di Agostino Cera

 

Premessa

 

Tra i molti commenti dedicati al progetto, ad opera di sedicenti élites calcistiche, di istituire una Super League, uno, firmato da Massimiliano Gallo (https://www.ilnapolista.it/2021/04/loperazione-superlega-rischia-di-somigliare-al-golpe-in-russia-nel-91-che-fini-in-farsa/), suggeriva una analogia con il fallito golpe/colpo di coda della nomenclatura sovietica nel disperato tentativo di arginare il riformismo di Gorbaciov. Una analogia proposta allo scopo di svilire una operazione tacciabile, a essere generosi, di velleitarismo e inopportunità. Credo si tratti di una analogia fondata e pertinente, sebbene non del tutto secondo la lettura che ne fa Gallo. È vero, quel tentativo incarna la migliore dimostrazione, proprio perché involontaria, del collasso irreversibile dell’URSS, che nel 1991 era giunta al punto di essere tanto irriformabile quanto ir-restaurabile (mi si conceda il neologismo). D’altra parte, misurato su un più lungo periodo (storicamente), quell’evento sospeso fra tragico e farsesco segna anche l’ascesa di Boris Eltsin – il quale, grazie a un non comune fiuto politico-mediatico, era riuscito ad accreditarsi come salvatore della patria – e con ciò, soprattutto, pone le premesse per la neo-Russia neo-zarista di Vladimir Putin. La crescente inadeguatezza dimostrata dal presidente Eltsin al cospetto del ruolo affidatogli dalla storia, darà la stura alla privatizzazione del rinato stato russo per mano dei cosiddetti “oligarchi”, per arginare i quali verrà tirato fuori dal cilindro un coniglio griffato KGB. Se possibile, un rimedio peggiore del male (per conferma chiedere, finché è possibile, ad Aleksej Naval’nyj). Tutto questo per dire che le ripercussioni del tentato golpe calcistico – una singolarissima rivoluzione dall’alto – andranno misurate nel tempo e al di là del suo immediato successo. Che, infatti, non c’è stato. Dopo appena un paio di giorni e dopo qualche moto di protesta dal basso, sono fioccati i “ravvedimenti” e la conseguente retromarcia.

 

Al netto di ciò, questa premessa vale almeno come pretesto per consigliare ai lettori la visione della lunga intervista di Werner Herzog a un Gorbaciov quasi novantenne, e invero alquanto provato (Herzog incontra Gorbaciov, 2018), ma soprattutto la lettura di Limonov (2011) di Emanuel Carrère[1]: una mirabile full immersion, senza rete e senza paracadute, nelle contraddizioni della Russia contemporanea viste dalla prospettiva di una figura (quella dello scrittore Ėduard Limonov) che quelle contraddizioni le ha incarnate e fagocitate. Letteralmente. Tutte.

 

1.

 

Chiusa la premessa, vengo al primo punto di queste pagine. Da quando, due giorni fa, ho appreso la notizia della nascita della Super League, il parallelo che mi è venuto in mente (nel tentativo di immaginare il modello e/o il possibile esito di una tale iniziativa) non è stato tanto con la NBA, quindi con il basket, quanto con il pugilato professionistico. Ho pensato a ciò che è stato perpetrato a danno della “nobile arte” da una quarantina d’anni a questa parte, vale a dire allorché è stato deciso una volta per tutte che il pugilato fosse (dovesse essere) uno “spettacolo”. Per meglio dire: una forma di entertainment. E tale l’hanno fatto diventare, a forza, nella forma di un circo/cabaret. Finché sono riuscito ad interessarmene, le sigle (le federazioni) erano proliferate a 5, mentre adesso apprendo da internet che attualmente le “principali federazioni a livello mondiale” sono 7: WBC, WBA, IBF, WBO, WBU, IBO, IBA. Del pari sono proliferate le categorie di peso. Che dovrebbero ammontare a 17. Facendo un rapido calcolo, l’attuale numero di campioni del mondo nella boxe – sport individuale par excellence – dovrebbe aggirarsi intorno a 120.

