di Gil Eyal (Introduzione e traduzione di Davide Caselli)

 

Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi

 

Gil Eyal, sociologo della Columbia University di New York, negli ultimi 20 anni ha elaborato una “sociologia dell’expertise” basata sulla rielaborazione dei classici della sociologia (da Weber ai diversi approcci della sociologia delle professioni, da Luhmann a Bourdieu) e del patrimonio degli Studi Sociali sulla Scienza e la Tecnologia (For a Sociology of Expertise. The social origins of the Autism Epidemic, in “American Journal of Sociology”, 118(4), 2013). In questo percorso, ha applicato il suo approccio studiando in profondità il rapporto tra saperi e poteri nel campo dei servizi di intelligence mediorientali (The Disenchantment of the Orient. Expertise in the Arab Affairs and the Israeli State, Stanford University Press 2006) e nella storia delle diagnosi e delle terapie sull’autismo (The Autism Matrix, Polity Press, 2010).

 

Quella che segue è la traduzione italiana del testo del seminario che Eyal ha tenuto lo scorso 11 gennaio su invito del Laboratoire Interdisciplinaire Sciences Innovations Sociétés (LISIS) e dell’Institut Francilien Recherche, Innovation, Société (IFRIS).

In questo seminario l’autore presenta le linee essenziali del suo ultimo libro (The Crisis of Expertise, Polity Press, 2019) e le impiega per interpretare le crisi, i conflitti e i vicoli ciechi di cui esperti e sistemi di expertise stanno facendo esperienza nel corso della pan-sindemia da Coronavirus, soprattutto nel Nord globale. L’intervento di Eyal apre una serie di questioni e offre piste interessanti per dibatterle e approfondirle. In particolare colloca la crisi di cui siamo quotidiani testimoni in una più ampia prospettiva storica e pone al centro dell’attenzione il problema della temporalità, mostrando le difficoltà in cui si imbattono tutti i tentativi di riattualizzare o reinventare uno degli assi portanti della modernità occidentale, ovvero l’anticipazione del futuro, quel che l’autore chiama il “rendere il futuro presente”]. 

 

Devo iniziare questa relazione partendo da alcuni fatti bruti e scomodi. Ecco come il mondo appare in questo momento: nelle mappe del contagio le Americhe e l’Europa sono rosse, mentre i paesi dell’Asia orientale no[1]. I Paesi dell’Asia orientale stanno tenendo la pandemia sotto controllo, mentre le liberal-democrazie avanzate occidentali, Stati Uniti ed Europa, non ci stanno riuscendo. Questo è vero considerando ogni possibile dato misurabile: mi limito a quello più importante, benché non sempre il più accurato, ovvero le morti complessive confermate per Covid-19. Qua la differenza è enorme, come tra il giorno e la notte: tra i  1400 e i 2000 morti per milione di abitanti negli USA, Regno Unito, Belgio, Spagna, Italia, ecc, contro un numero tra lo 0,3 e i 73 per milione in Cina, Taiwan, Corea del Sud, Vietnam e Giappone[2].

 

Meglio precisare subito che non c’è stato un unico modo in cui questi Stati ce l’hanno fatta: ciascuno ha avuto successo in modo diverso.  Nessun altro paese ha imposto quella quarantena strettissima, assoluta che continua ad imporre la Cina, dove un singolo caso è sufficiente a far impennare test e quarantene per un intero quartiere. Alcuni Paesi, come la Corea del Sud e Singapore, hanno un sistema molto sofisticato di tracciamento digitale dei contatti, ma altri no. Il Vietnam ne ha implementato in modo molto efficace uno vecchio stile, consumando le suole e girando le strade con penna e taccuino. Il Giappone, per parte sua, non ha veramente fermato le attività economiche, ma chiude piuttosto ermeticamente i propri confini, cosa che la Corea del Sud non ha invece fatto. La Cina e la Corea del Sud hanno impennato i test, che però non hanno avuto lo stesso ruolo a Taiwan, in Vietnam o in Giappone. Non c’è una ricetta che spiega le differenze tra i Paesi dell’Asia orientale e le liberal-democrazie occidentali: i primi hanno avuto successo in modo differente uno dall’altro e probabilmente le seconde hanno fallito in modo altrettanto differenziato (le grandi diseguaglianze di salute hanno contribuito a quel che è successo negli USA, ma meno a quel che è successo in Europa). Ma hanno, in ogni caso, fallito e lo scomodo fatto è qui, dimostrato dal grande differenziale nel numero dei morti sulla popolazione.

 

Non offrirò una spiegazione per questo enorme e diffuso fenomeno. Non sono un esperto in Paesi dell’Asia orientale. La mia conoscenza su quanto vi accade è di terza mano e devo ringraziare in modo particolare tre miei studenti di dottorato – Larry Au e Zheng Fu della Columbia University e Chuncheng Liu dell’Università di San Diego – per aver generosamente condiviso con me i risultati delle loro ricerche[3].

Per di più, non sono affatto certo che ci sia una sola spiegazione: un fenomeno così grande e in crescita è senz’altro dovuto all’interazione di una molteplicità di fattori. Piuttosto, cercherò di fare il ragionamento inverso: invece che spiegare questa discrepanza, voglio usarla come qualcosa che rende plausibile e significativa l’idea che le liberal-democrazie occidentali si trovano nel mezzo di una “crisi dell’expertise” che risale almeno agli anni ’60.

 

Detto altrimenti, ci sono molti fattori che possono essere citati per spiegare questa differenza, ma credo sia facile dimostrare che sono tutti parziali. Questi fattori possono comunque essere collegati in modo sensato come aspetti e sintomi di una crisi dell’expertise, anche se non ho dubbi che questo potrebbe anche essere fatto attraverso narrazioni differenti. Menzionerò, molto brevemente, tre di questi fattori.

Primo, ci sono le esperienze passate che questi Paesi hanno avuto con le malattie infettive: la SARS in Cina e a Hong Kong, la MERS in Corea del Sud, l’influenza aviaria in Vietnam, la tubercolosi in Giappone. La risposta a queste epidemie ha fatto crescere nel corso di decenni un’estesa rete di centri locali per la diagnosi e l’isolamento. La tesi è che a causa di queste esperienze, questi Paesi erano pronti: c’erano sistemi e protocolli vigenti per identificare, tracciare e isolare.  Questo è importante. Riformulerò questo fattore come il contrasto tra una lotta per rendere il passato presente, soprattutto in Cina e a Hong Kong, e una lotta per rendere il futuro presente, che è parte integrante della crisi dell’expertise nelle liberal-democrazie occidentali. Ma chi volesse presentare queste esperienze passate con le epidemie come l’unica spiegazione, si troverebbe semplicemente a dover rispondere a ulteriori interrogativi. Primo: gli stati occidentali si sono presi la loro dose di spavento nel 2009 con la H1N1, e hanno disegnato piani di “preparedness[4]” fin da allora. Perché questa esperienza non è bastata per rendere anche loro pronti? Il sistema vietnamita di tracciamento dei contatti è stato costruito con il supporto e la consulenza di esperti di salute pubblica statunitensi, il che ci ricorda che prima della pandemia il CDC (Center for Disease Control and Prevention, l’ente americano di riferimento a livello globale per controllo e prevenzione delle malattie) era considerato la principale fonte di conoscenza ed expertise nel campo. Ancor di più: almeno inizialmente, a Wuhan nel gennaio 2020, l’esperienza cinese precedente ha giocato chiaramente un ruolo negativo perché i dirigenti locali non volevano essere di nuovo i portatori di cattive notizie e si sono di conseguenza impegnati in un’opera di insabbiamento.  Il punto più generale è il seguente: l’esperienza precedente con malattie infettive è un fattore importante ma soltanto se viene rifratto attraverso il prisma di una lotta per rendere il passato presente. L’esperienza passata non è significativa di per sé: qualcuno deve prendere il passato e ricordarlo alla gente, evidenziarne la rilevanza, metterlo in una cornice di senso, far sì che le persone ne notino degli aspetti particolari e, facendo questo, deve sconfiggere delle resistenze e dei tentativi di inserire quello stesso passato in cornici di senso differenti.

