di Alberto Fraccacreta
E se nella letteratura esistesse uno sfondo riconducibile alla nozione del sacro e nel mito, anche in quei testi che non ne fanno esplicita menzione? Malinoswki trovava nel racconto mitico una sorta di «realtà primigenia» — quindi, a prescindere dal colore della ‘casacca’ —, laddove Eliade nel Trattato di storia delle religioni sottolineava la metastoria del tempo sacro (un po’ la «metanarrazione» di Lyotard), il fatto cioè che in esso, nella sua ‘eternità’, è comunque ravvisabile un’origine, un «principio». D’altronde, l’etimologia di sacro, con il radicale indoeuropeo sak-, ci riporta all’idea di un’adesione, di una «cosa avvinta» che, come le filles du feu di Nerval, si attacca al divino: vi è un punto nello spazio e nel tempo in cui ciò accade. È proprio questa iniziale adesione a costituire l’ipotesi di una letteratura ‘sacra’, al di là di un indirizzo preciso.
Prendiamo ad esempio Field Work. Lavoro sul campo (traduzione e cura di Leonardo Guzzo e Marco Sonzogni, con una nota di Valeria Mongelli, Biblion Edizioni, pp. 148, € 15) di Seamus Heaney. Opera del 1979 che ovviamente si colloca nel difficile quadro politico dell’Ulster, la quinta silloge del premio Nobel irlandese presenta numerosi riferimenti a una ‘primitività ideale’ nello spettro multiforme dell’autoreferenzialità del linguaggio («Ho mangiato il giorno/ deliberatamente, che il suo intenso sapore/ potesse risvegliarmi tutto al verbo, al puro verbo»), della persistenza delle icone («A Boa la pietra occhi di nume, bocca di sesso,/ incassata tra le tombe, bifronte, intaccata,/ rispose col silenzio al mio silenzio./ Una pila per l’acqua piovana. Anatema»), persino del potere rivelatorio insito negli oggetti («O voi aurighi, sui vostri dormienti cannoni,/ è ancora qui, resiste a vibrare mentre passate,/ l’invisibile, inviolato omphalos»). In Heaney è utile notare non soltanto il rapporto diretto con il mito (gaelico, classico, cristiano: North, Station Island, The Spirit Level fino alle traduzioni sofoclee e al magistero virgiliano in District e Circle, Catena umana e nella traduzione del VI libro dell’Eneide), quanto l’aderenza al sistema metafisico che esso comporta secondo le sue varie sfaccettature, senza togliere il velo ai legami espliciti. Il gergo religioso variamente adoperato anche in Lavoro sul campo lo dimostra: «verdi scapolari», «sudario», «vittima», «apparizioni», «devozione», «musa gutturale» e via dicendo; quasi non c’è lirica che non presenti un cenno alla semiosfera del sacro. Ma Heaney si spinge oltre: Sonzogni ha notato in Vedere le cose addirittura una «santificazione della poesia» (l’etimo sank- riguarda un riservare, dedicare a) che fa pendant con la sua «missione salvifica», individuata da Guzzo nell’introduzione a Lavoro sul campo, in virtù di una «disposizione sensibile al numinoso», come disse lo stesso poeta in Stepping Stones: claritas (in senso tomistico), «battesimo alla chiarezza», «salmi della luce» sono i termini della poesia eponima e dell’ampia sequenza Squadrature.
La poesia possiede dunque un carattere ‘meraviglioso’ che aiuta epistemologicamente ad aprire il nocciolo essenziale delle cose e a osservarne meglio la carica reale. Ancora in Field Work, senza l’‘esecuzione’ della letteratura, sarebbe impossibile ascoltare tra «i fiori di fango del dialetto/ e gli immortali dalla nota perfetta» la «musica di ciò che accade», intesa anche secondo la sfumatura scientifica come il brulichio naturale del mondo.