 

Un tale cambio di paradigma possiede una data di nascita precisa: il 30 ottobre 1974, giorno in cui a Kinshasa, capitale dell’allora Zaire (oggi Congo), sotto il benevolo patrocinio del dittatore Mobutu Sese Seko andava in scena – è proprio il caso di dirlo – The Rumble in the Jungle: l’incontro, lo scontro epocale tra Muhammad Ali e George Foreman, scandito dal famoso mantra “Ali bomaye!”. Questo spartiacque nella storia dell’intrattenimento sportivo fu il primo main event organizzato da Don King, destinato a diventare il manager per antonomasia. Il lettore mi perdonerà se indugio anche qui in un piccolo consiglio: la visione del magnifico documentario di Leon Gast When We Were Kings (1996).

 

Cosa sia successo da allora, è faccenda nota. Nel pugilato i soldi sono girati eccome, ma la credibilità di questo sport e l’interesse degli appassionati sono di pari grado decresciuti (e non felicemente). Qualche settimana fa in molti hanno pianto la scomparsa prematura di Marvin Hagler, “The Marvelous”, celebrandone le doti di sportivo, di fighter nel senso più pieno e più nobile del termine. A emblema di una carriera leggendaria, molti hanno evocato il suo match con Thomas Hearns, tenutosi il 15 aprile 1985 e non a caso soprannominato “The War”. Sebbene sia durato soltanto tre rounds, quell’incontro resta una rappresentazione di rara, spietata fedeltà di tutto quello che può essere il pugilato, il quale nella sua massima espressione in quanto sport è in grado di raggiungere le vette del dramma. Di ergersi a plausibile metafora della stessa condizione umana.

 

Il pugile più iconico degli ultimi anni è senza dubbio Floyd Mayweather Jr., soprannominato Pretty Boy Money. Premesso che Mayweather è un grande atleta (si è ritirato da pluricampione del mondo in diverse categorie e da imbattuto dopo 55 incontri), di lui si ricorda soprattutto il piglio per gli affari – da cui il soprannome – e un incontenibile gusto per la crassa ostentazione della propria enorme ricchezza. L’incontro mediaticamente più noto della sua carriera è stato quello “ufficioso” contro il campione di MMA Conor McGregor, celebrato il 26 agosto 2017 (due anni dopo il ritiro ufficiale di Mayweather) e ribattezzato The Money Fight vista la borsa esorbitante, circa 400 milioni di dollari, che i due avversari si sono divisi. Le icone di due sport per certi aspetti simili, e tuttavia diversi, che si affrontano affinché il pubblico possa finalmente scoprire “chi è il più forte”. Un po’ come Superman contro Batman (o Goldrake contro Mazinga, se preferite). Puro spettacolo, puro intrattenimento. La Super League come una Justice League. La realtà ricostruita secondo il modello della finzione. Chissà, tra non molto potremmo goderci uno scontro (rigorosamente on demand e in pay per view) tra Lionel Messi e Lebron James, tra Roger Federer e Michael Phelps o tra Tom Brady e Usain Bolt (personalmente, preferirei David Rudisha). Perché se c’è domanda (se c’è mercato), se il pubblico (pagante) lo vuole, il modo si trova sempre. Si deve trovare.

