di Massimo Gezzi
[Oggi si è diffusa rapidamente la notizia della morte di Francesco Scarabicchi (1951-2021), poeta e amico. Per rendergli un piccolo omaggio pubblico, presento su LPLC questo saggio (inedito online) apparso nel volume Patrie poetiche. I luoghi nella poesia italiana contemporanea, curato da Elisabetta Pigliapoco e pubblicato da Pequod nel 2010. E’ un saggio scritto con una lingua diversa da quella che userei oggi, ma a Francesco era piaciuto molto, perché ripercorreva quelli che lui chiamava i “luoghi / giovani per sempre”, i “luoghi dell’infanzia immortale e innocenza dell’azzurro” che i suoi versi esplorano spesso. Lo metto qui perché contribuisca alla lettura dell’opera di Francesco e perché contiene molte sue parole, sia in prosa che in versi (mg)].
Per pochi poeti contemporanei, come per Francesco Scarabicchi, varrebbe la pena di condurre un’analisi capace di muoversi sul crinale affascinante e un po’ infido che divide la critica tematica da altre metodologie strettamente imparentate con la psicoanalisi: la psicocritica e lo studio delle métaphores obsédantes di Charles Mauron, per esempio, che si differenzia dalla critica tematica di un Poulet, di un Richard o di uno Starobinski per il fatto di ricorrere non al «raffronto» ma alla «sovrapposizione» dei testi (procedimento in grado di mettere in luce non tanto «i temi ricorrenti che riguardano il pensiero cosciente» ma «i legami inavvertiti e più o meno inconsci»[1]); oppure una lettura freudiana dell’opera che prenda l’abbrivo dai magistrali risultati raggiunti e teorizzati da Francesco Orlando[2]; o magari, spostandosi sul versante junghiano, la critica simbologica e archetipica di un Gaston Bachelard[3], depurata dalle sue oltranze astrattizzanti. Solo che sarebbe davvero poco perspicace affidarsi soltanto a un’impostazione di questo tipo, per un poeta dallo sguardo tanto nitido e attento alla «vita minimale autentica di luoghi, vegetali, stagioni, presenze femminili» (Mengaldo) e opere d’arte, fedelmente contemplate e raccontate con sensibilità davvero compartecipe da oltre trent’anni. E sarebbe ancora più miope prediligere in modo unilaterale un’analisi che miri a «confondere i contenuti coscienti dei testi»[4], quando ci si proponga di mettere a punto, come in queste pagine, una mappatura dei luoghi che la poesia di Scarabicchi percorre, o nomina, o richiama alla memoria con devozione e struggimento di sapore leopardiano. Eppure, come tenterò di dire, la produzione poetica e persino critica di Scarabicchi è impressionata da una tenace costellazione di immagini che prendono certamente origine dai luoghi abitati o vissuti dall’uomo, ma che al contempo in qualche modo ne prescindono, predisponendosi in poche situazioni ricorrenti che alimentano le feconde ossessioni del poeta, la sua mental imagery.
Si potrebbe iniziare questa disamina attingendo non dalla poesia, ma da una delle cronache d’arte che l’autore ha recentemente raccolto in volume. Come spesso accade ai poeti – specie a quelli profondamente consapevoli del proprio fare –, Scarabicchi riconosce in un altro artista, qui Libero Ferretti, un’urgenza e una disposizione condivise, quelle che permettono al pittore di Offagna di depositare sulle sue tele «figure e luoghi di un paesaggio affidato ad uno sguardo asciutto, spogliato d’ogni descrizione o allusione, votato solo al suo estremo destino lessicale»[5]. Non credo che un attento lettore esiterebbe ad adottare questa definizione in rapporto alla stessa opera di Scarabicchi. E non solo per la «rastremazione formale» di cui parla Mengaldo nella bandella del Cancello[6], ma soprattutto per l’ormai proverbiale «essenzialità espressiva» in cui Massimo Raffaeli ha riconosciuto i caratteri di un’ontologia: «cioè spogliare la vita della sua ilare e tetra sovrabbondanza, fissare solamente il necessario, tradurne in parola la netta risonanza emotiva, salvare dal superfluo e dalla dispersione i rari attimi di compiutezza e perciò etimologica perfezione»[7]. Se questa è la cifra stilistica ed etica della poesia di Scarabicchi, si capisce bene come anche i luoghi, nel processo che li proietta sulla pagina, subiscano la medesima spoliazione, a tratti persino severa, senza però che ciò comporti la compromissione della loro riconoscibilità. Per