di Andrea Cortellessa

[Una versione più breve di questo articolo, col titolo Fenomenologia della canotta, è uscito su «il manifesto» del 16 marzo].

È (ri)cominciato tutto con Craxi. È la fine di giugno del 1991 e a Bari fa decisamente caldo, quando va in scena il quarantaseiesimo congresso del PSI. L’architetto di regime, Filippo Panseca, stavolta ha voluto strafare: allestendo addirittura (dopo la piramide di due anni prima) degli archi di trionfo, alle spalle del podio dal quale prende le parole il Leader. Non ha pensato a una cosa, però: alla climatizzazione. E così il discorso di Craxi passa alla storia non per le citazioni da Turati, per le solite pause interminabili o le non meno consuete minacce oblique: ma per la canottiera che traspare, oscena, dalla camicia bianca trasparente e impregnata di sudore (un pezzo memorabile lo scrive allora, quantum mutatus ab illo, Giampaolo Pansa). Quello stesso segno del corpo, quell’attributo indumentario così intimo – che in un Craxi cupo, stravolto, vicino al precipizio era apparso a tradimento, come una verità nascosta, eloquente quanto inconfessabile – di lì a poco diventa un brand. Chi lo esibisce fieramente è l’astro nascente della post-politica italiana – Umberto Bossi da Soiano, frazione di Cassano Magnago, provincia di Varese – in un momento decisivo della sua parabola spregiudicatamente manovriera: nell’estate del 1994, all’indomani del “ribaltone” col quale pone fine al primo governo Berlusconi, in vacanza in Sardegna si fa fotografare e videoriprendere appunto in canotta e calzoncini da basket sbrindellati.

Come spiega Marco Belpoliti nella Canottiera di Bossi, appena uscita terza parte di una trilogia sulle politiche del corpo nella società dello spettacolo (iniziata con Il corpo del Capo nel 2009 e proseguita l’anno seguente con Senza vergogna – che di nuovo sul corpo-segno di Berlusconi si apriva e si chiudeva), la scelta del look si mostra evidente, in questo caso, nel suo valore performativo, cioè di «atto linguistico»: che, nel regno dell’immagine, al posto delle parole (o insieme alle parole, piuttosto) si vale delle posture, dei comportamenti, dei gesti. Quello famigerato del dito medio, sempre più spesso sollevato da Bossi all’indirizzo di avversari politici e giornalisti (gesto riprodotto in forma di silhouette da Guido Scarabottolo in copertina), è in questo senso esemplare – e tutt’altro che ingenuo. È un segno antico (con l’attitudine interdisciplinare a lui consueta, Belpoliti convoca nel suo discorso quelli degli antropologi, degli storici dell’antichità, persino degli etologi: da Desmond Morris a Lynda Dematteo, da Irenäus Eibl-Eibesfeldt a Claudio Franzoni, da Patrick McCarthy a Filippo Ceccarelli), che ha il fine di insieme allusivamente sessualizzare la retorica politica (come diventa esplicito nel famoso episodio del ’93: coi berci e il gesto dell’ombrello rivolti dal palco di Curno all’indirizzo della «bonassa» – mah! – Margherita Boniver) e bruscamente abbassarne il livello culturale e linguistico. Ma esattamente lo stesso messaggio trasmette la canotta, che rinvia all’universo del lavoro manuale (è lo stigma di «contadini, operai, muratori, minatori») nonché, in quello che è già un traslato simbolico, al carisma sexy di una star come il Marlon Brando di Un tram che si chiama desiderio e di Fronte del porto.

Col presentarsi come “uno del popolo”, sin dall’inizio della sua traiettoria politica (quando preferiva esprimere il proprio codice della trasandatezza con un trench da tenente Sheridan o piuttosto da tenente Colombo) Bossi studiatamente si colloca nel punto più basso, e dunque vincente, di un lungo processo i cui prodromi vennero segnalati già nel 1961, da Umberto Eco, nella celebre Fenomenologia di Mike Bongiorno: il predominio della televisione, fra i mezzi di comunicazione, porta con sé un «livellamento alla media» che «corrisponde al livellamento a zero». Ed è proprio su questo piano, questo ground zero, che si sono incontrati  lo spettacolo – nella traiettoria che va dalle star hollywoodiane ai ragazzotti dei reality show – e la politica – in quella che va da Kennedy a Bush jr. L’uomo a cui si guarda, sintetizzava Eco, non è più il superman ma un everyman: «l’uomo assolutamente medio».