 

Fuor di metafora pugilistica, intendo sostenere quanto segue. Oggi la sedicente aristocrazia del calcio – autoproclamatasi tale, per di più sulla base di un blasone che è di mero censo, cioè di fatturato – dà vita alla propria lega. Istituisce un privé esclusivo nel quale, finalmente, non sarà più consentito l’accesso alla molesta plebe calcistica. A quest’ultima verrà invece concesso lo status ufficiale di questuante, le spetteranno di diritto gli avanzi di quei banchetti luculliani, tutt’al più con la speranza, un giorno – a patto che si “comporti bene” – di poter essere magnanimamente invitata a occupare, una volta tanto, uno scranno di quel tavolo dei sogni (detto per inciso, qualcuno degli aspiranti questuanti si era già acconciato volentieri al nuovo ruolo). Sull’esempio di quanto è accaduto nella boxe, domani qualcun’altro potrebbe farsi la sua lega personale, anche solo per il gusto di potersi decretare “campione d’Europa” o “del mondo”. Ovviamente, della sua propria Europa. del suo proprio mondo. Poi, dopodomani, qualcun’altro potrebbe fare lo stesso e così via. Andrea Agnelli potrebbe stare al calcio (alla storia del calcio) come Don King sta alla boxe (alla storia della boxe). Entrambi affossatori dei rispettivi sport.

 

L’evoluzione, l’involuzione, della boxe qualcosa dovrebbe dirci. Dal simbolo Hagler (the fighter) al simbolo Mayweather (the money maker); dall’incontro Hagler-Hearns all’incontro Mayweather-McGregor si può misurare tutta la distanza che c’è tra sport e spettacolo. A noi la scelta, a noi il divertimento.

 

2.

 

Vengo ora al secondo punto. Nel suo editoriale ospitato qualche giorno fa sull’edizione di Bergamo del Corriere della Sera (https://bergamo.corriere.it/notizie/sport/21_aprile_20/superlega-anti-atalanta-fine-meritocrazia-f1b1da0a-a1a7-11eb-b3ed-ee5b64f415b7.shtml), Gigi Riva[2] sostiene che il progetto di Super League esprimerebbe la volontà di crearsi un “universo chiuso da cui sono esclusi gli imprevisti, quisquilie come il merito, la capacità imprenditoriale e manageriale, le emozioni di una vittoria e pure di una sconfitta. Investimenti salvaguardati a priori, serenità. E noia. Come quando si apparteneva alla nobiltà, prima della Rivoluzione francese”.

 

Su questo genere di pulsione, la sindrome del “portarsi via il pallone” quando si è perso o si sta per perdere – ennesimo sintomo dello spirito del (nostro) tempo[3] – mi è capitato di riflettere in un altro contesto[4]. A mio avviso, questa pulsione rappresenta la spia di un fenomeno singolare e inedito che ho definito idio-verso. Per spiegare questa etichetta, ricordo brevemente che in greco “idiotes” (da cui deriva anche il nostro “idiota”) è l’uomo privato, l’esempio in negativo di ciò che in positivo è il “polites”, l’uomo pubblico. Il quale non è affatto “l’uomo di mondo”, bensì “l’uomo nel mondo”: colui che vive essenzialmente in quanto membro di una società, in quanto cittadino di una polis (di una comunità politica, appunto). Al contrario, lo idiotes è colui che rifugge da questa dimensione comune e condivisa, chi cerca di vivere da sé (o, al massimo, “tra i suoi”), esprimendo una tensione che agli occhi dei greci rappresentava un difetto, un vizio (kakia), probabilmente il più grave di cui si potesse macchiare un essere umano. Proprio in quanto mancante della politiké areté, l’idiotes era considerato un essere umano dimidiato, amputato o perlomeno incompleto.

 

