di Michele Cecchini

 

[E’ uscito da qualche settimana per Bollati Boringhieri E questo è niente, il nuovo romanzo di Michele Cecchini. Ne presentiamo un estratto].

 

Io sono un coso di nome Giulio. Ho due braccia e due gambe, ma non funziona nulla. Sarà per questo che a casa hanno sempre evitato di chiamarmi tesoro, puccipucci, topolino e tutti quegli altri nomignoli sdolcinati che figuriamoci se fanno per me.
L’altra nonna, non questa, cioè nonna Ginevra, la mamma della mamma, quando mi vide all’ospedale nella culla la volta che ero nato disse agli altri parenti che erano lì: «È incredibile che un bambino così bello possa essere scemo». Io la trovo una cosa non tanto carina da dire, anche se non capivo ancora nulla, ma insomma non è proprio il massimo dell’accoglienza per uno appena arrivato.
A casa mi chiamano Coso oppure Coso, lì. “Lì” perché è facile sapere dove mi trovo, così nessuno ha da cercarmi o da badare a me, visto che sono lì dove sto e mi bado da solo.
Io non mi muovo di un millimetro dal mio lettino un po’ alto e con le sbarre, che rimane parcheggiato nel tinello e se non sono lì allora vuol dire che ci sono ospiti oppure è l’ora della nanna, la notte o per il pisolino dopo pranzo, quando mi dirigono in camerina, nel lettino quello vero.
Così ho la vita un po’ nomade, un andirivieni tra camera da letto, tinello, qualche volta il bagno, anche se non spesso, visto che ho il pannolone, e poco anche la cucina.
Per mangiare, viene qui la nonna a imboccarmi e a porgermi la cannuccia. Diciamo che mi considero un coso nomade molto casalingo, nonostante il dottor Marini dica che questo andazzo non è che vada tanto bene.

 

Io non mi muovo di un millimetro, e a 1-2-3 Stella! farei la mia figura, almeno quando c’è da rimanere fermi.
Stando qui a questo modo, ho capito ben tre cose. La prima è che io non guarisco. Per me non c’è da sperare nel miracolo. Con il nonno qui, se doveva succedere era già successo. All’inizio lo speravo e lo volevo con tutte le forze, che non sono molte per la verità, mentre il nonno con la sua manona mi stringeva la gambina e diceva: «Polpaccino» e io allora pensavo al miracolo e anche al polpo, che è un animale del mare, perché il mare io lo tengo in molta considerazione visto che non ci sono mai stato. Si trova troppo lontano e io non sono fatto per i viaggi, proprio come il babbo.
Tra le cose che mi andrebbe di vedere e che sarebbe molto più facile del mare c’è la luna. Vederla e basta, visto che non è visitabile. Me ne hanno parlato i miei cugini quando fanno gli ululati per divertirsi. Dicono che è una palla nel cielo tipo il sole ma fioca. Più è buio, più la vedi bene. Ai normali non interessa, perché vogliono più volentieri le cose di luce e di colore. Alla sera, quando mi portano nella mia camerina, la finestra è già chiusa e mai una volta che se la dimentichino aperta. La luce sottile che passa io spero sia della luna, ma magari è di un lampione, chi lo sa. Il mare invece non è in cielo ma in terra ma non proprio sulla terra, perché il mare è un’altra cosa rispetto alla terra ma anche qui vorrei capire meglio dando un’occhiata personale.
Quella luce sottile illumina gli oggetti che continuano ad aspettarmi nella mia camerina: il triciclo, le torri di cubi, la tastiera Bontempi. Io per ora non riesco a divertirmi con queste cose. Invece la cosa più ganza più di tutte è quando ruotano il lettino per spostarlo. Allora gira gira gira io vedo veloce tutta la stanza e i quadri alle pareti. Mi piace tanto questa sensazione, perché sembra di scorazzare da solo qua e là. Ma capita di rado. Perché sono quasi sempre fermo e vedo a pezzi. Fisso la solita parte di sala, finché qualcuno si ricorda di venirmi a girare sull’altro fianco, finalmente, come una braciolina.

 

Il nonno quando arriva davanti all’ammalato ha già capito tutto: dove si è inceppato e il modo di rimetterlo in sesto. Accetta la sfida, fa vedere il dritto che è e i parenti si fidano di lui, ora che le sue mani aggeggiano dentro al motore dell’ammalato per farlo ripartire.
Io invece quando c’è il nonno nei paraggi mi sento come le macchinine fracassate dei miei cugini, che hanno perso i pezzi e non ci giocano più, e se fossero vere starebbero già in un posto chiamato sfasciacarrozze.
Con me il nonno ha capito subito che non posso essere riparato, deve averci perso le speranze e allora mi considera un coso, che io per anni manco lo sapevo che ero un coso di nome Giulio, se non era per il dottor Adriano. Nessuno del resto mi chiama mai, anche perché che senso ha chiamarmi? Tanto io a rispondere non ci penso neanche.

 

Ora voglio dire la seconda delle tre cose che ho capito di tutta questa storia della vita: che non bisogna avere esitazioni. Più si tira dritti, meglio è e se ti fermi un attimo son dolori. Io nella vita ho avuto un attimo solo di esitazione e lo sto ancora scontando. Mi trovavo nella pancia della mamma e avevo deciso che era arrivato il momento di andarmene, in modo da fare questa cosa della nascita. Mi sono avviato spedito poi devo averci ripensato. A quel punto mi sono sentito stringere una corda al collo come un cane al guinzaglio. Dicono che si tratti di un cavo che collegava la pancia della mamma alla mia: lì dentro lo si risolve così il problema del mangiare. Mi devo essere aggrappato per un po’ al cavo, rimanendo imbambolato. Starsene lì al calduccio a sguazzare non doveva essere affatto male, e poi c’erano i suoni ovattati, l’ideale per me che non so difendermi dai rumori forti. E insomma è stato proprio questo attimo di esitazione a fregarmi. Perché subito è arrivato da chissà dove un aggeggio di ferro che mi ha agguantato la testa.

 

© 2021 Bollati Boringhieri editore, Torino

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