convincersene, si potrebbe iniziare con il censire qualcuno dei toponimi che l’opera di Scarabicchi contempla, segnali di una geografia sentimentale e stravagante affatto personale che solo in parte coincide con quella reale e quotidiana, se è vero che «Ancona», se non ho visto male, è lemma che nelle concordanze della poesia di questo scrittore di nascita e residenza anconitane si troverebbe una volta soltanto (VI 49). Ecco invece, per ripartire dall’amato Ferretti, «le stanze di Offagna» (VI 54), o «le porte di Gorizia» che «Battono ancora al vento» (VI 74); ecco «le luci di Aradeo» (VI 63), un paese del Salento, e Le luci di Larino (Molise), dove il toponimo, come accade più volte in Scarabicchi, diventa titolo di sezione (di VI), soglia paratestuale cui allacciare, per non smarrirlo, il filo della memoria. Ecco ancora «Vienna d’inverno» (VI 100), «Firenze» (VI 111), «Merano» (VI 103); e «Ortona» (VI 90, PB 61, EN 52[8]), il «bel prato di Assisi» (VI 75), «Ascona» (PB 30); e poi i paesi di «San Mamete» (PB 129), «Ória» (PB 132) e Albogasio (titolo della relativa sezione “di viaggio” di PB) sul Lago di Lugano; o ancora l’allitterante «Parma e pane» (EN 29) e la sfilza di toponimi toscani («Orcia e Siena», «Lucca o Volterra», S 13) disseminati nella bella prosa che apre Il segreto. Quel che garantisce una certa sensatezza a una rassegna corriva come quella che abbiamo intavolato, è che tutti questi toponimi appartengono a dei luoghi persi, per usare un sintagma caro a un altro poeta marchigiano. Ma se l’immaginazione poetica di Piersanti pascola in un fondale perenne e immobile dai tratti arcaici e irraggiungibili (la campagna, le Cesane), quella di Scarabicchi nomina i molti luoghi attraversati proprio per tentare di scongiurarne la perdita, o meglio per scongiurare la perdita della loro memoria, o addirittura della memoria tout court, che per questo poeta costituisce davvero il prezioso giacimento in grado di garantire un significato al presente[9]. Leggiamo, per verifica, un testo di EN che rappresenta un felice repertorio dei luoghi geografici (Ortona) e simbolici (l’infanzia, la notte, la stanza d’albergo, le luci lontane, la neve…) di tutta l’opera di Scarabicchi:
Luci distanti
“Il muschio è quell’odore che non muta
la sua antica infantile identità,
come se fosse sempre ovunque Ortona,
nel silenzio notturno che qui scende,
camera d’un albergo di provincia,
luci distanti che dai vetri vedo,
se appena un po’ m’accosto dopo cena.
Cadrà sempre la neve in ogni tempo,
sarà bianca com’era, fresca e intatta,
nasceranno bambini dai suoi fiocchi
come piccoli uomini che vanno
al paese incantato inesistente
che ciascuno conosce, se rammenta
l’albero dai bei doni illuminato”.
Ortona, va detto subito, costituisce una sorta di fondale mitico e ricorrente. Lo confessa il poeta stesso in una nota al testo di EN che varrà la pena di tenere a mente:
A un orizzonte meridiano e mediterraneo della mia storia si lega la geografia dei versi che include, sempre, la luce d’ogni stagione della costa adriatica, dall’ombra vegetale del Monte Cònero fino al meridione di Grottammare e di Ortona, luoghi dell’infanzia immortale e innocenza dell’azzurro (secondo l’Achab di Moby Dick nel capitolo CXXXII intitolato “La sinfonia”) e perciò assoluti (EN 137).
L’Ortona che in questa poesia si fa «luogo assoluto», tra l’altro, era già apparsa nella sezione Passeggiata orientale di PB, di nuovo preceduta dalla Soglia –stavolta però anonima – tratta da Melville: «Infanzia immortale, / innocente azzurro!» (PB 63): lì lo sguardo ripercorreva visivamente la città restituendone, al tempo presente, i dettagli e la topografia: il «castello aragonese» (PB 68), «l’andare delle onde a Punta Penna» (PB 69[10]), «la torre gentilizia dei Baglioni, / i resti delle mura di Caldora» (PB 72), «la Villa Comunale» (PB 73). Nel testo più tardo, invece, il nome della città sboccia da una rêverie notturna dell’intimità: è il «kingdom by the sea» che in un testo di Edgar Allan Poe (Annabel Lee) fa da sfondo luminoso e incantato all’infanzia, e che in virtù della sua assoluta capacità di radianza si riproietta, foss’anche per l’attimo breve e gratuito di un’intermittence du coeur, sul presente quotidiano, invadendone lo spazio e trasfigurandone il tempo[11].
