di Gilda Policastro
[Esce oggi per La Nave di Teseo La parte di Malvasia, il nuovo romanzo di Gilda Policastro. Ne presentiamo un estratto in anteprima].
Malvasia è entrata senza bussare, la mamma è distesa, papà si veste. Hanno chiuso le imposte, nella stanza c’è un odore che non ha mai sentito prima, non è di buono, non è di sporco, sembra l’odore della piscina oppure delle foglie bagnate, è un odore che va annusato per capirlo, riconnetterlo, le altre volte che sarà così, dopo. La mamma è vestita, o meglio ha la camicia da notte a fiorellini, sbottonata, si vede che ha i seni nudi, del resto non si coprono i seni sotto la camicia da notte, anche se Malvasia lo preferirebbe tanto per sé, che non li ha ancora così tondi, ma soprattutto per sua madre, i cui seni hanno una forma che ha potuto indovinare solo sul suo, di corpo, e di nessuna delle altre madri, né delle amiche più sviluppate. Si chiede hai fatto lo sviluppo. E Malvasia secondo il medico non ancora, e forse sarà tardi, che avverrà, questo suo sviluppo, perché è magra. Come un grissino oppure una capretta, dicono a scuola, dove le caprette le hanno qualche volta anche viste dal vivo, gli altri, a differenza sua, che quando mai. La mamma li portava in campagna solo quand’erano bambini, perché prendessero l’aria buona fin quando papà lavorava, poi, quando papà finiva scuola, se ne andavano tutti al mare. Ma a Malvasia non piaceva il mare, perché si stava in mutande. A terra le mutandine della mamma rivoltate, una chiazza bianca, due. Forse è da lì che proviene l’odore, Malvasia ha un piano per scoprirlo, aspetterà che la mamma esca e poi le prenderà. Come saprà che non le metterà via, che ci saranno ancora? Ci saranno: la mamma è disordinata, e poi hanno fretta, l’ha detto papà. Le batte il cuore fortissimo, come alle gare di scuola, quando corrono nel campo e aspettano lo start. Grazia è la più brava, a correre e anche in calligrafia, la maestra la mette seconda, comunque prima di lei, che è terza. Grazia viene da una famiglia umile, dice la maestra, il padre è carrozziere, la mamma sarta, ma sa fare tutto benissimo, la corsa e la calligrafia. Escono, la porta si chiude, non c’è più nessuno, ma per sicurezza chiama il fratello per nome, Aldo, Aldo. Niente, nessun Aldo. Apre di nuovo la porta e la stanza le pare tutta diversa, senza la mamma e il papà che si annoda la cravatta: non la guarda, non la guarda quasi mai, il papà. La mamma anche quando sono in tanti, quando ci sono tutti i cugini riuniti, è sempre lei che guarda: Malvasia. Per rimproverarla, di solito. E mettiti composta. E statti zitta. E sempre così, sempre. La prende tra le due dita e la solleva, poi se le porta al naso, indugia sul particolare delle chiazze. Quello è l’odore delle cose che fanno il papà e la mamma, le cose che fanno il papà e la mamma secondo Aldo. Un giorno le farai anche tu. Zitto, non è vero, lo dico alla mamma. Aldo rideva, povero me che ho una sorella scema. Scemo e stupido, non dicevano altro, che la mamma e il papà non volevano parolacce e la volta che avevano trovato sul quaderno di Aldo il disegno di un cazzo (di un? cazzo, cazzo) gli avevano menato prima uno e poi l’altra, papà con la cinghia, mamma con il battipanni. Era tutta colpa mia, ma Aldo non lo aveva mai saputo. Avevo trovato questo disegno strappato dal quaderno e l’avevo steso sul tavolo di cucina. Aldo lo cercava per disfarsene, ma non aveva fatto in tempo: lo afferrarono papà da un braccio, mamma dall’altro, e giù botte, io chiusa in bagno mi coprivo le orecchie, poi Aldo andava in camera nostra e provavo a entrare per consolarlo. Ma lui diceva puttana e di togliermi dalle palle e altre cose bruttissime. Aveva tutta la faccia rossa di schiaffi ed era colpa mia. Così avrebbe raccontato Malvasia, ma non era tutta la verità. La verità è che Aldo le aveva voluto spiegare il disegno a ogni costo e lei si era vendicata. Non è che la vendetta sia eticamente preferibile a un atto gratuito, o forse sì. Ci sono cose che si ha paura a riconoscere: si raccontano perché è meglio mandarle fuori dalla testa, prima che diventino quei pensieri fissi, che più li ricacci indietro e più si riaffacciano in un momento della giornata che non vuoi. Quando Malvasia lascia le mutandine della madre sul pavimento non ci pensa, che quel pensiero possa poi tornare. Che la possa turbare. Turbamento è una parola che di per sé la agita, come avesse l’implicito sconcio nei caratteri, nella sequenza delle t delle r e della b. Se pensa alle t alle r e alla m, la m di mamma, e poi all’odore delle mutandine deve correre al bagno, chiudersi dentro, strofinare la parte di sotto contro lo spigolo del lavandino e farlo tante volte finché la faccia non diventa rossa come quella di Aldo dopo gli schiaffi. E anche il pensiero della faccia di Aldo, insieme alle mutandine della mamma, e alla t e alla m di turbamento, servono a finire quella cosa. Poi può uscire dal bagno e alla mamma che le chiede come mai tutto quel tempo, dice che era la cacca. Ma non si sente nessun odore. E allora odorami questa, ma non sarebbe la mamma, se le rispondesse a quella maniera. La mamma è una persona che ti può rimproverare sempre, ma tu maltrattare, mai. Puoi, tutt’al più, volere che muoia, o morire tu, così la smette di rimproverarti. Muori, pensa Malvasia, muori, mamma malvagia e sporca. E portati all’inferno papà, le sue bretelle, le tue mutande.
[Immagine: Tommy Nease, Lauren (Lights), 2017].
Poche righe e la storia di Malvasia mi ha già catturato!
La scrittura che mi piace. Congratulazioni a Gilda Policastro.