 

Un altro fattore spesso menzionato è quello della “capacità statuale”: anche in questo caso si tratta molto chiaramente di un fattore importante. Nessuno al mondo eguaglia l’abilità dello Stato cinese nel monitorare e controllare la sua popolazione. Quanto avvenuto ha inquietanti similitudini con la descrizione delle misure di quarantena del XVII secolo che fa Foucault nel capitolo di “Sorvegliare e punire” dedicato al panoptismo – semplicemente potenziate di un milione di volte. Singapore, Corea del Sud e Taiwan hanno mostrato simili, invidiabili, livelli di capacità da parte dello Stato: anche questo giocherà un ruolo nel mio resoconto perché presterò attenzione alla “scienza regolativa”. Anche in questo caso, però, sono scettico nei confronti delle spiegazioni in termini di “capacità statuale” perché si tratta di una variabile assolutamente nebulosa: è tipicamente misurata attraverso lo stesso effetto che pretende di spiegare, riducendosi a una tautologia. Ancor più importante: se qualcuno prima della pandemia vi avesse detto che il Vietnam ha una capacità statuale maggiore rispetto – per esempio – all’Olanda, penso sareste stati comprensibilmente scettici. Ora sappiamo che è così, ma questo non fa che sottolineare che le spiegazioni in termini di capacità statuale richiedono necessariamente ulteriori domande a proposito di cosa accresce o diminuisce questa capacità, in quali circostanze, ecc.

 

Il che ci porta all’inevitabile questione della fiducia. Siamo ben consapevoli oramai che i livelli di fiducia nei vaccini in Europa e negli Stati Uniti sono in discesa: Astra-Zeneca è nella testa di tutti in Europa in questi giorni, e non per ragioni di prestigio. Ci sono editoriali in abbondanza sui bassi livelli di fiducia nelle istituzioni e nella scienza, che accusano le cupe reazioni che si sono avute al vaccino negli Stati Uniti e in Europa e le mettono in contrasto con una presunta propensione asiatica ad avere fiducia nel governo.

 

Io avevo dato poco credito al discorso sulla “fiducia”: quando il concetto ha avuto una breve fase di popolarità negli anni ‘90 con Putnam e Fukuyama io ero – comprensibilmente, credo – critico nei suoi confronti; tuttavia penso non possiamo farne a meno, e proverò a considerare nella mia trattazione anche le dinamiche della fiducia. Ma, ancora una volta, questo fattore non può essere preso come l’unico e il meno che si possa dirne è che è ancor più nebuloso della “potenza statuale”. Come ha scritto la direttrice del programma di International Affairs della New School di New York Sakiko Fukada-Parr a proposito di una recente visita a Tokyo: “nessuno con cui ho parlato, principalmente parenti e amici di diverse convinzioni politiche, aveva alcunché di positivo da dire sul modo in cui il primo ministro e il governo avevano gestito la pandemia. Come mi ha detto un amico: il governo è incompetente su tutta la linea[5].  Una survey, pubblicata su Nature Medicine nell’ottobre 2020, mostrava che la fiducia nei vaccini negli Stati Uniti era, comparativamente, non così bassa: il 75% affermava che se il vaccino fosse stato provato sicuro ed efficace, lo avrebbe assunto. Una percentuale migliore di quella registrata a Singapore, dove solo il 68% lo affermava. La fiducia nei vaccini in Francia è innegabilmente più bassa (attorno al 59%), benché non tanto quanto in Giappone, dove si aggira attorno al 35%, una delle percentuali più basse al mondo. Ci sono racconti aneddotici sul fatto che in diverse città cinesi, pazienti e medici non si fidino del vaccino cinese e non lo somministrino agli ultra-sessantenni per paura di gravi effetti collaterali. Questo per quanto riguarda la decantata asiatica fiducia nel governo. Il paper di Au, Fu e Liu racconta anche che a Hong Kong, la risposta decisiva alla pandemia è stata imposta alle autorità dalle diffuse proteste pubbliche, condotte dalla molto poco incline alla fiducia associazione professionale dei lavoratori della salute, che chiedeva al governo di chiudere i confini con la Cina. In questo caso, il ritardo e le esitazioni delle autorità hanno portato alla sfiducia conclamata perché contraddicevano l’esperienza passata.

 

E i cinesi, da parte loro, hanno fiducia nel governo? Quali cinesi e quale governo? Li Wenliang, uno tra i primi medici di Wuhan a lanciare l’allarme sulla pericolosità della nuova polmonite nel dicembre 2020, per questo accusato di minaccia all’ordine sociale e morto poche settimane dopo in seguito al contagio, sicuramente non aveva fiducia nel governo locale di Wuhan: in generale a gennaio, a Wuhan e dintorni, non c’era molta fiducia nel governo.

 

La crisi dell’expertise

 

Lasciate che passi ora a spiegare cosa intendo per “crisi dell’expertise” e come credo si sia manifestata in alcuni aspetti della reazione pandemica in Occidente. Innanzitutto, devo chiarire in che senso uso il termine “expertise”. Come vedete in questa immagine[6],  la parola “expertise” è piuttosto recente in inglese. Fu adottata dal francese nel tardo XIX secolo e originariamente poteva significare – come in francese – qualcosa che gli esperti fanno, piuttosto che qualcosa che gli esperti hanno. Iniziò a circolare più largamente solo a partire dagli anni ’60 con il significato di qualcosa che gli esperti posseggono. Nel mio libro[7] sostengo che la parola cominciò ad essere usata in contesti in cui non era più chiaro chi fossero gli esperti e su quali basi potessero essere riconosciuti come tali: per esempio in un dibattito sul fatto se – in un processo – la testimonianza di membri delle agenzie statali dovesse godere dello stesso credito dato a quella degli esperti; o nel dibattuto sull’intelligenza artificiale attorno alla questione se i computer possano o meno essere trattati come esperti; o, infine, nel dibattito se qualcosa come l’ “expertise profana”[8] posseduta dai pazienti e dai loro famigliari, esista o meno. Il punto è chiaro: questa parola – expertise – nel suo significato di proprietà anziché di azione, è utile soltanto quando vogliamo problematizzare ciò che rende qualcuno un esperto e ci chiediamo: cosa distingue un esperto da un non-esperto? E, in particolare, quando cerchiamo di decidere se accettare o meno le affermazioni di entità totalmente nuove come l’intelligenza artificiale, gli “esperti profani” o le agenzie statali. In breve, quando uso questa parola – expertise – non parlo di una proprietà ben definita come il know-how e le abilità possedute da un individuo o da un gruppo. Tratto invece l’uso della parola come un sintomo, un’espressione linguistica storicamente determinata da una situazione in cui si verificano tre condizioni: ci sono pretese multiple e contrastanti di parlare in quanto esperti, le basi di queste pretese sono diventate più eterogenee e incerte e non è chiaro come scegliere tra loro.

 

Per dirla senza giri di parole: l’expertise è indissociabile dalla sua propria crisi.  Parliamo di expertise per via dell’intensificarsi di una lotta giurisdizionale (come direbbe Andrew Abbott[9]), ed è questo il primo elemento propulsore della crisi dell’expertise che io richiamo.