Se il sacro è un attaccarsi, il santo è un dedicarsi. Vi è una diversa relazione con il divino. Il primo comporta un disperdersi (dépense, Bataille), il secondo un abitarsi, ovvero destinare il proprio spazio interiore alla trascendenza. In entrambi i casi, tuttavia, la poesia diventa una comunicazione straniata che correla il visibile all’invisibile, dando l’opportunità di legare (religio) a un significato la vicenda esistenziale vissuta dal soggetto. D’altra parte, l’homo sapiens è homo religiosus per il suo istituire — tra i 200.000 anni fa e i 40.000 anni fa circa — il culto dei morti, con riti di sepoltura contrassegnati da argilla rossa, corna di cervo, conchiglie (cosa che avviene anche con l’uomo neanderthaliano e che riduce le distanze tra le due specie). E anzi secondo l’egittologo Jan Assmann alcune forme d’arte nascono sotto l’egida del ricordo dei defunti: sono connesse a una rappresentazione simbolica avente il fine di mantenere in vita il defunto. Emmanuel Anati conferma che «i primi indizi di strutturazione del concetto religioso, con canoni precisi, sembrano essere evidenziati dal fenomeno di creatività artistica dell’uomo del Paleolitico superiore»; tanto che, intorno ai 30.000 anni fa, «l’homo sapiens creava oggetti per usi rituali, produceva meravigliose opere d’arte ispirate al mito e ad altri aspetti della concettualità, praticava riti connessi con le proprie credenze».
La costituzione dell’arte potrebbe essere intimamente religiosa e quindi aderire a un atteggiamento che, almeno per l’uomo del Paleolitico, non è in linea con i tre istinti razionali fondamentali (ricerca del cibo, autodifesa, riproduzione: è semplice quindi far riferimento all’irrazionalità del desiderio). Il culto dei morti in sé direbbe molto ma non esaurirebbe il discorso — il lutto lo elaborano anche gli elefanti, gli scimpanzé e i delfini —, se non fosse che sviluppa ed esalta questa propensione creativa verso i simboli. D’accordo, l’arte è religiosa. Ma perché la religiosità è espressa in maniera artistica?
Tornando a tempi più ragionevoli, è stato pubblicato da poco un bel commento di Umberto Brunetti a Lo splendido violino verde (con scritti di Corrado Bologna e Alessandro Fo, Artemide, pp. 303, € 30): al di là dei sofisticati sistemi fonici, metrici, culturali (nei loro densi interventi Bologna e Fo parlano rispettivamente di «fonetica spirituale» e di «impennate di lessico, allusioni, dottrina»), Ripellino ci consegna una poesia che, per sua ammissione, mitizza la scrittura come «vezzeggiamento di questo eterno malessere, da me trasformato in feticcio, in oggetto prezioso come un pezzo di rame»: la sofferenza è «rivelatrice di una realtà metafisica» e Dio stesso si manifesta in Ripellino dentro una problematica quanto presaga «identità della morte». Brunetti sottolinea come l’esercizio poetico sia un «esorcismo» della malattia e delle sue neghittose conseguenze: di qui il «fragore», il «bailamme» — contra silentium — giocati sul quel «funambolismo linguistico» che inselvatichisce e addensa la lirica ripelliniana di nomi, accenti, maiuscole, allitterazioni e clownerie di sorta, «tramutando la cultura in poesia». Nella circolare e claustrale dialogocità di io-tu-egli (che effigiano sempre, in un acceso laforguismo, il soggetto lirico), Ripellino si maschera e iconizza la sua parabola di vita con un crescendo di travestimenti, rimandi intertestuali incapaci di nascondere però le abissali ragioni religiose poste a basamento degli assemblaggi e dei maquillages («La gioia dell’attimo in cui uno smarrito motivo riemerge intero nella luce gelida,/ per risonare più puro, più vivido/ dopo tanta attesa, dopo tanto desiderio»). D’altra parte, anche per questo poeta, sono ben chiari le affinità con una tradizione folclorica: quella russa ed europea orientale, i cui nessi sono riconoscibili nel volume Fantocci di legno e di suono (a cura di Antonio Pane, Aragno, pp. 105, € 12): Ripellino costituisce un suo «solidale universo» con al centro il teatro di marionette ceco e la lingua transmentale di Chlèbnikov. Pane rileva a ragione lo «sguardo lungo e stereoscopico» dell’autore siciliano, tutto incartocchiato tra le «mascherate allegoriche del secolo XVIII» e i «capricci sonori».