Eppure Ortona, che anche in un testo di VI (90) funge da personale antonomasia della memoria (questa volta collegata a un interno familiare: «Ortona erano gli anni / con la parola spenta / e gli indumenti immobili / sotto la naftalina»), non è certamente l’unico luogo assoluto, del «tempo senza tempo, senza luogo» (EN 34), nella poesia di Scarabicchi: sovrapponendo testi lontani e appartenenti a opere diverse, secondo il consiglio di Mauron, un lettore scoprirebbe che anche Assisi vive in una sorta di montaliano «fuordeltempo». Una poesia di VI (75) recita:
Allontanano gli anni
i volti delle effigi:
la dama che sorride
dal bel prato di Assisi
e, di profilo, l’alto
elegante signore che saluta.
Ancora una volta Scarabicchi trasforma un luogo determinato in teatro della memoria. E si tratta, di nuovo, di un luogo dell’infanzia. Nel presentare al lettore le cronache d’arte raccolte nell’Attimo terrestre, infatti, l’autore dichiara che la familiarità e l’amore per la pittura gli derivano da molto lontano: «I testi scelti […] sono l’esito di un percorso e di una passione nata sicuramente dall’infanzia di innumerevoli viaggi, con mio padre e mia madre, ad Assisi, lungo le pareti della Basilica superiore dove ascoltavo le storie di Giotto in quella luce terribile ed unica» (AT 5). I luoghi richiamati da questi versi valgono sia in quanto «luoghi / giovani per sempre» (PB 59), impressi nella memoria che riattinge all’infanzia (dato che, con Bachelard, «il legame con un luogo si ritrova attraverso la rêverie accaduta in quel luogo»[12]); sia come loci che l’arte della memoria convoca affinché risuscitino dal loro fondale le care imagines agentes (del padre, della madre, di altre figure femminili) che lo popolavano, quasi che Scarabicchi abbia introiettato d’istinto i consigli mnemotecnici degli antichi retori romani[13]. Non a caso, durante una conversazione sull’arte di Enzo Cucchi, il poeta di Ancona richiamò una volta un passo del Pavese di Del mito, del simbolo e d’altro, uno degli intensi racconti-saggi di Feria d’agosto: «A un luogo, tra tutti, si dà un significato assoluto, isolandolo nel mondo […]. Così a ciascuno i luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria; in essi accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico» (AT 70[14]). Questi «luoghi unici», o «stampi della tua conoscenza del mondo»[15], si esperiscono realmente la «seconda volta» che li si incontra, oppure quando li si ricorda: «Bisogna sapere», scrive Pavese in Stato di grazia, «che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo»[16]; e ancora, in L’adolescenza: «Noi ammiriamo soltanto ciò che abbiamo già una volta ammirato»[17]. Se per il Pavese di Feria d’agosto, però, il luogo mitico non è tanto «singolo […] quanto quello di nome comune, universale, il prato, la selva, la grotta, la spiaggia, la casa»[18], per Scarabicchi i «luoghi assoluti» sono spesso precisi e riconoscibili e, come nei casi che abbiamo visto, detentori di un nome proprio. Si direbbe anzi che essi possano agire (si ricordi il «Buffalo!» di Montale) solo in quanto portatori di un nome, e che il poeta abbia bisogno di ridire e riscrivere quel nome per salvarne la memoria e sapere, una volta di più, che il passato non è perduto. Non succede solo per Ortona e Assisi: quasi ogni volta che viene convocato un toponimo di città o di paese, i tempi verbali volgono al passato (puntuale o durativo), i versi evocano qualcosa di remoto, nello spazio ma soprattutto nel tempo. Forniamo qualche esempio ripercorrendo la lista abbozzata sopra: «nelle stanze di Offagna» di VI (54) sembra risuonare una «voce da lontano»; «le porte di Gorizia» (VI 74) battono ancora al vento ed evocano un «ricordo»; «le luci di Aradeo» (VI 63) sono giustapposte al «gesto / che la memoria impara»; le luci di Larino «Tornano ancora a perdonarmi» e richiamano un episodio del passato («dove con lei t’ho persa», VI 103); «Vienna d’inverno» compare in un ricordo di Nora (VI 100); Firenze fa da fondale a un pomeriggio del passato e all’«amara memoria» che vi si lega (VI 111); Merano suscita «malinconia» (VI 103); Ascona è la città di un breve viaggio di cui si ricorda, a distanza di tempo, «la via di muri muti» (PB 30); di Sorrento si rievoca in tono elegiaco il «lontano […] giorno» in cui vi si giunse (PB 99); Parma sboccia da un odore tornato alla memoria («L’odore che ricordi è Parma e pane», EN 29); e Il segreto ripercorre i luoghi toscani che fanno da cornice a una «figura della perdita assoluta» (Raffaeli): «Chissà dov’è rimasta la tua gonna, se a Fiesole sul muro della casa o in un albergo d’Arno; chissà dove ho lasciato me ad attendermi […]» (S 13).