La pandemia da Coronavirus ha reso questa lotta ancora più evidente: chi ha l’expertise giusta per affrontare la pandemia? Chi dovremmo ascoltare? Gli specialisti di malattie infettive, certo, è chiaro. Dovremmo ascoltare Anthony Fauci e Deborah Birx (rispettivamente responsabile della sanità pubblica statunitense e coordinatrice fino al marzo 2021 della strategia di risposta americana al Coronavirus) e il CDC. Ma sono loro stessi d’accordo tra loro? Secondo il New York Times, nella primavera del 2020 non erano d’accordo sulla riapertura delle scuole. Che dire dei virologi e degli epidemiologi? I virologi sanno molto di come funziona un virus ma molto poco di come funzionano le persone con i virus. Dobbiamo credere a Didier Raoult, che afferma che l’idrossiclorochina può curare il Covid? O dovremmo piuttosto credere agli epidemiologi i cui modelli tentano di prevedere cosa succederà se agiamo in una certa direzione? E a quali modelli dovremmo credere? Alcuni erano chiaramente sbagliati, come quelli dell’Istituto per la misurazione della salute dell’Università di Washington, che la Casa Bianca ha usato nella prima fase della pandemia. Altri epidemiologi, come John Ioannidis[10], hanno preso veementi posizioni contro quella che consideravano una reazione eccessiva basata su dati deboli. Forse non dovremmo credere ad alcun modello ma solo allo statistico dell’Università di Amherst che fonde tutti i modelli in un iper-modello, un modello di modelli. In Israele, la task force che consiglia il Primo Ministro era composta da fisici ed economisti poiché entrambi dubitavano delle capacità modellistiche degli epidemiologi. E i medici? Che dire di un radiologo, Scott Atlas, che afferma che possiamo raggiungere l’immunità di gregge? O forse dovremmo ascoltare un giovane manager della Silicon Valley, Tomas Pueyo che sta agendo da influencer in materia di coronavirus? Chi sa cosa fare? Forse i generali? In fondo la pandemia è innanzitutto una grande sfida logistica. Forse gli sviluppatori di applicazioni che affermano che il tracciamento dei contatti vecchio-stile è inefficace?

 

Possiamo rimproverare i cittadini se sono confusi? L’ambiente acustico, se vogliamo dire così, è cacofonico, con affermazioni in competizione una con l’altra che offrono non solo diverse prescrizioni sul da farsi ma anche diagnosi contrastanti del problema. Non conosco abbastanza bene i Paesi asiatici: senz’altro ci sono anche lì lotte giurisdizionali tra esperti. Ma c’è anche uno specifico gruppo di esperti che gode di maggior importanza e fiducia di tutti gli altri: sono chiamati “gli eroi della SARS” e sono persone come Zhong Nanshan e Zhang Wenghong in Cina, Joseph Sung e Yuen Knok-Yung a Hong Kong. A Taiwan, il vice-presidente è un “eroe della SARS” molto riconosciuto. Hanno accumulato credibilità e fiducia durante la prima epidemia di SARS e non solo perché l’hanno domata ma anche perché si sono esposti contro il suo insabbiamento. L’esperienza passata della SARS, dunque, è una variabile importante ma non solo dal punto di vista tecnico: l’esperienza passata con la SARS aleggia su questi Paesi come un trauma, un doppio trauma in effetti – non solo il ricordo della paura, dell’ansia e della quarantena, ma anche il ricordo di essere stati delusi dalle autorità, aver ascoltato da loro bugie sul fatto che non ci fosse nulla di cui preoccuparsi. Gli eroi della SARS prendono forma su questo cupo sfondo, rispetto a cui sono illuminati come esempi splendenti non solo di valore scientifico, ma anche di onestà, di resistenza contro le autorità locali corrotte, di dedizione senza esitazioni alla protezione della popolazione.

 

Potrei ora essere accusato di una forma mascherata di orientalismo per il fatto di elogiare apertamente i Paesi dell’Asia orientale e ridurli così a una sorta “politica dei simboli” basata sul trauma storico e sull’adorazione degli eroi. Voglio perciò essere chiaro sul fatto che, da questo punto vista, ho “politica simbolica” da distribuire in abbondanza a tutti i soggetti coinvolti, a est e a ovest, agli scienziati razionalisti e ai negazionisti del Coronavirus. Dal mio punto di vista, quando qualcuno dice “io credo nei fatti puri e semplici e alla fine i fatti prevarranno”, io credo si tratti di una cosmologia. Ha tutti gli elementi di una cosmologia: una dichiarazione di fede, una distribuzione differenziale di valore a diverse entità – “fatti” contro “falsificazioni”, l’immagine di una forza maligna che va condannata e una profezia su un salvatore che dovrà sottoporsi a una serie di prove e che ciononostante alla fine prevarrà. La lotta per rendere il futuro presente che caratterizza le liberal-democrazie occidentali è “politica dei simboli” non meno di quanto lo sia la lotta per rendere il passato presente che caratterizza i Paesi asiatici.

 

Perché c’è quesa intensa competizione tra esperti nelle liberal-democrazie occidentali? Perché mai lottano tutti per riuscire a rendere il futuro presente? Possiamo iniziare a rispondere appoggiandoci a due oracoli, che arrivano a noi dai turbolenti anni ’80 tedeschi, con le loro lotte sull’energia nucleare e l’ambientalismo: due oracoli che ci avevano cripticamente avvisato, responsi delfici che questo sarebbe avvenuto. Uno è di supremo cinismo, l’altro più appassionato, ma entrambi profetizzano il congenito fallimento dell’expertise. Niklas Luhmann afferma: “l’esperto è uno specialista a cui possiamo rivolgere domande cui è incapace di rispondere”[11]. Ulrick Beck ne “la Società del rischio” semplicemente afferma: “non ci sono esperti in materia di rischio”. Benché detto in modo diverso, l’effetto di entrambi i responsi è il medesimo. Primo, ci portano al fatto che l’expertise è sempre manchevole, mai capace di rispondere alle domande che le poniamo. E questo per due ragioni principali: innanzitutto perché la rapidità dello sviluppo economico e tecnologico conduce costantemente a ciò che Michel Callon chiama “straripamento” (over-flowing). Continuamente solleva e si auto-infligge nuovi problemi – incidenti nucleari, nuovi patogeni emergenti, inquinamento da pesticidi, cambiamento climatico – a proposito dei quali nessuno è esattamente esperto e che contengono un’ampia dose di incertezza che rimanda continuamente ad altri gruppi di esperti. Questo straripamento è il secondo motore della crisi che vi voglio proporre.

 

L’altra ragione per cui gli esperti non sono mai in grado di rispondere alle domande che sono loro rivolte è che essi hanno un mandato contraddittorio perchè noi ci rivolgiamo loro con lingua biforcuta: vengono chieste loro indicazioni di policy – quale dovrebbe essere l’obiettivo da raggiungere in materia di cambiamento climatico – e al tempo stesso viene loro richiesto di attenersi esclusivamente alla “scienza” e ai “fatti”. Viene loro richiesto di dare una valutazione del rischio, il che sempre implica – in modo implicito o esplicito – una scelta di valore tra scenari alternativi, ciascuno con una diversa distribuzione delle conseguenze tra le diverse parti in causa e, insieme, si chiede loro di rimanere neutrali. Come si legge nel recente libro “Discerning Experts”[12] dedicato alle valutazioni in materia climatica, nella pratica della valutazione fatti e valori, scienza e politiche, la dimensione tecnica e quella politica, sono necessariamente intrecciati e non ci sono standard riconosciuti sul modo in cui dovrebbero interagire.

 

E tuttavia Luhmann e Beck indicano anche il fatto che siamo diventati disperatamente dipendenti dagli esperti per rispondere a queste questioni, quelle cui loro stessi non sanno rispondere. La battuta cinica di Luhmann dovrebbe dunque essere corretta così: “l’esperto è uno specialista a cui dobbiamo rivolgere domande cui non sa rispondere”. Nelle liberal-democrazie occidentali non c’è altra maniera legittima di affrontare queste questioni che rivolgersi agli esperti: Beck avrebbe dovuto dire che non ci sono esperti di rischio perché ci sono troppi esperti di rischio e perché ci siamo assuefatti al discorso sul rischio. Questa immagine ci permette di notare come la diffusione del termine “rischio” e del termine “expetise” procedano di pari passo[13].