Il passaggio si fa molto evidente se si studia, in generale, la lingua della politica. Nel suo monumentale lavoro antologico sui Discorsi politici italiani da Cavour a Berlusconi, Parole al potere, Gabriele Pedullà – libro a sua volta tenuto assai presente da Belpoliti – ha mostrato con grande efficacia il «tramonto del classicismo» prodottosi durante il centocinquantennio dell’Italia unita in quello che ne era uno dei campi più privilegiati e prestigiosi: appunto la retorica politica. Se ai politici di secondo Ottocento e primo Novecento era ancora richiesta una preparazione retorico-letteraria di prima scelta (e faceva specie lo stile di Cavour, praticistico e privo di bellurie), e alto-retoriche erano le performance “politiche” degli scrittori del tempo, da De Sanctis e Carducci a Pascoli e d’Annunzio, nel corso del secondo Novecento si assiste a un sempre più marcato abbassamento stilistico. Che non coincide necessariamente, però, con un’adesione al livello comunicativo “popolare”: il predominio della tecno-lingua giuridico-amministrativa più astratta, che verrà presto chiamato «politichese» (e che vede in Aldo Moro il suo protagonista indiscusso, memorabilmente analizzato da Pasolini), è un curioso ircocervo di abbassamento e allontanamento che sarà solo il giro di vite della «seconda Repubblica» – con Berlusconi e appunto Bossi, che Pedullà non tratta – a schiacciare definitivamente la post-politica sulla mimesi anche linguistica dell’indifferenziato pubblico televisivo, sull’abbraccio mistico con le consuetudini più becere e (in precedenza) inconfessabili appunto della «massa». La diversa sessualizzazione che i due mattatori impongono al discorso pubblico ne è una riprova evidente. Ma che sempre il discorso politico abbia avuto fra le sue componenti anche quella performativa di un segno del corpo, lo mostra anche Pedullà quando annota che le interminabili performance congressuali dei notabili democristiani (nel ’62 proprio Moro, nel discorso che “apriva” al centrosinistra, parlò per cinque ore e mezza leggendo novantanove pagine dattiloscritte) si configuravano come «prove di forza», o meglio di resistenza: «Chi ha il potere parla perché può imporre agli altri di ascoltarlo (anche se non dice nulla), e più prolunga il proprio intervento, più manifesta a tutti i presenti la propria supremazia con nesso preciso tra parola, potere e sopravvivenza che sembra ripetere, in un contesto democratico, i meccanismi studiati da Elias Canetti per le tirannie».

Il percorso di Pedullà si conclude con la celeberrima Discesa in campo di Berlusconi, 16 gennaio 1994. E commenta (nell’ultima pagina della sua formidabile introduzione – vero libro nel libro): «l’ideale continuazione di questa antologia, dopo il 1994, potrebbe essere fatta soltanto con un dvd». Nella spettacolarizzazione totale, infatti, sono appunto i gesti, le posture, i look ad avere un’importanza almeno pari alle parole. Sono, come del resto i discorsi in precedenza, degli atti linguistici in piena regola. E in questo, oltre a Bossi, si distinguono pure i gauleiter leghisti. Il cappio agitato a Montecitorio il 16 marzo 1993 dal deputato Luca Leoni Orsenigo da Cantù fa il paio con il rogo delle 375.000 «leggi inutili» messo in scena il 24 marzo 2010 dal «Ministro della semplificazione» Roberto Calderoni armato d’ascia, piccone e fiamma ossidrica (Calderoni è quello che in casa tiene un serraglio con due lupi, in passato anche una tigre: almeno fino a quando, fantozzianamente, non sbranò il cane di un ospite), o con le performance del più espressivo di loro, Mario Borghezio, che nel 2000 si fa riprendere sull’Intercity Milano-Torino mentre spruzza di disinfettante i sedili su cui hanno viaggiato delle ragazze nigeriane e nel 2010 dichiara a «Radio 24» di ammirare il «patriota Mladic» (contano ovviamente, come gesti, anche i tratti sovrasegmentali: alla domanda maliziosa se non farebbe comodo un «capo» militare come lui alla Padania, è indescrivibile appunto a parole il tono di Borghezio che risponde, orribilmente, ehhh… grasso che cola!).

Ha fatto barrire di sdegno il Giornale (nella persona di Marcello Veneziani) e purtroppo La Lettura del Corriere della Sera (in quella di Antonio Carioti), l’insistito paragone di Belpoliti fra le retoriche leghiste e «l’eterno Fascismo italiano […], nella sua versione più autentica e provinciale». (Curiosamente difendendo tanto la Lega dall’accusa di neofascismo che il Fascismo da quella di preleghismo: inammissibile «ridurre i Rocco, Gentile, Beneduce, Balbo, Grandi e Bottai ecc. a un regime di rozzi imbecilli», strilla Veneziani.) Ma è proprio questa la parte più interessante dell’analisi di Belpoliti, che – come sempre in questi casi – nel mettere in luce le costanti, fra due fenomeni tra loro distanti, non pretende certo di eliminare le ovvie (e variamente argomentate) varianti. Certe radici oscure sono evidenti, del resto, in primo luogo alle verdissime piante dei leghisti DOC. Il citato Borghezio nel 2009 fu “beccato” in fuorionda televisivo, durante un convegno dell’estrema destra francese, in questo eloquente coming out (curiosamente assai poco commentato dalla stampa italiana): «occorre insistere molto sul lato regionalista del movimento. È un buon modo per non essere considerati immediatamente fascisti nostalgici, bensì come una nuova forza regionalista, cattolica, eccetera […] ma, dietro tutto ciò, siamo sempre gli stessi» (del resto sulla Lega pesa ancora la memorabile analisi di quel finissimo politologo di Massimo D’Alema, 1995: «Tra la Lega e la sinistra c’è forte contiguità sociale. Il maggior partito operaio del Nord è la Lega, piaccia o non piaccia. È una nostra costola»).