E Ancona, il luogo del quotidiano? Se è vero, come si diceva, che il suo nome compare una volta sola in tutta la produzione poetica, è anche vero che la presenza della città dorica si avverte costantemente in questi versi. Durante una puntata di Residenza incentrata su Ancona (Il capoluogo probabile, 18 giugno 1980), Scarabicchi lesse un testo di intonazione piuttosto sereniana, rimasto poi escluso da tutte le raccolte successive, interamente dedicato alla sua città, «sempiterna di mura e vicoli in discesa». La poesia terminava con una chiusa caproniana (il Caproni della Litania) che riecheggiava, per paronomasia e poi per quasi-rima, il nome sempre evocato ma mai pronunciato: «Nell’ora antelucana un orizzonte / di navi nel ritorno, / nostra straniera in madre conosciuta, / nostra voce dolente, àncora, lacuna»[19]. Scommetteremmo dunque che sia proprio Ancona «la città di mare» di Un mondo familiare (C 34), o quella di Nell’ora di nessuno (PB 49): «Pochi / battelli fermi / nell’ora di nessuno, / sul mare, / la domenica». Ancora una volta, si sarebbe tentati di prelevare quanto il poeta ha scritto su Libero Ferretti: per il pittore di Offagna, residente a Milano, Ancona è La città lontana (così si intitolava una sua antologica del 1999), «la città dell’origine, sorta di crocevia assunto interiormente come nodo e distanza» (AT 82). Ma anche per lo stesso Scarabicchi, che pure si muove da sempre nella trama di vie e vicoli della sua città, Ancona è «lontana» (VI 49), è «straniera» (nel testo di Residenza), forse è la lontana contrada che dà il titolo a una sezione di PM. A Federico Zeri, che nel 1993 gli chiedeva, nel conoscerlo, da quale Marca provenisse, il poeta rispose: «Da quella di Ancona, l’unica città non marchigiana della regione. Un’isola di scoglio nell’acqua, una sponda che guarda ad Oriente. Un porto» (AT 133). Una città-porto e una città-isola, dunque, spesso guardata da lontano. Ciò che si può abitare e nominare, invece, è il microcosmo composto da case, vie e luoghi cari che si apre nel cuore della città, quasi che Scarabicchi percepisca Ancona come Leopardi percepiva Roma nel dicembre del 1822[20]. Vie e viali, anonimi ma più spesso riconoscibilissimi, si inseguono sulle pagine, specie da VI in poi[21], a disegnare nel tempo una sorta di cartina degli affetti e della memoria: nella sezione eponima di VI, recante una dedica alla madre, Scarabicchi nomina Via Fanti e Piazzetta Sant’Anna; poco prima, in Tre movimenti – anch’essi in memoria della madre – aveva scritto di Via Orsi; in EN la sezione intitolata Le cose, inaugurata da una sorta di auto-epigrafe o correlativo oggettivo della scomparsa («Gli occhiali di Adele […]», nonna materna dell’autore ricordata già in VI), si conclude in Via Podgora, «un’altra residenza provvisoria, sosta in un possedimento precario» (EN 78). Non stupisca questo ossimoro apparente: la residenza, per Scarabicchi, non è mai possesso sicuro e pacificante ma semmai, secondo l’insegnamento di Franco Scataglini, inquieta interrogazione, resistenza momentanea al nulla, come si legge in un articolo dedicato all’amatissimo Lorenzo Lotto «che trova, nelle Marche, forse la sua prossima e interiore residenza, il luogo in cui si ricompone un paesaggio esistenziale fin troppo frantumato e dissestato da vicende interne ed esterne, il luogo in cui scegli di attendere la morte sebbene di essa “non potemo haver alcuna certezza, del quando, né luocco, né come”» (AT 187). Ancora una volta, scrivendo di artisti che ama, Francesco Scarabicchi parla anche di sé.