 

Ecco che la crisi assomiglia al pushmi-pullyu, l’animale immaginario che spinge costantemente in due direzioni opposte allo stesso tempo, inventato da Hugh Lofting nella storia del “Dottor Dolittle”: abbiamo più che mai bisogno degli esperti e tuttavia diffidiamo più che mai di loro. La crisi di legittimazione dello Stato capitalista è un terzo motore della crisi dell’expertise. Le agenzie statali si appellano alla scienza per giustificare decisioni e politiche che hanno effetti redistributivi: la politica si “scientificizza”. Ma il risultato, ironicamente, è che invece di purificare la politica, la scienza si inquina essa stessa, si contagia degli stessi problemi e sospetti che era stata chiamata a risolvere. La scientificizzazione della politica provoca la politicizzazione della scienza e i due processi si rinforzano e intrecciano uno con l’altro. La dipendenza dagli esperti e la sfiducia nei loro confronti si alimentano e si amplificano costantemente: la crescente dipendenza dagli esperti provoca allarmi a proposito della tecnocrazia e del dominio antidemocratico degli esperti. Durante la pandemia negli Stati Uniti, questo ha preso la forma di allarmi da parte del giudice della Corte Suprema Alito rispetto al “governo da parte degli esperti”. Ma il contrario è ugualmente vero: l’aumento della sfiducia e la pluralizzazione dell’expertise porta a un ancora maggiore affidamento a esperti purchessia, a una sempre maggiore richiesta di sintesi autoritative fornite da qualche tipo di esperto.

 

Un’autostrada a tre corsie

 

Ho detto che “la scienza” viene contagiata dalla crisi di legittimità, ma non è del tutto corretto. La crisi dell’expertise non riguarda la scienza: non c’è una minaccia verso la meccanica quantistica o la biologia molecolare. La crisi riguarda la “scienza regolativa”. Nel mio libro uso l’immagine dell’autostrada a tra corsie per chiarire la distinzione. A sinistra si trova la corsia a scorrimento veloce, che appartiene alla legge e alla politica: è veloce perché legge e politica hanno bisogno di arrivare a una decisione su come agire. A destra si trova la corsia a scorrimento lento, che appartiene alla scienza: è lenta perché perché non deve decidere come agire. Al contrario, la ricerca scientifica è condotta in una cornice temporale peculiare, una sorta di tempo reversibile, secondo l’espressione con cui Levi-Strauss qualifica il tempo mitico: almeno in linea di principio, uno può sempre riavvolgere il tempo e condurre nuovamente l’esperimento modificando un altro elemento. La corsia centrale, infine, dove bisogna trovare un accordo tra quella veloce e quella lenta, appartiene alla scienza regolativa: per connettere i fatti scientifici con i fatti della legge e della politica, il tempo reversibile con quello unidirezionale, i fatti regolativi prendono la forma specifica dei tetti, delle soglie e dei livelli accettabili di rischio: per esempio la raccomandazione di stare a due metri di distanza da un’altra persona è uno di questi tetti. Dico che hanno una particolare forma temporale perché questi numeri regolativi sono essenzialmente delle previsioni: sono stime del rischio che proiettano nel futuro dati del passato e, allo stesso modo, rendono presente il futuro come base per l’azione regolativa nel presente. Nel fare questo combinano risultati sperimentali con assunti sulla popolazione e su come è ragionevole pensare che le persone si comporteranno in una condizione futura. Infine, includono anche calcoli economici e analisi di tipo legale.

 

La crescita della scienza regolativa è dunque il quarto motore della crisi dell’expertise. Ogni volta che questi numeri, di cui abbiamo imparato a fidarci, che sono entrati nelle nostre cosmologie quotidiane, si rivelano sbagliati o vengono contestati – le donne con più di 50 anni devono fare la mammografia una volta l’anno; una volta ogni due anni; dovrebbero in realtà iniziare a 45 anni; potrebbero anche farne a meno perché non è sicuro che serva a qualcosa – diventiamo ancora più scettici nei confronti dell’expertise e delle sue previsioni, meno fiduciosi e più sospettosi.

 

Un quinto motore della crisi, dunque, ha a che fare con la merce più preziosa di tutta questa storia, ovvero la fiducia: ne ho accennato a proposito della fiducia nei vaccini. Ora, comunque, voglio sottolineare che i sondaggi non sono un buon metro per misurare la fiducia. Anche i numeri riportati nell’ottobre 2020 sono già superati, sono un bersaglio mobile. La fiducia non è un’attitudine soggettiva ed esplicita, misurabile attraverso un sondaggio, né è una “risorsa” che può essere accumulata come capitale sociale. La fiducia è una categoria della pratica. È – secondo Guido Mollering[14] – una “metodologia estremamente sofisticata di coscienza pratica, attraverso la quale le persone trovano il modo di convivere con il fatto che esistono dei vuoti e dei pezzi mancanti”. La temporalità è decisiva. La fiducia è come la musica: la durata, la sequenza, il tempo, la risonanza, la ripetizione, ne sono l’essenza. Una nota, una volta emessa, plasma il contesto in cui un’altra nota può apparire intonata o stonata. Può continuare una linea melodica oppure può apparire discordante perché è suonata troppo velocemente, troppo lentamente o in una posizione sbagliata. Ecco perché warp speed (“a tutta velocità”) era uno slogan molto infelice per una campagna il cui successo dipende in modo decisivo dalla costruzione di fiducia[15].

 

Per mantenere la fiducia nelle linee guida regolative in continua trasformazione, i “tetti” e le proiezioni richiedono una serie delicata di operazioni di inquadramento.  La pandemia, tuttavia minaccia queste operazioni perché accelera la velocità del cambiamento e perché, come direbbe Steve Hilgartner, fa collassare la distinzione tra il dietro le quinte e la scena[16]. Ciò che normalmente avviene dietro le quinte viene portato in primo piano e accelerato, con conseguenze disastrose in termini di fiducia. Questo è stato evidente nella disfatta relativa alle mascherine: il surgeon general (massimo responsabile della salute pubblica) ha detto agli americani che le mascherine non erano efficaci, ma molto presto è diventato chiaro che la sua principale preoccupazione era evitare che i negozi di mascherine fossero presi d’assalto e questo ha ovviamente provocato un assalto ai negozi di mascherine. Quando si è contraddetto e gli esperti di salute pubblica hanno cominciato a esortare le persone a indossare le mascherine, si è scatenata la caccia alle ragioni retrostanti le nuove linee-guida e la mascherina è diventata un simbolo di affiliazione politica. Le persone la usano per comunicare in chi o in cosa esse credono.

 

La stessa cosa è avvenuta con quel piccolo numero che ha finito per governare le nostre vite – il tasso di positività. A New York, dove vivo, non ne abbiamo uno solo, ma almeno tre – quello calcolato dallo Stato, quello calcolato dal dipartimento cittadino per la salute e la media settimanale consigliata dagli esperti accademici. Potresti trovarti in una zona calcolata “a rischio” dalla tua città, e la scuola di tuo figlio chiuderà, e sapere che, secondo il calcolo fatto dallo Stato, dovrebbe restare aperta. Senza dubbio le persone hanno provato ad aggirare il sistema incoraggiandosi l’un l’altro ad andare in massa a farsi testare per abbassare il tasso di positività: un sarcastico rovesciamento del motto “appiattiamo la curva”.

 

Questa metodologia di coscienza pratica non ha a che fare con la fiducia o la sfiducia, ma piuttosto con il fatto di riuscire o meno a riconoscere e mostrare quando e come avere fiducia in modo responsabile e anche con il fatto di condividere o meno con gli altri questi modi di riconoscere e mostrare fiducia. Questo dovrebbe allertarci sul fatto che non è utile cominciare dalla questione della sfiducia, e specialmente non dall’indignazione del “non ci posso credere” che possiamo provare di fronte alle posizioni di contrarietà ai vaccini o di negazione del cambiamento climatico. Cominciare così significa che è ovvio che le persone dovrebbero fidarsi della scienza e degli esperti e che devono essere irrazionali, disinformati o ingannati se non lo fanno. Per il sociologo, tuttavia, ciò che è più difficile da spiegare non è la sfiducia, ma piuttosto la fiducia. È davvero così sorprendente che le persone potrebbero non avere fiducia in un vaccino approvato celermente, attraverso un processo piuttosto opaco e dove è chiaro che c’è chi vince e chi perde? In particolare dopo che tutti ricordano le false rassicurazioni del massimo responsabile della salute pubblica? In queste circostanze è molto più contro-intuitivo e difficile da comprendere perché, come e a che condizioni le persone abbiano in effetti fiducia nella scienza e negli esperti. E ne hanno – ogni volta che salgono su una macchina, su un ascensore o su un aeroplano, ogni volta che prendono un farmaco approvato dalla FDA (Federal Drug Administration, l’equivalente dell’AIFA, ndr). Come – problema pratico – sono capaci di riconoscere e mostrare quando e come fidarsi responsabilmente? Quali tecniche, riti, quadri cognitivi e supporti materiali li assistono in questo processo?

