire che un insuccesso diventi il prevedibile inizio di una carriera di insuccessi futuri. E’ qui che l’eguaglianza di opportunità tocca l’eguaglianza di fatto.

L’eguaglianza delle opportunità non prevede e non implica un momento in cui i giochi sono fatti e più nulla può essere modificato. Giusto al contrario, mi sembra che quello che l’eguaglianza delle opportunità richiede siano sistemi porosi, sistemi che consentano sempre l’attraversamento, che offrano e ri-offrano continuamente una possibilità, senza che nessuno possa decidere in quale momento la partita è finita. Non c’è una data di scadenza per le opportunità.

 

Viviamo vite sempre più lunghe rispetto a cui, ci dicono, le competenze acquisite diventano presto obsolete. Formarsi per tutta vita è la scommessa su cui puntano tutti i sistemi di welfare delle società avanzate. Proprio per questo, sganciare del tutto l’università dalle condizioni di giustizia mi sembra poco coerente con gli intenti di una società giusta, tanto quanto con l’eguaglianza delle opportunità.

Declassare e sotto-finanziare le università che non eccellono mi sembra un modo, e per coloro che ci lavorano e per coloro che la frequentano, di chiudere spazi di possibilità, in pieno contrasto con l’eguaglianza delle opportunità correttamente intesa.

Voglio concludere queste pagine con una breve considerazione sulla sinistra e i suoi intellettuali. C’è un tema sottotraccia, infatti, nell’obiettivo polemico di Sandel.

L’attacco alla sinistra, mi sembra, non ha tanto a che fare con l’eguaglianza di opportunità, ma con l’imputazione alla sinistra di essersi concentrata su un certo tipo di diritti civili, specialmente per le donne e le minoranze etniche, sganciando questa protesta dalla giustizia sociale. Non so se è vero. Non trovo priva di fondamento l’accusa a certi movimenti di essersi concentrati più sul governare le regole del gioco che non sul cambiarle. Quel che so per certo, però, è che non esiste una sinistra che possa scegliere. La tentazione, questa sì genuinamente populistica, di Sandel di venire incontro alle istanze razziste, misogine, sessiste dei populisti mi sembra inammissibile e non una questione di spocchia.

 

Quello che credo di poter dire è che la sinistra, la sinistra che sta antipatica a Sandel, può aver sbagliato tutto e i suoi intellettuali possono essere stati servi idioti. Ma non si può non vedere una cosa.

La sinistra tradizionale ha concepito la società in termini contrappositivi. Non era un problema della sinistra pensare la società nel suo complesso. Di là c’erano i cattivi di qua c’erano i nostri. Con i cattivi si doveva trattare e, a seconda dei rapporti di forza, poteva andare meglio, oppure peggio. Ma non c’era conciliazione possibile.

La sinistra che sta antipatica a Sandel, e non solo a Sandel, in verità, eredita la fine di questa contrapposizione. Le risposte che ha dato possono essere state le più sbagliate. Ma il problema resta. Come si organizza una società che non sarà la storia a definire? Come si tiene a bada il mercato senza impoverire tutti? Come si reagisce alla globalizzazione senza diventare nazionalisti?

 

La mia impressione, a fronte di queste domande, è che sia forte a sinistra la tentazione di tornare ad una logica di contrapposizione. Questo mi sembra rappresentino le varie forme di populismo di sinistra che si intravvedono. Ma mi sembra una tentazione a cui bisogna resistere.

Il ritorno alla logica della contrapposizione mi appare una via per risparmiarsi, trovando tutto sommato più comodo, se non altro rispetto agli oneri della giustificazione, assegnare a ciascuno la sua parte in commedia mettendosi tutti la coscienza a posto.

