di Tommaso Lisa

 

[E’ uscito da poco per le edizioni Exòrma Memorie dal sottobosco. Un coleottero dei funghi di Tommaso Lisa, di cui proponiamo alcuni brani]

 

Maschera

 

Sposto libri e teche dal tavolo, tolgo di torno la tazza del sesto caffè quotidiano e ricavo una superficie sgombra, una specie di radura, sulla quale posso iniziare a disegnare. Nonostante l’ora sia tarda e gli occhi brucino, arrossati, per la stanchezza.

Mi sforzo di ritrarre su un foglio le elitre del Diaperis con maniacale e un po’ ottuso puntiglio, utilizzando matite Staedtler Mars Lumograph con mine di almeno quattro gradazioni di grafite diverse, dal morbido al molto duro. Ho l’impressione che emerga dalle elitre una maschera vudù. O meglio, la maschera vudù è emersa da queste elitre, come nel paradosso ottico della coppa e del profilo, dove possiamo illuderci di vedere, a turno e mai simultaneamente, un fantasma, un fiore, il margine frastagliato di un fungo.

Da alcune settimane allineo in una cartella nominata “maschere e totem” immagini di maschere rituali. A colori o in bianco e nero. Quando apro la cartella le immagini compaiono tutte insieme, contemporaneamente: a colpo d’occhio sembra una teca entomologica, fitta d’insetti allineati. Elitre rituali che mi fissano da ogni lato.

 

Il Diaperis dei nativi

 

Nelle radure ai primi esploratori dovettero apparire assai inquietanti quelle colonne di legno intarsiato e colorato chiamate totem. Chissà se gli Ojibway conoscevano il Diaperis maculatus. Da coltivatori quali erano, quasi certamente sì. O almeno dovevano conoscerlo gli sciamani. Chissà se nella loro lingua algonchina avevano pure dato un nome al Tenebrionide, assai prima che l’entomologo e botanico francese Guillaume-Antoine Olivier, nel 1791, lo tenesse ufficialmente a battesimo.

Già prima del battesimo ufficiale, gli sciamani Ojibway incidevano e dipingevano le scorze d’albero rappresentando le cerimonie celebrate e le gesta del loro eroe Manabozho, il “Coniglio Grande”. Durante le sedute praticavano magia omeopatica, procurando ferite agli organi vitali del nemico invisibile: infilzavano con una freccia l’effigie scolpita nel legno, recitando formule rituali, in modo da trasmettergli un dolore lancinante nell’organo prescelto.

Mentre Olivier rinnegava la sua professione di medico e accettava, su incarico di Gigot d’Orcy, proprietario di una ricca collezione di minerali e d’insetti, di andare a raccogliere coleotteri per lui (fu questa occasione che gli permise di scrivere gli articoli sugli insetti e sui ragni per l’Enciclopedia metodica in 10 volumi e 389 tavole, dal 1789 al 1825 e, più tardi, di redigere il suo imponente lavoro sui coleotteri: Entomologie ou Histoire naturelle des insectes, avec leurs caractères génériques et spécifiques, leur description, leur synonimye et leur figure enluminée in 6 volumi e 363 tavole dal 1789 al 1808), in quegli stessi anni gli sciamani continuavano a esercitare, come avevano sempre fatto a beneficio delle loro comunità, il controllo sui fenomeni atmosferici e sugli astri. Gli Ojibway erano, a esempio, convinti che l’eclissi fosse il segnale di esaurimento della vita del sole, quindi, durante questo evento, lanciavano in cielo frecce colorate con la speranza di riaccendere la fiamma della stella.

In Europa fu possibile venire a sapere di loro e della loro cultura grazie ad alcuni scritti e racconti dei loro capitribù, tradotti in inglese dai giornali americani tra il 1860 e il 1875, quando già erano scomparsi del tutto, annientati dai britannici nel 1763.

Durante le numerose guerre tra nativi e coloni, furono alleati dei francesi e chissà se tra le cose che barattarono con loro, insieme alle pelli di castoro, ci fu anche qualche esemplare di quel Diaperis maculatus che Olivier, senza essersi mai recato in Canada, avrebbe identificato.

 

Platydema

 

L’eleganza formale degli appartenenti a questo numeroso gruppo / (si tratta di quasi settanta specie) è difficilmente stigmatizzabile. Sono Diaperis / un poco più allungati, di una forma quasi perfettamente ellittica, con colori / spesso vellutati e talvolta uniformi, senza macchie. Non possono essere di certo esauriti / né dalla descrizione né dalla percezione. Vengo attratto particolarmente dal Platydema ellipticum / Fabricius, 1798 che vive nel Nord America: sullo sfondo nero / vellutato tendente al grigio delle elitre / fa bella mostra una fascia zigzagante a V, seghettata sui margini, di un color arancio opaco. Il ruficorne è nero con le antenne gialle. L’excavatum è verde oliva / con le elitre segnate da profonde scanalature cangianti. Un pomeriggio non troppo freddo di gennaio, nella pineta di San Rossore, ricordo di aver trovato personalmente la violaceum, anch’essa / descritta dal Fabricius, ovviamente di un bel colore indaco scuro, piuttosto rara e localizzata (addirittura / quasi minacciata d’estinzione): è subcorticola, la si trova scortecciando vecchi tronchi morti di pino dove vive / tra la rosura e presso il legno attaccato dai funghi.