 

La fiducia è necessaria, ha detto Luhmann, come un mezzo per ridurre l’incertezza. La scienza regolativa e l’expertise hanno davvero a che fare soprattutto con il convivere con l’incertezza e con il generare fiducia. Nella corsia veloce della della legge e delle politiche l’incertezza non è tollerabile: la legge ha inventato una varietà di strumenti per negare la sua rilevanza. Nella corsia lenta della scienza di base, d’altro canto, l’incertezza non è un problema: al contrario, è una risorsa e gioca un ruolo positivo e creativo nella ricerca scientifica innovativa.  Esattamente per questa ragione, il 90% di quel che succede nella corsia centrale dell’expertise e della scienza regolativa ha a che fare con il negoziare l’incertezza, con la questione di come arrivare a una buona decisione in condizione di incertezza. Prima c’è la “problematizzazione” dell’incertezza, che viene identificata come un problema da risolvere; poi c’è lo sviluppo di diverse maniere di ridurla, addomesticarla, minimizzarla, trasformarla in un rischio calcolabile. Si tratta di due strategie complementari, ma anche potenzialmente in contrasto tra loro. Da una parte, c’è l’analisi e la gestione del rischio che riducono l’incertezza trasformandola in un rischio calcolabile: l’assicurazione ne è l’esempio migliore. La chiave è avere statistiche affidabili sugli eventi passati: se puoi affermare che questi sono gli stessi eventi, puoi fare delle previsioni affidabili. Dall’altra parte, c’è la strategia opposta, ovvero decostruire il rischio fino a riportarlo allo stato di incertezza, affermando – per esempio – che il pericolo è così raro, imprevedibile e tuttavia catastrofico che è impossibile calcolarlo probabilisticamente ed è meglio adottare un approccio di tipo precauzionale. In questa prospettiva, il passato non è una guida per il futuro: l’evento con cui abbiamo a che fare non è lo stesso di una serie di eventi da cui dipende il calcolo probabilistico. E se non puoi calcolare, è meglio non intervenire affatto. C’è una continua interazione tra questi due momenti, perché non è comprensibile in modo ovvio o naturale se qualcosa è un’incertezza irriducibile o un rischio calcolabile, se qualcosa appartiene a una serie di eventi prevedibili o se è senza precedenti, se è “come un’influenza” o qualcosa di diverso.

 

Questa interazione è ancor più equivoca poiché entrambe le operazioni – l’analisi dei rischi e l’approccio precauzionale – hanno i loro lati oscuri, per così dire. Il gemello malvagio della strategia della precauzione è quella dei mercanti di dubbi, che amplificano l’incertezza per favorire i propri interessi[17]. Ma l’analisi dei rischi è ancor più problematica: quando ridefinisci l’incertezza nei termini di un rischio, inevitabilmente lasci alcune cose fuori dal calcolo, creando così ignoranza e indeterminatezza. I “livelli accettabili” dal punto di vista regolativo di esposizione a una sostanza tossica creano ignoranza – quando non sai nemmeno quel che non sai – a proposito del carico che esercita sul corpo l’esposizione a tutti gli altri, simili, prodotti chimici che si stanno ancora testando. Indeterminatezza significa che la catena causale che stai tentando di modellare è aperta e prenderà forma attraverso le azioni future di attori rilevanti che non puoi modellare o controllare.

 

Il campo delle malattie infettive emergenti

 

Lo scontro tra queste due strategie e i loro limiti caratterizzava il campo delle malattie infettive emergenti già prima della pandemia. Mi riferisco qui al lavoro di Andrew Lakoff sulla risposta globale alla prima epidemia di SARS nel 2003, alla H1N1 nel 2009 e a Ebola nel 2014. Descrive uno scontro tra due approcci e due gruppi di esperti[18].

L’approccio epidemiologico ortodosso era attuariale: analisi e gestione del rischio. Si prevedono le probabilità di eventi futuri sulla base di dati passati per poter comparare il costo di un intervento con il suo rendimento più verosimile. Questo approccio era stato originariamente formulato come una critica alle risposte amministrative che tentavano di bloccare la diffusione di un’epidemia attraverso strumenti disciplinari come la quarantena. Secondo questa critica si tratta di un obiettivo irraggiungibile, i cui costi sono troppo alti (come Trump amava dire “il rimedio è peggio del male”) e lo scopo dovrebbe, al contrario, essere la minimizzazione del danno.

 

I limiti di questo approccio sono diventati molto evidenti all’inizio della pandemia, quando sia negli Stati Uniti che in Italia, per esempio, gli esperti di salute pubblica hanno dato indicazione ai medici di testare solo persone con una relazione acclarata con la Cina: un’operazione elementare di divisione della popolazione in profili di rischio. E tuttavia questa operazione ha creato ignoranza rispetto alla diffusione del virus tra la popolazione, con conseguenze tragiche. L’approccio attuariale conduce anche all’inazione quando non ci sono “buoni dati” da cui estrapolare informazioni: è la ragione per cui molti epidemiologi di orientamento attuariale hanno protestato contro le misure di lockdown sostenendo che non fossero basate su buoni dati, dati oggettivi, e che queste misure avevano provocato un panico ingiustificato, che il loro costo era troppo alto, ecc. Questo è cominciato con le prese di posizione di John Ioannidis ed è finito con la Great Barrington Declaration[19]. Infine, un problema forse perfino più grande potrebbe essere quello dell’indeterminatezza creata dai modelli attuariali poiché i modelli sul Coronavirus devono per forza basarsi su assunti a proposito di come le persone si comporteranno. Secondo le cronache, questo è stato fonte di disaccordo tra Fauci e Birx: Fauci aveva allertato che “i modelli sono solo modelli” e che i risultati nel mondo reale dipendono da come le persone rispondono agli appelli a modificare il proprio comportamento. Ma se tu hai un modello che include alcuni assunti su un comportamento responsabile della popolazione, e poi rendi pubbliche le sue rosee previsioni, una parte della popolazione penserà “alla fine la situazione non è così male” e si comporterà in modo irresponsabile.

 

Questo approccio ortodosso ha però un giovane sfidante, ovvero l’approccio della vigilanza, che è emerso come parte della risposta all’epidemia di AIDS, per il quale bisogna decostruire il rischio fino a riportarlo allo stato di incertezza radicale. Questo viene fatto affermando che l’era della globalizzazione ha creato una situazione senza precedenti, per cui la considerazione dei dati passati è inutile. La globalizzazione ha aumentato le possibilità che un nuovo patogeno emergente faccia il salto dagli animali agli umani, riuscendo poi a trasmettersi da persona a persona. Se è vero che le probabilità che questo avvenga sono basse, il suo impatto sarebbe così catastrofico e irreversibile che le stime di probabilità e le analisi costi-benefici sono inutili. Invece, c’è bisogno di dispositivi-sentinella capaci di identificare lo scoppio di una malattia e fornire allarmi precoci. Hai bisogno di preparedness: più precisamente hai bisogno di stoccaggio, logistica e protocolli che possono essere attivati anche in condizioni di relativa incertezza[20].