9 thoughts on “Io speriamo che me la cavo. Considerazioni sulla tirannia del merito

  1. Bene finché espone le tesi del saggio in questione è cioè che la meritocrazia è una forma di ingiustizia sociale. Meno bene quando passa alle considerazioni sul merito, un esempio fra tutti che denota la psicologia dell’esperto: “certamente non è merito di un figlio se la famiglia è ricca, ma negare che ne vada fiero mi sembra una fuga dalla realtà”.

  2. Grazie. Nessuno (mi) aveva mai chiarito così bene tutte le aporie della critica alla meritocrazia, che ahimé ci sono tutte. Lo dico con cuore dolente, perché sento intuitivamente che le posizioni come quella di Sandel hanno nonostante tutto molte ragioni ancora da vendere: forse hanno punti ciechi teoretici, ma magari oggi ne abbiamo forte bisogno, per toglierci di dosso molti tic e semplificazioni (a sinistra).

    Mi permetto poche osservazioni. Se si guarda alla concreta prassi politica della sinistra che non ragiona più in termini di lotta di classe, anche solo in Italia, è difficile, in concreto ma anche in linea di principio, distinguere quanto, difendendo l’eguaglianza di opportunità in quella forma virtuosa da lei descritta (specie in relazione alla scuola), non difendano invece le libertà naturali. A me pare che il problema resti sempre lo stesso: che la forma con la quale poi si concretizza la costruzione di un sistema aperto alle opportunità, assomiglia sempre molto al mercato, inteso in senso pre-economicistico come la forma di coordinamento presuntamente egualitaria tra uomini che riesce a fare a meno della verticalità del potere sovrano (perché questo sistema finisca in crisi e produca rifeudalizzazione, ulteriore diseguaglianza arroccata in sé, e guerra di tutti contro tutti, l’ha spiegato bene De Carolis ne Il rovescio della libertà). Facile esempio concreto: la sinistra riformista crede ciecamente che sottomettendo il sistema scolastico alle rilevazioni standardizzate allo scopo di individuare le “aree bisognose di intervento” si favorisca una società più equa. Ne avessi mai sentito uno rispondermi seriamente sul fallimento del No child left behind americano, che partiva dagli stessi presupposti. Si finge di non vedere che quel sistema di valutazione produce intrinsecamente stigmatizzazione, competizione, ranking.

    Io credo che le critiche di Sandel alla sinistra culturalista non possano essere liquidate così. Ci sarebbe da ragionare a lungo sulla cultura della vittima e sulle politiche dell’identità, che stanno balcanizzando le società (in America in re, in Italia forse più che altro in verbis, nel dibattito che prendiamo in prestito da oltreoceano, data la struttura differente delle due società). Mi pare infatti difficile non vedere come la retorica del merito e quella della vittima si tengano a braccetto (anche se la meritocrazia fosse solo una retorica e non una pratica sociale): il populismo nasce dal risentimento di chi è, si sente o gli è stato detto che sia (da un politico populista) escluso. Non ce l’ho fatta ed è colpa “loro” (in basso, di altre minoranze, in alto, della casta radical chic). Anche se fosse tutta una proiezione paranoica, gli effetti li vediamo eccome. E a sinistra troppo spesso riduciamo la questione a bon ton morale. Lo dice molto bene anche lei: “I pochi soldi che i perdenti guadagnano, la mancanza di titoli di studio o lo scarso prestigio delle università in cui si sono laureati, tutti i posti dove non sono stati e le lingue che non parlano, testimoniano senza possibilità di appello la differenza con i vincenti e il titolo di questi ultimi ad occupare la posizione che occupano”. C’è in effetti chi non sa comportarsi bene in società, non sa le lingue straniere perché parla in dialetto, non ha viaggiato, pensa come mio nonno (nato negli anni Venti, operaio e comunista stalinista) che l’anfiteatro di Siracusa siano “due pietre”. Oggi la sua stessa parte politica gli direbbe che è un bifolco sessista, razzista alienato dalla tv (passava le giornate a guardare i western): e lo era. Se non è un problema politico grande come una casa questo…
    (Che intere fette di proletariato siano state lasciate in mano alla retorica xenofoba delle destre per inseguire solo l’emancipazione personale lo racconta bene Didier Eribon in Ritorno a Reims).