Se è vero che i comportamenti di Bossi – come mostrato da Belpoliti – «affondano le loro radici nella cultura materiale della provincia italiana» è perché questo è davvero il brodo di coltura della destra italiana, fascista e neo- (al di qua dell’ibridazione poi realizzata da Mussolini con le gerarchie tecnocratiche del «modernismo reazionario» europeo). Si diceva che la storia della corporeizzazione della politica italiana è solo (ri)cominciata da Craxi. Perché è da Mussolini, proprio, che essa prende le mosse (come per primi hanno mostrato gli studi pionieristici di Sergio Luzzatto). In questo senso il segno esteriore della canottiera – se non è una citazione intenzionale, come gli stivali di Craxi secondo Forattini – è un indizio rivelatore, un clic stilistico: la foto del Duce appunto in canotta, a cavallo a Villa Torlonia nel ’33, splende nel libro di Belpoliti alla stregua di un come volevasi dimostrare. Fra Mussolini e Craxi (con Berlusconi suo spin-off bionico e spettrale), la breve stagione della (anzitutto retoricamente) fragile e imperfetta democrazia italiana: in cui il corpo appunto, nelle figure-simbolo di Moro o Andreotti, è al contrario tutto inibito, censurato, linguisticamente introvertito.

La scena dell’eterna provincia è stata descritta da Gianni Celati in una serie di conferenze fatte qualche tempo fa in California e ancora inedite in italiano (ma riportate da Belpoliti), facendo ricorso al cinema di Fellini come a una specie di repertorio etnografico. È l’identità maschile italiana – una specie di Bund profondamente indebolito dal senso di colpa cattolico – quella messa in scena ossessivamente da Fellini: un’eterna adolescenza, colma di pregiudizi e paure: «un rifiuto di approfondire la relazione individuale con la vita, per pigrizia, pregiudizio o convenienza». È il mondo dei Vitelloni, eterni adolescenti irresoluti a tutto e appassionati di nulla. Dove la sessualità non è in alcun modo incontro con l’Altro ma, piuttosto, sua sottomissione (il mito del coito anale come punizione) e, in definitiva, strumento di competizione «narcissica» – per dirla col Gadda di Eros e Priapo col Medesimo: cioè con gli altri maschi provinciali. (Non è un caso che – ha notato Simone Barillari nella sua fondamentale antologia commentata Il Re che ride. Tutte le barzellette raccontate da Silvio Berlusconi – il repertorio berlusconiano su Bossi lo presenti sempre come uno che ha problemi appunto col sesso.) La misoginia, la fobia per il contagio etnico, ovviamente l’omofobia (come già rilevato nel Corpo del Capo a proposito appunto di Berlusconi): sono in realtà tutte spie di un’«ambivalenza verso il “diverso”: repulsione e insieme attrazione». Una debolezza segreta, un’«angoscia profonda» è sempre quella di coloro che hanno la necessità di «dimostrare di essere veri maschi».

Ed è proprio su una nota di debolezza – l’umanità di Bossi, al di là della sua oscena ideologia – che il saggio di Belpoliti si conclude, commentando un servizio fotografico sul Duce leghista realizzato da Ferdinando Scianna nel ’91, agli albori delle sue fortune. Nell’impermeabile d’ordinanza, Bossi viene colto in una pausa del suo berciare e intimidire l’intelocutore, distratto e forse, a sua volta, vagamente intimidito: mentre sorseggia un caffè. È qui che si vede davvero come Bossi non sia altro che «un vitellone di provincia […]. Uno studente fuoricorso, un simpatico perdigiorno […]. Il ritratto dell’Italia paesana subito dopo il boom economico, da cui molti di noi provengono, amata e rifiutata al medesimo tempo». Per smontare il saggio di Belpoliti, il Corriere ha dato del provinciale a lui. Ma è proprio per il suo carattere di emiliano inurbato di recente, per il suo combinato disposto di provincialismo e cosmopolitismo, che Belpoliti ha potuto capire davvero questa chiave della nostra storia recente: «L’identità italiana è impregnata anche di questo, fa parte di noi, per quanto ce ne distanziamo, lo rinneghiamo, cerchiamo di strapparcelo di dosso».

 [Immagine: Marlon Brando in Un tram che si chiama desiderio (1951) (cb)].

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