Dicevamo però che dai luoghi topografici e riconoscibili questa poesia sa anche prescindere, attraversata com’è da una costellazione di immagini o situazioni ossessivamente ricorrenti. Tenterò ora di perlustrare per brevi cenni questa sorta di geografia simbolica e interiore.
Una prima immagine, l’abbiamo già anticipato, è quella della via, del viale. Talvolta le vie di Scarabicchi sono teatro di passantes e altre apparizioni femminili («Oh l’aria di lei comparsa / al fondo della via», VI 66; «Incurante di me, / dilegui senza nome / lungo una via privata, / inclamata beltà / dovuta al caso», PB 43; «una città di luci a tarda notte, // ragazze alla fermata della pioggia», EN 35); altre volte il fascino perturbante dell’alterità e dell’inconnu promana da «un’auto già lontana che scompare» (EN 128), o anche solo dal «buio più lontano della curva» (EN 125), da quello che attende «laggiù dopo la curva» (EN 117: «A morte é a curva da estrada», aveva scritto d’altronde Pessoa[22]). Questo modulo o situazione (l’io percipiente e poetante qui, o qui dentro – il mondo o l’altro là, o al di fuori) mi sembra provenire da una sorta di ossessivo «mito personale»[23], che la scrittura di Scarabicchi ha più volte teorizzato e formalizzato in un corrispettivo spaziale: «Seduto a lume spento, / ho visitato / il mondo senza me, / quel nulla intero» (PB 17); «Su questa sponda io, sull’altra il mondo che vedo da quassù» (EN 77); «e sei un numero civico, una via / del chiuso mondo che mi tiene fuori» (S 17). Tra l’io e il mondo, in questa poesia, corre spesso una rima di frattura, un diaframma silenzioso. Tale divisione, che si connota in modo ambiguo sia dei significati profondi della separatezza-reclusione, sia di quelli della separatezza come riparo o possibile dimora, produce almeno un paio di costanti immaginative:
1) quella di un interno che si contrappone a un esterno. La poesia di Scarabicchi è folta, oltre che di vie e viali, di case, di interni, di stanze. La sua attenzione amorevole per gli oggetti domestici (ad apertura: «si sparecchia la tavola», VI 22; «odore di bottega / e naftalina», VI 30; «quasi buio specchio», VI 35; «tavoli da stiro», VI 73; «una piccola radio che in cucina / manda parole e musica […]», EN 25; «stanze serene / di piccole tendine e sedie amiche», EN 39) risillaba sensualmente uno «spazio di consolazione e di intimità», quello del «non-io che protegge l’io»[24] . È da qui dentro (oppure da qualche «camera d’un albergo / di provincia» , EN 52[25]) che spesso il poeta, di notte, si accosta alla finestra e guarda fuori. «Attraverso la finestra del poeta», ha scritto Bachelard nelle sue affascinanti pagine sulla Poétique de l’espace, «la casa intreccia col mondo un rapporto di immensità: anche essa, […] la casa degli uomini, si apre al mondo»[26]. Sono davvero numerosi i testi in cui l’io si affaccia da una finestra, spesso posta in alto: «guardo fuori dai vetri» (VI 47); «quando si accosta ai vetri / a guardia di ore chiuse» (VI 100); «di là dai vetri» (VI 135); «tutto il mondo di là / che, in lontananza, / è dato di vedere / e non toccare» (PB 16); «Dai vetri di un albergo» (PB 32); «foglie di là dai vetri» (EN 32); «Tornano spesso ai vetri a visitarmi / la paura del nero e quelle voci» (EN 55). Molto di frequente, dai vetri di questa stanza buia, l’io poetante scorge, in lontananza, delle luci;