    Grazie

  3. Grazie a lei Daniele.
    Penso che abbia molta ragione quando dice che aver consegnato fette del proletariato alla retorica xenofoba sia stato un peccato capitale. E condivido anche sia stato un errore prevalentemente della sinistra riformista, la sinistra ZTL se vogliamo. Ma dove cercare la risposta? Liquidando tutte le teorie egualitariste, schiacciandole sulla destra, Sandel sembra suggerire che una sinistra genuina debba rincorrere la destra sul suo terreno, smettendo di occuparsi dei gay e della cittadinanza, per volgersi “al popolo”. Ma possiamo davvero scegliere?
    Non dubito che la sinistra ZTL – femminista, ambientalista, LGBT*, pro-immigrazione (tanto gli immigrati occupano altri quartieri!!) – possa risultare insopportabilmente antipatica nel dare l’impressione di considerare tutti gli altri come dei bifolchi. Ma il problema proprio non mi sembra risiedere nell’eguaglianza delle opportunità. A me sembra che è proprio sull’eguaglianza di opportunità che abbiamo fallito. Che semmai quello che ci dà sui nervi della sinistra ZTL è che non razzola dove predica, troppo disattenta sulla scuola, sui servizi sociali, sui quartieri degradati, su una proposta reale di gestione dell’immigrazione, su un’efficace integrazione degli immigrati e così via. Ma se questa non è eguaglianza di opportunità, cosa allora?
    Sul merito.
    Quando mi è stato proposto di commentare il testo di Sandel, confesso, ho esitato. Io detesto profondamente il merito. Lo detesto in modo non meditato, psicologico, pre-teorico. E detesto la valutazione. La patisco talmente tanto che temevo di non riuscire ad essere abbastanza distaccata per commentare il testo.
    Ma spiegare il populismo con la valutazione mi pare una forzatura da parte di Sandel.
    C’è una considerazione, inoltre, che di solito non si fa. La valutazione in sé e per sé ha una storia nobile. All’inizio doveva servire a valutare l’efficacia di una politica sociale. A essere valutato, cioè, era la politica o i suoi tecnici, non le persone.
    Nella nostra applicazione assai singolare e parziale, invece, sotto valutazione sono venute a essere le persone . E’ questo che ha reso ridicoli e patetici i sistemi di valutazione. Ti valuto non per vedere se quello che io (politico) sto facendo va bene e, in caso, correggere, modificare, ma per stabilire quanto sei bravo e sostenerti. Proprio quelli che già se la stanno cavando!!
    Ma temo che, per quanto insopportabile la valutazione possa essere, i problemi della sinistra non stanno qua. Se pure riuscissimo ad abolirla, questo non ci restituirebbe un progetto politico su cui investire.

  4. Stupisco un poco di non vedere nemmeno una citazione del primo libro sulla questione: The rise of meritocracy di Michael Young

  5. Credevo di aver capito ma forse non ho capito. Mi pareva dalla conclusione dell’argomento che tu Ingrid fossi per una specie di abolizione dell’effetto San Matteo, cioè per una non-ossificazione delle classifiche — un bagno di sangue valutativo continuo, non fatto una volta per tutte. Poi leggo i commenti e mi confondo. Mi dici? (tra parentesi, l’argomento del povero in società castale che accetta con felicità la sua condizione era anche un argomento di PPP, che però secondo me faceva paradossi, non veri argomenti. Mi sembra buffo che Sandel non attribuisca arroganza e orgoglio ai nobili di società stratificate, visto che si tratta di società in cui l’infimo è considerato ai bordi — e spesso al di là dei bordi — dell’umano)