Ciò premesso, con idio-verso intendo riferirmi al pericolo rappresentato dalla perdita completa di un orizzonte universale, dal venir meno di una serie di coordinate minime riconosciute e riconoscibili da tutti, sebbene non da tutti nello stesso modo. La possibilità di un idio-verso dimostra plasticamente che accanto al rischio che l’uni-versalità degeneri in mono-versalità (qualcosa di universale in senso deteriore, ossia: univoco, insofferente a ogni forma di alterità e differenza. In una parola: totalitario), esiste il rischio speculare che il pluri- o multi-verso (la possibilità di legittimare più orizzonti e più coordinate di riferimento, non uno solo) degeneri nell’idiotismo di una narrazione e visione del mondo che ciascuno costruisce esclusivamente a proprio gusto e piacimento. Il rischio di questa deriva è l’instaurarsi di una ontologia asociale, l’emergere di una Babele nella quale ognuno parlerà soltanto la sua lingua (il suo dialetto o persino idioletto), quella che gli è più gradita, in un contesto generale entro il quale nessuno sarà più disposto a sforzarsi di costruire una preliminare lingua (terreno) comune da condividere anche con chi non parli il suo dialetto o pratichi la sua fede. Si assisterebbe così a una insulazione di massa, nel senso che ognuno sceglierebbe di vivere insieme ai “suoi” all’interno della bolla che gli è più comoda, fino a giungere alla incomunicabilità con le altre bolle. Inutile dire che l’incomunicabilità, ovvero la mancanza di reciproco riconoscimento, rappresenta l’anticamera del conflitto. In un simile contesto qualsiasi altro è un alieno e, in quanto tale, un nemico. In quanto alienus, l’altro diventa ipso facto inimicus. La sua semplice alterità/estraneità rappresenta una garanzia sufficiente della sua inimicizia, ossia del mio legittimo diritto a sentirlo nemico.

 

Al fondo di questo atteggiamento mi sembra rinvenibile una sorta di infantilismo: una sindrome di Peter Pan che indirizza il nostro rapporto con il reale in ossequio al solo principio di piacere, escludendo il più possibile lo scomodo principio di realtà: quello che, per sua natura, impatta traumaticamente sui nostri desiderata ponendo loro un freno e un limite. Qui vale la regola aurea del “Così è (se mi pare)”, vale a dire: “se voglio (desidero, preferisco, ho bisogno…) che sia così, allora è così”. Laddove una tale condotta diventasse prassi comune, il risultato finale sarebbe il superamento dell’essere umano in quanto polites, la sua potenziale estinzione in quanto “zoon politikon”, la sua definitiva trasformazione in un idiotes ovvero in quello che Günther Anders definirebbe un “eremita di massa”[5]. Conseguenza ulteriore di questa metamorfosi antropologica, di questo monadismo generalizzato, sarebbe il venir meno della possibilità stessa di una societas e di una polis.

 

L’evoluzione naturale del self made man sembra condurre all’edificazione di un “by myself made world”. Di un idio-verso, nel senso del “mio mondo personale”. Del “mio cosmo-privé”. La Super League è stato il tentativo di istituire un idio-verso calcistico, sulla base dell’assunto, razionalissimo, secondo il quale “il gioco più bello del mondo” non può non essere anche il business (almeno tra i giochi) più remunerativo.

 

Postilla

 

In preda allo sconforto da Super League, un paio di sere fa ho deciso di rivedere Momenti di gloria (Chariots of Fire, Hugh Hudson 1980). L’ho fatto perché avevo bisogno di farmi raccontare, per l’ennesima volta, la storia di Eric Liddell (1902-1945): “The Flying Scotsman”, campione di rugby e olimpionico a Parigi 1924 sui 400 metri piani. Liddell era figlio di un pastore missionario in Cina (dove era nato lui stesso) e dove, dopo le olimpiadi, sarebbe tornato a portare avanti la missione paterna. È morto nel 1945, a 43 anni, da quasi martire (e “pianto da tutta la Scozia”, come recitano i titoli di coda del film), dopo una lunga prigionia sotto i giapponesi. Liddell non gareggiava mai di domenica, perché la domenica è “il giorno del Signore”. Tanto saldo in questo principio da rinunciare ai 100 metri delle olimpiadi parigine (quella, non i 400 metri, era la sua vera gara), allorché venne a sapere che era stata programmata di domenica.