 

Leiodidi

 

Ciò che non può essere perduto di noi è sempre fuori da noi.

Esiste una famiglia, sconosciuta anche alla maggior parte degli entomologi, dal nome di Leiodidae. Fa parte della superfamiglia degli Stafilinidi e comprende circa quattromila specie nel mondo, dalle forme rotondeggianti e tutte molto piccole, inferiori al millimetro. Vivono tra i funghi commestibili e i tuberi.

Così ne parla Jünger in Cacce sottili: «Più che di quelle commestibili, mi occupo di altri tipi di tuberacee, come a esempio quelle che si nascondono tra le radici dell’erba sottile. Tra esse vivono le specie di Leiodes, pallidi insetti crepuscolari che, dopo il tramonto del sole, si arrampicano sugli steli per i voli nuziali: è allora che, se si ha fortuna, si riescono a catturare. Sono tutti molto rari, e Monsignore diceva sempre: Per avere la prova dello zelo di un collezionista bisogna andare a vedere quanti Leiodes ha raccolto».

 

Notocefalo

 

 

L’immagine del Diaperis ritorna, stilizzata, in un artefatto, uno scudo, un elmo, una maschera rituale vudù che ho trovato giorni fa navigando in rete. È la rappresentazione di un demone notocefalo che colpisce e spaventa. Il genius loci nascosto in questa gracile fauna di grafemi esprime le forze ctonie della natura. Il volto rituale del vudù viene incorporato naturalmente nell’organismo. In esso trabocca una vita molteplice di diavoli ghignanti, una doppia maschera, sia sopra il petto che sul dorso. Teste su zampe e zampe su colli, musi e volti deformi si uniscono in un medesimo organismo, questo, davanti ai miei occhi, nella scatola entomologica. Come le bordure di un antico salterio gotico, il volto umano si profila sul petto del Diaperis. Come i Blemmi descritti da Plinio. Appare piuttosto un essere stetocefalo, individuo che ha la faccia posizionata sullo stomaco. E quindi più propriamente, come conseguenza diretta di ciò, della perdita della ragione e dello spirito individuali, l’Acefalo: sono finalmente libero di somigliare a tutto ciò che non è me nell’universo.

Il volto rituale sulle elitre rende il maculatus un notocefalo. Reliquia, la mia stessa faccia umana appare su quelle elitre. Come un ex voto; veronica; pietra incisa; pietra intagliata gnostica. Così anche questo Diaperis canadese parla per specula aenigmatis della nostra e della mia sorte mortale, del fatto che nella scrittura, in tale ottusa dedizione a un atto di pensiero ripetitivo e incessante ritrovo a tratti la comunione col cosmo nel secernere quest’orazione ininterrotta, meditazione orante tessuta col filo del pensiero, alla ricerca di una comunione tra le parole e le cose (tra le cose e le parole). La raffigurazione di tale Diaperis infine aggiunge al simbolismo vitalistico notocefalico quello cosmico della solarità, originando un sovrasimbolo.

 

Iperoggetti

 

Sogno, tra foglie e forme

di insetti e di cortecce,

di essere in mille trecce

chiuso in un fungo enorme.

 

Non c’è alcun segreto da scoprire. Tutto è: sono io quest’insetto sotto la corteccia dove involvo in un’altra dimensione spaziotemporale, diversa da quella umana (certo lo so che il corpo che dice “io” s’è già letteralmente diviso in due parti, quella che agisce e vive la vita di ogni corpo vivente, e l’altra che dall’esterno osserva e giudica). Sono entrato nell’intercapedine della realtà. Dentro la materia. E ho visto che la materia è tessuta di narrazioni. La materia è innervata di linguaggi. Ho masticato il fungo e adesso sono piccolissimo, in un’intimità spettrale col microcosmo di spore. Non c’è alcuna natura per me, perché io sono la natura. Sono situato dentro una corteccia, io sono la corteccia, il fungo, l’insetto in un procedimento infinito di echi e di mimesi. Il demone ha risarcito la separazione tra i pronomi, il nome dato a qualcosa di accidentale chiamato “conoscenza”. Rimugino nel ronzante coro sub armonico dei Diaperis, fra stridii di articolazioni, pigidi e pronoti, membrane ed elitre che s’aprono e ali che vibrano: ciò che è fuori dal linguaggio, il non detto, l’inaccessibile.

Varcata ancora la soglia, cerco con lo sguardo quel che resta dopo questo viaggio. Raccolgo frammenti di corteccia incrostati di Polipori, tra gli aghi di pino sparsi e le pigne secche cadute a terra, inghiottite dal sottobosco, riponendoli in un sacchetto trasparente da freezer per portarli a casa. Reliquie della natura. Le custodirò in vasche da allevamento, sulla terrazza condominiale, coperte con una sottile rete di metallo a maglie fitte. Forse mi serviranno in futuro, quando in un bosco oppure inaspettatamente sopra il muro giallo e grigio di una casa nelle vie del centro di Prato ne troverò uno, il Diaperis, il mio insetto totemico, e proverò ad allevarlo. L’orizzonte dell’immanenza è inquieto in questo furtivo vibrare delle fronde in alto, tra il reticolo dei rami: ecco il salto quantico, il cambiamento di stato della materia. Brilla il piccolo occhio composto e vario del Diaperis e sfida la monotona ripetizione del sempre uguale a sé stesso. Nel trapasso si sviluppa la vibrante consapevolezza del divenire altro.

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