 

I problemi di questo approccio sono stati evidenti fin dal 2009 con la pandemia da H1N1: la sentinella vigile ricorda la storia del ragazzo che grida in continuazione “al lupo, al lupo!”. Inevitabilmente, a un certo momento, si avrà una reazione eccessiva, e una reazione eccessiva in un dato momento è destinata a determinare una sottovalutazione in un momento successivo. Peggio ancora: la reazione eccessiva esacerba la crisi dell’expertise. Nel 2009, dopo che è diventato chiaro che  il virus non era così pericoloso come sembrava, i critici hanno accusato il governo di aver sprecato risorse pubbliche e hanno insinuato che gli esperti avevano un conflitto di interesse per i loro legami con le case farmaceutiche. Queste critiche venivano dall’interno dell’establishment, dal presidente del Comitato per la Salute della Commissione Europea, dal British Medical Journal, in breve: dall’ortodossia attuariale. L’atmosfera era così tossica che una delle più importanti virologhe italiane ha dovuto lasciare il Paese e si è trasferita all’Università della Florida[21]. È una coincidenza che dieci anni dopo, gli esperti italiani di salute pubblica siano rimasti fermi sulle loro posizioni attuarialiste finché non è stato troppo tardi?

 

L’approccio attuariale e quello della vigilanza sono bloccati in una battaglia attorno a ciò che io chiamo “futuri nel presente”, ovvero sul potere di rendere il futuro presente, di parlare in suo nome e di usarlo nelle lotte del presente. La capacità di farlo è una formidabile forma di potere sociale, e di conseguenza è costantemente contestata. È quanto intendevo prima dicendo che ci siamo assuefatti al discorso sul rischio – più precisamente alle stime del rischio, alle sue previsioni, valutazioni, simulazioni, scenari. Conduciamo le nostre lotte – le nostre differenze politiche, i nostri conflitti di valore, i nostri interessi contrastanti – sul terreno dei “futuri nel presente”. Questo è un altro, il sesto, motore della crisi dell’expertise

 

Una tensione inconciliabile

 

Paragoniamo tutto questo con i primi giorni della pandemia a Wuhan, da metà dicembre 2019 al 20 gennaio 2020. Come mostra il paper di Au, Fu e Liu, l’intensa lotta che si è svolta in quel periodo riguardava il rendere presente il passato, anziché il futuro. Rendere il passato presente, nella Cina contemporanea, è un’operazione insidiosa, molto carica di significato e per la quale si può finire nei guai. Anche la memoria è una forma di potere sociale: chiunque possa dirti cosa ricordare, quale passato sia significativo, ti dice chi sei, qual è la tua identità. Di conseguenza la lotta per chi può rendere presente il passato si ritrova nella maggior parte delle società ma, nella Cina contemporanea, le poste in gioco di questa lotta sono ancora più alte. Il governo locale ha inizialmente represso ogni tentativo di allertare la popolazione e di stabilire una somiglianza con la SARS. Ha addirittura proibito al personale sanitario di indossare le mascherine per non allarmare la popolazione: il ricordo della SARS era pericoloso, perché non era solo il ricordo di un’epidemia, ma anche il ricordo di un insabbiamento e di un fallimento da parte delle autorità. Di conseguenza, fu cancellato. D’altra parte, i pochi esperti che hanno sollevato l’allarme, hanno espresso il proprio avvertimento con la frase “La SARS è tornata!”. Wang Xinghuang, il direttore dell’ospedale Zhongnan di Wuhan, dice che ciò che lo ha convinto ad agire è stato il rapporto ricevuto il 2 gennaio, che indicava che il nuovo coronavirus era per l’80% simile alla SARS: “Ho sentito che qualcosa di terribile stava per succedere: la SARS era tornata”. “La SARS è tornata” è letteralmente un modo di rendere il passato presente e Wang Xianghuan ha provato a farlo anche redigendo una lista degli eventi dello scoppio della SARS nel 2003, in cui era stato coinvolto, e mandando questa lista agli ufficiali del governo, mettendoli in guardia sul fatto che “le somiglianze erano impressionanti”. Ha anche ricordato loro quel che era accaduto ai loro predecessori: il sindaco di Pechino e il ministro della Salute, dopo l’epidemia, persero il loro lavoro. All’inizio tuttavia il suo tentativo fallì: le autorità locali non lo avrebbero ascoltato perché dire “la SARS è tornata” era potenzialmente come dire non solo che era tornato il pericoloso virus ma anche che erano tornati l’insabbiamento e il fallimento da parte delle autorità. Dunque, un tabù sul passato era stato inizialmente un ostacolo che Wang si è trovato a dover rimuovere: ha dovuto assumersi da solo il potere di rendere il passato presente.

 

Quando i suoi sforzi per convincere le autorità fallirono, fece qualcosa di diverso. C’era una delegazione di esperti del Comitato Centrale in città: era la terza delegazione di questo tipo mandata da Pechino. Le autorità locali erano riuscite a convincere le due precedenti delegazioni che tutto fosse sotto controllo, ma ora Wang Xinghuan usò i suoi contatti personali per raggiungere alcuni membri della delegazione e si incontrò con Zhong Nanshan per cena. Il mattino successivo, i membri della delegazione affrontarono i funzionari locali e li portarono infine ad ammettere che c’era trasmissione da umano e umano e che la trasmissione si era diffusa tra il personale sanitario. Una volta che il tabù era stato rotto, il governo centrale cinese fece un’inversione di 180 gradi e accettò di muoversi nella cornice “la SARS è tornata”. Il Global Times annunciò il 20 gennaio che “la Cina ha imparato dall’esperienza della SARS ed è in grado di controllare nuove malattie”; il 23 gennaio, il governo impose rigidi controlli disciplinari, su scala mai vista prima. Le previsioni e i modelli per rendere il futuro presente hanno giocato un ruolo minimo nel giustificare queste misure: al contrario il governo, per ripulire questa cornice dalla rischiosa idea che fossero tornati anche insabbiamenti e fallimenti del governo, ha mostrato pubblicamente alcuni “eroi della SARS” come Zhong Nanshan. La credibilità degli eroi della SARS ha permesso di rendere il passato presente e di mobilitare la popolazione in un modo politicamente sicuro: le persone in Cina hanno condiviso via WeChat una foto di Zhong Nanshan, ora un vecchio uomo brizzolato, che dormiva nel treno che lo portava a Wuhan. La didascalia diceva qualcosa come “il nostro rispetto per Zhong Nanshan, che ha detto a tutti di stare lontani da Whan ma ha rischiato la propria vita per andare sul fronte”[22]. La foto servì a presentare il governo e gli esperti come membri di un’unica compagine: il ricordo della SARS viene ora invocato, ma l’immagine dell’eroe della SARS è utilizzata per rassicurare il pubblico. Ovviamente questa non è la fine della storia: in Cina i critici del regime hanno iniziato a diffidare di Zhong Nanshan perché appare troppo a favore del governo e hanno spostato il loro sostegno verso qualcuno, come Zhang Wenhong, che si mantiene distante dal governo.

 

E tuttavia, in qualche modo, le autorità cinesi sono riemerse dalla lotta per rendere il passato presente con una rinnovata fiducia nelle proprie capacità, mentre la lotta per rendere il futuro presente, negli Stati Uniti e in Europa, ha chiaramente indebolito la fiducia negli esperti di salute pubblica. Per capire come è avvenuto, dobbiamo riconoscere che la fiducia e la sfiducia non sono uno l’opposto dell’altro: una certa dose di sfiducia è contenuta in ogni relazione di fiducia perché – come sostiene Anthony Giddens nel “Le conseguenze della modernità” – la fiducia è necessaria solo quando c’è ignoranza sul funzionamento di un certo sistema o sulle intenzioni degli altri; l’ignoranza offre però terreno fertile anche allo scetticismo e al sospetto. In breve, fiducia e sfiducia vanno una con l’altra: questa ambiguità, che è al cuore delle relazioni di fiducia, può spiegare perché il governo cinese è riuscito a fabbricare fiducia a partire dalla sfiducia. La fiducia – che scarseggiava nei primi giorni a Wuhan – è stata fabbricata a partire dai materiali più improbabili quali la sfiducia, la drammatica catarsi del trauma, il tradimento, la lotta e la redenzione.