 

Com’è noto, il motore drammaturgico della pellicola di Hudson è il confronto tra Liddell e Harold Abrahams, suo rivale nei 100 metri (campione olimpico a Parigi sulla distanza) e suo alter ego. L’uomo religioso e quello secolarizzato, il proletario e il benestante (Abrahams studia da avvocato a Oxford ed è figlio di un facoltoso finanziere), l’uomo di principi e quello delle incertezze (“non ha ancora mai conosciuto la soddisfazione”; “sono in continuo inseguimento e non so neanche quello che inseguo”, dice di sé Abrahams), per di più desideroso di liberarsi della zavorra della propria origine ebraica ed essere finalmente “accettato”. Cioè, assimilato. Inglese tra gli inglesi. Una delle scene più giustamente celebri del film è quella che racconta la vittoria olimpica di Liddell, la cui voce fuori campo – intervallata dalle note, divenute celeberrime, di Vangelis – si chiede (ci chiede): “da dove viene la forza per arrivare alla fine della corsa?”. Nel suo caso la risposta risulta semplice, per quanto è evidente. Alla sorella preoccupata che le luci della ribalta potessero sedurlo alla vanità mondana e distoglierlo dalla sua “vera missione”, Eric risponde: “io credo che Dio mi abbia fatto per uno scopo, però mi ha fatto anche… veloce! E quando corro, io lo sento compiaciuto”.

 

Un’idea letteralmente sacra dello sport e della competizione sportiva, ma soprattutto un’idea – un ethos – del talento come grazia e della grazia (in quanto dono) come responsabilità. Talvolta persino come peso. Mai come privilegio. Pensando agli eroi sportivi dei nostri giorni, quelli dei 50-100 milioni di euro l’anno, gli human toys[6] brandizzati (esseri umani felicemente trasfigurati in forma di merce), c’è di che disperarsi.

 

Bertolt Brecht faceva pronunciare al Galileo della sua celebre pièce, al cospetto dell’Inquisizione, una altrettanto famosa sentenza: “sventurata la terra che ha bisogno di eroi”[7]. Ahimè, la nostra esperienza ci insegna non solo che, almeno finora, tutte le terre ne hanno avuto un qualche bisogno, ma anche che, probabilmente, ogni terra (ogni tempo) ha gli eroi che si merita.

 

Nota

 

[1] E. Carrère, Limonov, tr. it. F. Bergamasco, Adelphi, Milano 2014.

[2] Non si tratta del “rombo di tuono”, ma dello scrittore e giornalista autore, tra l’altro, del bel L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra (Sellerio, Palermo 2016).

[3] Sintomo che, a mio parere, trova una paradigmatica epifania nell’assalto a Capitol Hill da parte dei sostenitori di Donald Trump, avvenuto lo scorso 6 gennaio.

[4] Sia consentito il rinvio a: A. Cera, Disavventure della critica. Il caso del Political Anthropocene, in: «Il pensiero», LX, 1, 2021 (in corso di pubblicazione).

[5] G. Anders, L’uomo è antiquato 1. Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, tr. it. L. Dallapiccola, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 108.

[6] Ho approfondito questo tema in: A. Cera, Human Toys. Antropologia (apologia) del calciatore (https://www.ilnapolista.it/2020/10/piu-che-privilegiati-i-calciatori-sono-gli-animali-da-circo-del-nostro-tempo/).

[7] B. Brecht, Vita di Galileo, in: Id., Teatro vol. II, tr. it. E. Castellani, Einaudi, Torino 1963, pp. 667-791 (citazione p. 779).

2 thoughts on “When we were (Don) King(s). Requiem per uno sport

  1. Vabbè, chiedere conferma a quel nazistello di Navalny (sbiancato in fretta e furia dal pentagono a colpi di video rimossi dalla rete) sulla penna di sedicenti liberal davvero non si può leggere.

  2. Amico Filou, alla Politkovskaja, ahimè, non si può chiedere più. Dovrà contentarsi di Naval’nyj. Da “non sedicente liberal”, faccia pazienza. Gliene saremo tutti grati.

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