2) ed ecco la seconda, tenace costante immaginativa e simbolica che percorre la produzione poetica di Scarabicchi: il buio entro cui il soggetto respira e guarda, e le luci distanti (titolo della poesia di EN già riportata) di paesi o città di là dal vetro, sull’altra sponda o su un’altra collina: «muta come le luci / della riva di là» (VI 131); «di là dal vetro, luce» (VI 135); «luci rare, lontane, / dalla costa» (PB 31); «Prima del sonno vedo / paesi non lontani» (PB 44); «lumi sull’altra sponda: tende o case?» (PB 131); «a quella estrema luce / d’altra sponda» (PB 137); «luci distanti che dai vetri vedo» (EN 52); «Dai vetri della cucina è tutto scintille di luci alte nel cielo freddo» (EN 78-9); «paesi / eterni illuminati da distanze» (EN 131); «luci di costa accese alla mia insonnia» (S 20); «Vi chiamo dal paese più lontano, / dal fioco lumicino» (FL 2). Ma se le luci sono lontane e irraggiungibili da parte di un soggetto separato e immerso «nel silenzio notturno della casa» (PB 40), esse favoriscono anche una sorta di ambiguo e fecondo rovesciamento di posizione e di valori, dovuta a quello che Bachelard ha chiamato «uno dei più grandi teoremi dell’immaginazione del mondo della luce: Tutto ciò che brilla vede»[27]. Il soggetto confinato nel buio e a distanza, allora, vede le luci ma insieme ne è visto e visitato, di modo che il diaframma tra sé e mondo viene allo stesso tempo affermato e negato, come se ogni luce fosse una sorta di segnale, di lampada accesa o di candela che rischiara una stanza in cui si può immaginare o sperare la presenza di qualcuno. Se tutto questo ha un senso, forse non sarà un caso che Scarabicchi nel 2002 abbia chiuso uno scritto dedicato al fotografo Vincenzo Cottinelli citando proprio il poème en prose di Baudelaire (Le finestre) che tanto significò anche per un celebre studio di Bachelard[28]:
Chi guarda da fuori attraverso una finestra aperta, non vede mai tante cose come chi guarda una finestra chiusa. Non c’è oggetto più profondo, più misterioso, più fecondo, più tenebroso, più abbagliate, di una finestra rischiarata da una candela. Ciò che si può vedere al sole è sempre meno interessante di ciò che avviene dietro a un vetro. In quel buio o luminoso buco, vive la vita, sogna la vita, soffre la vita (AT 145)[29].
Per mezzo della luce distante che scintilla nel buio (e poco importa che sia quella di una finestra, di un paese in collina o di una nave che si allontana dal porto) il soggetto e il mondo sembrano percepirsi a vicenda e confermarsi in un patto di reciproca fedeltà: se i paesi sono «eterni, illuminati da distanze» (EN 131), se quelle Luci distanti, avvistate nel buio di una camera d’albergo, sono ancora in grado di sprigionare la meraviglia senza tempo di Ortona e del «paese incantato inesistente» (EN 52), allora chi scrive non potrà che ribadire, ogni volta che scrive, la sua «sensibilità interiore e linguistica, con quell’intenso sguardo che poi è divenuto, nel corso del tempo, fedeltà ai paesi» (EN137[30]). Che siano luoghi reali e nominabili (come la Grottammare cui anche l’amato scultore Pericle Fazzini «è rimasto indissolubilmente fedele per tutto il corso della sua esperienza di uomo e di artista», AT 79), o spazi «di consolazione e di intimità» da cui intrecciare un «rapporto di immensità» con il mondo, questa amorosa e insieme ossessiva fedeltà mi pare la cifra fondamentale che lega Francesco Scarabicchi ai luoghi della sua vita e della sua immaginazione di poeta.
Note
[1] Ch. Mauron, Dalle metafore ossessive al mito personale (1963), Milano, Il Saggiatore 1966, p. 24.
[2] cfr. F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi 1973 per la teoria e almeno Id., Lettura freudiana della «Phèdre», Torino, Einaudi 1971, per un’applicazione pratica.
[3] cfr. per esempio G. Bachelard, La poetica dello spazio (1957), Bari, Edizioni Dedalo 1975. Nel corso del saggio ricorrerò più volte a questo studio.
[4] Ch. Mauron, Dalle metafore cit., p. 24.