 

Voglio concludere velocemente affrontando ciò che alcuni potrebbero considerare “l’elefante nella stanza”, il grande protagonista non ancora nominato, ovvero Internet e i social media. Non sono anche loro responsabili della “morte dell’expertise”? Non è forse ciò che stiamo fronteggiando un collasso di ogni distinzione tra esperti e profani, collasso “alimentato da google, basato su wikipedia e inzuppato di blog”, come scrive Tom Nichols nel suo recente libro sulla “morte dell’expertise”[23]? La tesi è che Internet e i social media ci hanno permesso di illuderci di essere esperti, di poter guardare i dati e trarre noi stessi le conclusioni. Ecco per esempio un tweet dei primi giorni della pandemia in cui il semi-esperto twittatore riporta che “O Santa Madonna! Il nuovo coronavirus è 3.8!!! Un valore R0 terribile! Un livello pandemico negativo a livelli termonucleari!”. Lui o lei avevano probabilmente calcolato da soli l’R0, o avevano riportato qualche numero che avevano sentito, senza capire che il numero non è una qualità intrinseca del virus ma un prodotto delle condizioni sociali in cui la sua trasmissione viene misurata. Dunque ecco come Twitter, Facebook e Google permettono ai profani di parlare come esperti.

 

Per dirla in termini più sociologici, i social media sanciscono la fine del monopolio dei gatekeepers, i guardiani riconosciuti della conoscenza come i direttori dei giornali, i giornalisti scientifici, i media televisivi, le riviste scientifiche: coloro che avevano il potere di riconoscere le pretese di parlare in pubblico come esperti. In assenza di gatekeepers, il riconoscimento pubblico come esperti avviene in spazi più variegati dei media informativi tradizionali ed è controllato e garantito da attori più variegati dei soli giornalisti professionisti, quali gli influencer dei social media e perfino le celebrità del mondo dello spettacolo. Questi sviluppi danno forma a un “ambiente acustico” in cui la sfiducia può prosperare.

Questo è senz’altro giusto: Internet e i social media sono il settimo motore della crisi dell’expertise, soprattutto nella misura in cui aumentano la velocità di circolazione e rompono i confini tra il dietro le quinte e il palco. Ma vorrei proporre alcune cautele.

 

Innanzitutto, non si tratta di un fenomeno nuovo. La crisi dell’expertise precede l’ascesa di Internet: basta ricordare la forte sfiducia con cui fu accolto il rapporto delle National Accademies sulle diete sane, oppure le lotte degli anni ‘80 in tema di AIDS e di ambientalismo, oppure ancora il rifiuto nel 1994 da parte del Congresso dominato dai Repubblicani delle prove relative al cambiamento climatico e la richiesta di “solide prove scientifiche” al riguardo. In realtà è possibile che noi siamo più consapevoli della crisi ora semplicemente perché i fronti sono stati invertiti. In passato erano gli ambientalisti di sinistra e gli attivisti gay che mettevano in causa e contestavano gli esperti, mentre i conservatori avevano maggiore fiducia nella scienza. Ora i ruoli si sono invertiti e ci troviamo in questa specie di danze country-western in cui i partner, disposti su più linee, continuano a cambiare posizione: possiamo vedere Trump scettico sui vaccini mostrarsi insieme a Andrew Wakefield (l’autore del falso studio sulla correlazione tra vaccino trivalente e autismo, NdT) un giorno e diventare un grande sostenitore dei vaccini il giorno dopo. Questo particolare tipo di “ballo in formazione” è parte della crisi dell’expertise.

 

Un’altra cautela che chi addossa la colpa a Internet non osserva riguarda quello che potremmo chiamare il ruolo del versante dell’offerta (supply-side): da dove le persone attingono a tutte queste informazioni con cui sfidano gli esperti? Si potrà dire dalla Russia, certo… Ma al di là dei troll e dei bot c’è una sola altra fonte, ovvero gli scienziati stessi. Prendiamo un fenomeno relativamente nuovo che sta spopolando ora, durante la pandemia, quale la diffusione dei pre-print, cioè paper scientifici non ancora revisionati e validati dalla comunità scientifica. Secondo l’Economist, il numero di pre-print relativi al Covid, disponibili su siti facilmente accessibili come MedRxiv è pari a quello delle pubblicazioni scientificamente validate con il metodo della revisione tra pari. Questo significa che una gran parte di essi sono falsi, ma si nutrono della credibilità degli scienziati e dei loro sistemi di comunicazione scientifica.

 

Non posso addentrarmi troppo nel discorso ma questo fenomeno dei pre-print è la coda di un processo di più lungo respiro che si è sviluppato dalla crisi dell’expertise e ha a che fare con l’ascesa della professione di “comunicazione della scienza”, negli anni ‘80 proprio in risposta alle preoccupazioni legate alla crisi della fiducia nella scienza. Da lì sono stati creati nuovi curricula accademici in “comunicazione della scienza”, costruiti e sostenuti da esperti di comunicazione e di pubbliche relazioni e poi anche dagli uffici delle pubbliche relazioni delle università stesse. Dopo un approccio iniziale di stampo paternalistico, basato sul modello del “deficit”, si sono orientati verso un modello più in linea con gli interessi e le visioni del mondo degli specialisti della comunicazione:” quello del “coinvolgimento del pubblico nel rapporto con la scienza e la tecnologia” (public engagement). Da un lato, questo è un dialogo in cui il “pubblico” è preso sul serio come interlocutore alla pari, coerentemente con quanto è stato immaginato dai sociologi dell’expertise profana. Dall’altro, nelle mani di esperti delle pubbliche relazioni, questo modello si riduce spesso a uno sforzo per catturare la massima attenzione mediatica in una relazione con il pubblico orientata a creare “visibilità”. Questa mediatizzazione della scienza, come Peter Weingart la definisce[24], è un’altro (l’ottavo) motore della crisi dell’expertise.

 

Infine, va considerato il versante della domanda: sì c’è stato “un collasso del confine tra esperti e profani”, ma ciò non è dovuto all’ignoranza: se così fosse, la strada della comunicazione della scienza sarebbe sicuramente stata la soluzione. Il fenomeno dell’expertise profana – quella di ACT UP, dei genitori di bambini affetti da autismo, l’epidemiologia popolare delle organizzazioni di base – chiarisce in ogni caso che un aumento generalizzato della competenza tecnica avrebbe avuto il risultato esattamente opposto al rafforzamento di un’expertise univoca. Qualcuno può immaginare che se i non-esperti diventassero più colti e avessero più familiarità con il lavoro degli esperti, li sfiderebbero di meno e si fiderebbero di più?

 

C’è dunque un nono motore della crisi dell’expertise, ed è la crescita della cosiddetta expertise profana, che si nutre non del risentimento nei confronti degli esperti ma della resistenza nei confronti del loro potere pastorale. Foucault parla degli anni ‘60 come di una straordinaria sollevazione, simile a quella della Riforma Protestante, nel senso che vi si rintracciano multiple lotte tutte tese a sfidare “pastori” di diverso tipo – medici, psichiatri, sessuologi, criminologi, ma anche tecnocrati, pianificatori sociali e specialisti nella gestione del rischio. Proprio come il prete cattolico dispensa grazia e salvezza a ogni singolo membro del gregge, a patto che accetti la sua autorità in quanto esaminatore delle anime, allo stesso modo il potere pastorale richiede l’obbedienza volontaria per potersi prendere cura del gregge, della sua salute, del suo benessere, della sua complessiva soddisfazione, della sua sicurezza. Quel che le diverse forme di resistenza al potere pastorale avevano in comune è il rifiuto del potere che prometteva di prendersi cura di loro e la valorizzazione, al contrario, della “cura di sé”: non è stato Internet a inventare gli esperti profani o l’idea di “self-advocacy” e di parlare per sé senza deleghe. Prendiamo l’idea del prendersi cura di sé, dell’autodefinirsi, del parlare per sé, dell’essere esperti di sé e dei propri figli, così come la percezione della dimensione inquinante dell’autorità pastorale e della dipendenza che produce: tutto ciò ha di gran lunga preceduto Internet. In definitiva, ciò con cui abbiamo a che fare è un’antinomia, una tensione inconciliabile in una società moderna e democratica, con cui dobbiamo imparare a convivere.