  6. Caro Matteo,
    grazie moltissime del commento. Non so se ho capito che cosa ti ha fatto sorgere dei dubbi. In generale, io penso che sono contraria alla valutazione delle persone. Penso che se ci riuscissimo sarebbe utile valutare le politiche. Se tu fai un sistema di valutazione per vedere se un programma (il reddito di cittadinanza, i food stamp, una politica abitativa etc.) per risolvere un certo problema è interessante sapere tre anni dopo come è andata. Ma se non è andata non è che sono i poveri che hanno sbagliato e li punisci. Giusto? Nel caso della valutazione universitaria, per esempio, se il piano è di migliorare la performance (è questo?), tu attui un certo programma, (dai fondi per l’internazionalizzazione? favorisci l’accesso alle pubblicazione in inglese? sostieni le persone a spostarsi) e poi dopo un tot dici ha funzionato, non ha funzionato, che cosa si può fare meglio ecc. Quello che facciamo noi, invece, non è né attuare una politica (per qualche fine pubblicamente condiviso), né valutare la politica. Noi diamo una mano a quelli che se la danno già da soli. E’ questo che io trovo discutibile. In generale, non trovo sbagliato che le società usino i talenti. Penso sia stato un gran risultato aver trovato il vaccino anti-Covid in così poco tempo. Ma penso che, appunto, “usare” i talenti vuol dire metterli al servizio di un fine collettivo, sociale, pubblico. E se per fare questo dobbiamo concedere qualche vantaggio ai talentuosi, ma facciamolo pure. Io non muoio se uno ha la Ferrari e io no. Basta non dargli un euro in più di quel che serve.
    Nel caso dell’università, quello che secondo è teoricamente interessante discutere è se l’università debba essere considerata parte delle condizioni di giustizia (come la scuola, per dire) o se, invece, è parte del sistema più ampio in cui favorire chi è più bravo avvantaggia tutti. Provavo a suggerire che dato il ruolo del tutto speciale che ha la formazione (specialmente in una prospettiva di vita lunga come è ormai la nostra), l’università debba avere un ruolo speciale, più simile alla scuola che al mercato, per intendersi. Ma questo è un discorso in punto di teoria. Nella pratica, premiare i più bravi, così di punto in bianco, senza prima aver fatto alcuno sforzo di pareggiare le condizioni alla partenza è senza dubbio ingiusto.
    Grazie per l’effetto San Matteo che non conoscevo ed è bellissimo!!
    Non so se ho chiarito quello che intendevo o ho aggiunto confusione a confusione.
    Mi rendo conto ora che è difficilissimo “conversare” via blog.

  7. Ma Julien Sorel se non avesse sparato a M.me de Rênal sarebbe meritevole? Siamo così sicuri di sapere chi sono i meritevoli?

  8. “premiare i più bravi significa solo premiare coloro che hanno avuto maggiori possibilità perché sono nati in condizioni migliori”. Come nella scuola classista e autoritaria del Regno di Prussia, che rapiva un figlio di contadino per trasformarlo in Johann Gottlieb Fichte, o un figlio di sellaio per farne Immanuel Kant. O nella non meno ingiusta scuola gentiliana, che imponeva al figlio di un agricoltore di Cerreto Guidi (FI) di diventare Adriano Prosperi, o al figlio di un sarto di Saracena (CS) di diventare Vincenzo di Benedetto. Possa Ingrid nella sua infinita saggezza spazzare via queste disumane iniquità.

  9. L’ideale sarebbe investire in un progetto collettivo che portasse avanti tutti e prescindesse dal mercato, senza però mettere chi è avvantaggiato di suo nella condizione di doversi fermare al palo. Bisognerebbe quindi studiare soluzioni multiple. Il problema a monte, però, è sempre lo stesso: quali risorse ci sono? Perché il detto attribuito a Churchill secondo cui “Academic fights are so vicious because stakes are so low” significa proprio che quando ci sono solo poche briciole da spartire si arriva al coltello.

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