[5] F. Scarabicchi, Libero Ferretti. La città lontana, in L’attimo terrestre. Cronache d’arte 1974-2006, Ancona, affinità elettive 2006, p. 82. D’ora in avanti ci si riferirà a questo e ad altri volumi di Scarabicchi per mezzo di sigle, secondo la seguente legenda: La porta murata, introduzione di F. Scataglini, Ancona, Residenza 1982 (PM); Il viale d’inverno, postfazione di M. Raffaeli, Brescia, Edizioni l’Obliquo 1989 (VI); Il prato bianco, Brescia, Edizioni l’Obliquo 1997 (PB); L’esperienza della neve, Donzelli, Roma 2003 (EN); L’attimo terrestre cit. (AT); Il segreto, con uno scritto di M. Raffaeli, Brescia, l’Obliquo 2007 (S); La ferita della luce, Milano, Quaderni di Orfeo 2007 (FL). Per AT si rinuncerà a citare il titolo dei singoli articoli, desumibile comunque dal saggio, e si rimanderà soltanto alla pagina. Le citazioni verranno seguite dunque da indicazioni di questo tipo: PB 14, AT 68, che rimanderanno rispettivamente a Il prato bianco cit., p. 14 e L’attimo terrestre cit., p. 68.
Si confronti il giudizio di Scarabicchi su Libero Ferretti con le parole che Franco Scataglini, nell’ultima puntata della trasmissione radiofonica Residenza (27 luglio 1981), indirizzava allo stesso artista: «Ti dirò una cosa che potrà sorprenderti: tra tanti artisti marchigiani delle passate e delle presenti generazioni, mi sembra che oggi […] sei quello che riesce a dire l’essenziale spogliandolo della sua tipicità», ora in M. Guzzini (a cura di), Residenza. Settimanale radiofonico Rai Marche 1980-1981, Ancona, il lavoro editoriale 2000, p. 344.
[6] F. Scarabicchi, Il cancello, Ancona, peQuod 2001. Il volume raccoglie una scelta di testi dai primi tre libri (PM, VI e PB) ed è accompagnato da una bandella firmata da Pier Vincenzo Mengaldo. Lo si citerà con la sigla C.
[7] M. Raffaeli, in F. Scarabicchi, Il segreto cit., p. 5.
[8] A Ortona pertengono anche Via Caraceni, titolo di una sezione di VI (nominata anche in VI 91), e «Corso Vittorio», che s’incontra in VI 89.
[9] Mengaldo, nella bandella del Cancello, sostiene che «l’insegna di Scarabicchi» va rinvenuta nell’«incontro fra nichilismo e realismo autobiografico», nel «vivere all’ombra delle piccole cose quotidiane, delegando il significato della vita al passato».
[10] Punta Penna, con la sua ombra, ricompare anche in EN 54.
[11] Non sempre, nella poesia di Scarabicchi, i «luoghi / giovani per sempre» sono in grado di realizzare il miracolo laico di assolutizzare spazio e tempo. Per esempio il Secondo preludio che precede Passeggiata orientale, in PB 59, volge, per così dire, l’inno in elegia: «Oh giorno vano / dell’inclemente chiuso / tempo che non trattiene / nulla di ciò che è vivo! // C’erano e più non sanno / che cammino / custode involontario / che ormai vede // di un’altra età / compiuto il suo destino / e di quei luoghi / giovani per sempre // negli occhi accesi / di un eterno bambino / che divide quel sogno / dal presente».
[12] G. Bachelard, La poetica cit., p. 81. Ma si ricordi anche il «diletto […] vago e indefinito», «l’idea […] indeterminata e senza limiti» che nasce, quando siamo fanciulli, da «una veduta, una campagna, una pittura, un suono ec. un racconto, una descrizione, una favola, un’immagine poetica, un sogno», secondo il Leopardi di Zibaldone [514], che più tardi ribadisce l’importanza enorme delle «benché minime impressioni della fanciullezza, e quanto gran parte della vita dipenda da quell’età» [668].
[13] Cfr. F. Yates, L’arte della memoria (1966), con uno scritto di E. Gombrich, Torino, Einaudi 1993, soprattutto il cap. I (Le tre fonti latine per l’arte della memoria nel mondo classico), pp. 3-26.
[14] cfr. C. Pavese, Del mito, del simbolo e d’altro, in Feria d’agosto (1946), introduzione di E. Gioanola, Torino, Einaudi 2002, p. 149.