Dentro le ramificazioni del nuovo, appassionante romanzo di Alessandro Zaccuri, La quercia di Bruegel (Aboca Edizioni, pp. 165, € 15), ci imbattiamo in una neurologa, Matilde Rovani, studiosa di Oliver Sacks e amante di Emily Dickinson («Il cervello — è più grande del cielo»), che cura i malfunzionamenti percettivi dei suoi pazienti con le arti figurative: «Mi aveva detto subito — racconta il protagonista, un ‘romanziere di scarso successo’ —, e ripeteva spesso, quanta importanza avesse l’arte nel progetto al quale stava lavorando. La reazione a una determinata immagine aiutava a delimitare il disturbo di percezione dal quale il suo paziente era affetto». Inutile precisare che i suoi studi l’hanno portata tra i pittori fiamminghi e, in particolare, all’albero spoglio dipinto nell’Adorazione dei Magi nella neve di Bruegel il Vecchio, dal quale è letteralmente angosciato un suo assistito (molto speciale). Anche qui l’«ostinazione della materia», incastonata tra immagine e incubo, sembra additare qualcos’altro: «C’è sempre un altro albero al di là di quelli che vediamo». L’arte denota la res cogitans oltre la res extensa, la realtà primigenia nel referente quotidiano: lì dove i «dettagli sono indomabili», «c’è davvero un altro modo di vedere le cose».
Veniamo, infine, a un’interessante monografia di Marco Petrelli e Giulio Segato, Cormac McCarthy: saggi a margine del canone (QuiEdit, pp. 192, € 16). La prima parte del libro si concentra su una chicca: i due racconti giovanili (Wake for Susan, A Drowing Incident) scritti da McCarthy tra il ’59 e il ’60 e apparsi sulla rivista universitaria «Orange and White Literary Supplement The Phoenix». Benché avvolto da un acerbo faulknerismo — oscillante verso lo «show don’t tell» di Hemingway — e da passaggi formali singhiozzanti, essi nascondono in germe alcuni dei principali motivi mccarthiani: «Malinconia pastorale, toni elegiaci, un persistente sottotesto di violenza». Insomma, l’«asciuttezza eidetica», tipica di Città della pianura e La strada, è già impressa come marchio di fabbrica; questi racconti sono «matrici abbozzate» dei grandi affreschi della maturità. La seconda sezione è invece dedicata alle linee carsiche della guerra in Vietnam che agiscono in Meridiano di sangue, simili a canovacci mituali: eventualità suggestiva che sposta l’ago ermeneutico dal «western eccentrico» al «romanzo bellico». Stesso destino per Non è un paese per vecchi, nel quale precipua è l’allacciatura metaletteraria con Yeats e Chandler. I valori allegorici messi in campo dallo sceriffo Bell, sebbene siano all’apparenza sconfitti dalla malvagità assoluta di Chigurh, descrivono pur sempre l’etica giusta di un reduce della Seconda Guerra Mondiale, assai differente dall’incosciente spregiudicatezza di Moss, veterano del Vietnam. La terza parte è relativa al McCarthy drammaturgo e sceneggiatore, esordiente nel 1976 con The Gardener’s Son, episodio della serie antologica televisiva Visions in onda sull’emittente PBS. Assieme alla controversa pièce The Stonemason («dramma dell’alienazione» vicino al Sisifo camusiano) e al più celebre Sunset Limited, percorso da un rigore dialettico che ricorda le disputationes della Scolastica, l’oggetto più profondo della ricerca mccarthiana è «un interrogativo millenario di portata metastorica: l’ultima parola spetta alla vita o alla morte? O, più precisamente, il fondo su cui si ritaglia l’esistenza umana è Dio o il nulla?». Siamo ancora nel solco delle domande aurorali dell’homo sapiens religiosus, nella metastoria del tempo sacro e nel tentativo di adesione. Il finale della Trilogia della frontiera parla chiaro: la meditazione sui destini umani coincide con quella claritas che rende l’arte tale: la risposta è nel suo interrogare (reg-, tendere) incessante. Una sorta di teodicea continua permea la scrittura granulosa di McCarthy, divorata dalle voragini del male eppure così scopertamente desiderosa del «mercy will come», la vera misericordia (che nel bambino diviene inabitarsi) presente in una pagina memorabile di The Road.
[Immagine: Cormac McCarthy].
Ritengo l’articolo-saggio davvero importante, nel suo essere coraggiosamente controcorrente e per il recupero, analitico, di fonti di studiosi purtroppo dimenticati e rimossi. Complimenti,