 

Note

 

[1] https://ourworldindata.org/explorers/coronavirus-data-explorer?tab=map&zoomToSelection=true&time=latest&pickerSort=desc&pickerMetric=new_deaths_per_million&Metric=Confirmed+deaths&Interval=7-day+rolling+average&Relative+to+Population=true&Align+outbreaks=false&country=IND~USA~GBR~CAN~DEU~FRA

[2] https://ourworldindata.org/explorers/coronavirus-data-explorer?zoomToSelection=true&pickerSort=desc&pickerMetric=total_cases&hideControls=true&Metric=Confirmed+deaths&Interval=Cumulative&Relative+to+Population=true&Align+outbreaks=false&country=USA~FRA~ITA~CHN~VNM~KOR~JPN~ESP~BEL~TWN

[3]  Au, Fu a Liu stanno conducendo ricerche sul ruolo che gli esperti e la percezione degli esperti hanno giocato nella risposta pandemica in Cina, a Hong Kong e negli Stati Uniti. Farò infatti riferimento al loro ottimo paper, attualmente in revisione, in diversi punti del mio discorso.

[4] La “preparedness” (preparazione, o prontezza, secondo diverse interpretazioni e declinazioni) rappresenta una delle categorie egemoni delle politiche di fronteggiamento e nella gestione delle catastrofi a livello globale. Per un’introduzione a una prospettiva antropologica sul tema si veda un recente breve testo di Laura Centemeri: https://gliasinirivista.org/una-prospettiva-antropologica/ (NdT).

[5] https://newschoolinternationalaffairs.org/2020/11/20/a-pandemic-letter-from-tokyo-by-sakiko-fukuda-parr/</a><!–EndFragment– !–EndFragment–>

[6]https://books.google.com/ngrams/graph?content=expertise&year_start=1800&year_end=2019&corpus=26&smoothing=3

[7] Gil Eyal (2019), The crisis of expertise, Polity Press. https://politybooks.com/the-crisis-of-expertise/

[8] L’espressione “expertise profana”, nata negli studi sociali sulla scienza e la tecnologia, indica l’expertise di “non-professionisti che, nonostante la mancanza di credenziali riconosciute, giocano un ruolo determinante nella performance dei compiti professionali” (ibidem). È stata studiata soprattutto nel campo della medicina rispetto al ruolo dei malati di cancro prima e di AIDS poi e dei loro famigliari, ma anche – a partire dagli anni ’70 – rispetto alla risposta femminista al dominio medico e allo sviluppo di gruppi di auto-aiuto (si veda S. Epstein (1995), The construction of lay expertise: AIDS activism and the origin of credibility in the reform of clinical trials in “Science, Technology & Human Values”, 20, 4, pp. 408-435). Un’altra possibile genealogia includerebbe l’esperienza dell’ambientalismo operaio (reff.) e delle “comunità scientifiche allargate” promosse da operai, medici e tecnici della salute negli anni ’70 in Italia e il loro contributo al ripensamento della medicina del lavoro a partire dalle esperienze e conoscenze dei lavoratori (I. Oddone, A. Re, G. Briante (2008 [1975], Esperienza operaia, coscienza di classe, psicologia del lavoro, Otto edizioni). (NdT).

[9] Si veda il classico testo “The system of professions” (1988, University of Chicago Press) in cui il sociologo americano Andrew Abbott sviluppa questo tema (NdT).

[10] John Ioannidis, epidemiologo dell’Università di Stanford e promotore di un importante dibattito critico sulle condizioni in cui si svolge la produzione scientifica contemporanea, è stato coinvolto nella primavera del 2020 in uno scandalo relativo al finanziamento ricevuto da compagnie private ostili al lockdown per una ricerca in cui metteva in dubbio la portata della pandemia in corso. Per una ricostruzione della vicenda si veda l’articolo di Luca Tancredi Barone su il Manifesto del 17 maggio 2020: https://ilmanifesto.it/dal-guru-ioannidis-sostegno-interessato-alla-fine-del-lockdown/ . Ulteriori sviluppi della vicenda si trovano qui: https://www.buzzfeednews.com/article/stephaniemlee/ioannidis-trump-white-house-coronavirus-lockdowns  (NdT)

[11] Citato in G. Bechmann e I. Hronszky (2003), Expertise and its Interfaces, Edition Sigma.

[12] M. Oppenheimer, N. Oreskes, D. Jamieson, K. Brysse, J. O’Reilly, M. Shindell, M. Wazeck (2019), Discerning experts. The practices of scientific assessment for environmental policy, University of Chicago Press. https://press.uchicago.edu/ucp/books/book/chicago/D/bo33765378.html

[13]https://books.google.com/ngrams/graph?content=risk&year_start=1800&year_end=2019&corpus=26&smoothing=3&direct_url=t1%3B%2Crisk%3B%2Cc0

[14] G. Mollering (2006), Trust: Reason, Routine, Reflexivity, Emerald. https://books.emeraldinsight.com/page/detail/Trust/?k=9780080448558

[15] “Operation Warp Speed” è il nome della campagna lanciata dal governo degli Stati Uniti nell’aprile 2020 per sviluppare e distribuire i vaccini alla popolazione (NdT).

[16] S. Hilgartner (2000), Science on stage. Expert advice as public drama, Stanford University Press. https://www.sup.org/books/title/?id=634

[17] Riferimento al testo di N. Oreskes e E. Conway, Merchants of doubts (Bloomsbury Press, 2010), in cui gli autori, due storici della scienza, mostrano la “strategia del dubbio” usata da “esperti” delle grandi aziende multinazionali per screditare le conoscenze scientifiche, con particolare riferimento alla dipendenza da tabacco e al riscaldamento climatico (NdT). https://www.bloomsbury.com/uk/merchants-of-doubt-9781596916104/

[18] A. Lakoff, (2015), Real-Time Bio-politics: The Actuary and the Sentinel in Global Public Health, in “Economy and Society”, 44(1), pp. 40-59.

[19] La Great Barrington Declaration è un appello promosso nell’ottobre 2020 dal think tank della destra radicale e libertarian americana American Institute for Economic Research (AIER), già noto per i suoi orientamenti di negazione del cambiamento climatico. Secondo l’appello, l’approccio del lockdown sarebbe stato da abbandonare in favore di strategie di costruzione dell’immunità di gregge. Per una ricostruzione della vicende e il dibattito che ha suscitato anche in Italia, si vedano gli articoli di Antonio Scalari pubblicati sul sito giornalistico Valigia Blu: https://www.valigiablu.it/tag/great-barrington-declaration/ (NdT).

[20] All’approfondimento e la declinazione del tema della preparedness in ambito italiano nei campi della sanità e dell’agricoltura è dedicato un progetto congiunto (in partenza a luglio 2021) di Università Milano-Bicocca, Università di Bologna e Università di Pisa https://centri.unibo.it/cidospel/it/ricerca/prelocproject. Il progetto mira in particolare a superare la declinazione esclusivamente “logistica” del concetto per approfondire la valenza democratica del modello di prontezza basato su dispositivi-sentinella (NdT).

[21] L’autore si riferisce qui a Ilaria Capua e alla ricostruzione della sua vicenda che si può leggere in questo articolo di Luca Tancredi Barone: https://www.sciencemag.org/news/2016/07/criminal-charges-against-prominent-italian-flu-scientist-dismissed (NdT)

[22] Si veda l’articolo del New York Times del 30 dicembre 2020: 25 Days That Changed the World: How Covid-19 Slipped China’s Grasp – The New York Times (nytimes.com)

[23]Tom Nichols (2017), The death of expertise, Oxford University Press. https://global.oup.com/academic/product/the-death-of-expertise-9780190469412?cc=it&lang=en&

[24] Peter Weingart (2021) “Trust and Distrust of Scientific Experts and the Challenges of the Democratization of Science,” forthcoming in Oxford Handbook of Expertise and Democratic Politics. Edited by Gil Eyal and Tom Medvetz. Oxford University Press.

1 thought on “Futuri nel presente. La pandemia e la crisi dell’expertise

  1. Bellissimo. e potente sotto il profilo analitico e divulgativo. Complimenti alla redazione per la scelta.

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