[15] Id., Il mestiere di vivere, nuova edizione condotta sull’autografo, a cura di M. Guglielminetti e L. Nay, Torino, Einaudi 1990, p. 232.
[16] Id., Stato di grazia, in Feria d’agosto cit., p. 156.
[17] Id., L’adolescenza, ivi, p. 161. Di queste pagine pavesiane si ricorda senza dubbio anche Milo De Angelis, come basta a testimoniare il titolo che il poeta trasse da un suo verso per la sua prima antologia: Dove eravamo già stati. Poesie 1970-1999, Donzelli, Roma 2001.
[18] C. Pavese, Del mito cit., p. 149.
[19] Il testo ora è leggibile esclusivamente in M. Guzzini (a cura di), Residenza cit., pp. 162-3.
[20] «L’unica maniera di poter vivere in una città grande […] », scrive Leopardi al fratello Carlo il 6 dicembre 1822, «è quella di farsi una piccola sfera di rapporti, rimanendo in piena indifferenza verso tutto il resto della società. Vale a dire fabbricarsi dintorno come una piccola città, dentro la grande […]. Per far questo, non è bisogno uscire dalle città piccole. Questo è veramente un ricadere nel piccolo per forza di natura» (G. Leopardi, Epistolario, I, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri 1998, p. 579).
[21] La formula di Massimo Raffaeli secondo cui «Con Il viale d’inverno la poesia di Scarabicchi […] conosce la dimensione epocale del tempo» (M. Raffaeli, Un percorso, in VI, p. 147), potrebbe essere perciò allargata a comprendere anche la dimensione dello spazio, almeno quello topograficamente rilevato.
[22] F. Pessoa, Una sola moltitudine, I, a cura di A. Tabucchi con la collaborazione di M. José de Lancastre, Milano, Adelphi 19978, p. 160.
[23] Inteso, con Mauron, come «una situazione drammatica interna, personale, incessantemente modificata per reazione agli avvenimenti interni o esterni, ma persistente e riconoscibile» (Id., Dalle metafore ossessive cit., p. 255).
[24] G. Bachelard, La poetica cit., p. 74 e p. 33. Sarebbe interessante indagare la relazione di isosimbolismo che mi pare istituirsi tra l’inverno, stagione centrale per l’imagery di Scarabicchi e per la storia della sua poesia (basti pensare a due titoli come Il prato bianco e L’esperienza della neve), e gli interni della casa, tenendo magari sullo sfondo le considerazioni di Baudelaire sulla solitaria villetta immersa nella neve, «in fondo a una piccola valle chiusa da montagne abbastanza alte», in cui l’ammirato Thomas De Quincey passa l’inverno, la sua «stagione della felicità» (I paradisi artificiali): «Una graziosa abitazione non rende più poetico l’inverno e l’inverno non aumenta la poesia dell’abitazione? […] Ha bisogno di un inverno canadese, di un inverno russo; lo pretende per quel che costa. Il suo nido sarà più caldo, più dolce, più amato» (Ch. Baudelaire, I paradisi artificiali [1860], in Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, introduzione di G. Macchia, Milano, I Meridiani, Mondadori 1996, p. 634). Sul tema cfr. ancora G Bachelard, La poetica cit., pp. 65 ss.
[25] La camera di un «buio albergo» appariva anche in VI 109; nella stessa raccolta (VI 101) si incontrava il nome di un hotel di Bolzano che diventava, una volta di più, postazione notturna di osservazione del mondo: «Fra l’Anderlan e la notte / sa un’altra lingua e tace / quando si accosta ai vetri / a guardia di ore chiuse»; cfr. inoltre, in PB 32: «Dai vetri di un albergo, / verso sera, / torna soltanto adesso / – superstite d’allora – / l’ombra degli oleandri».
[26] G. Bachelard, La poetica cit., p. 93.
[27] Ivi, p. 61.
[28] cfr. G. Bachelard, La fiamma di una candela (1961), Milano, SE 2005.
[29] Cfr. anche la poesia Una lampada in PB (26): «Nelle giornate limpide / non vedi / i vetri delle case / dietro ai quali / brilla ancora / una lampada» .
[30] Si tratta della nota finale al testo, la stessa da cui abbiamo tratto, più sopra, le considerazioni su Ortona e i paesi della costa adriatica.
E’ molto bello e intenso lo studio su Francesco. Rende onore, a mio avviso, al suo “retrobottega” spirituale.