di Paola Silvia Dolci

 

[Per la collana novecento/duemila di Le Lettere, diretta da Diego Bertelli e Raoul Bruni, esce oggi Diario del sonno di Paola Silvia Dolci (postfazione di Marco Giovenale). Presentiamo alcuni testi].

 

Ho sette anni.

 

Siamo nello studio. Luci puntate e buio. Con forza e fermezza il dottore mi strappa entrambi i lobi nei quali ho due grandi orecchini a cerchio. Mi scuoto, me ne andrei. Il dottore mi afferra gli avambracci e me li blocca sulla scrivania. Non posso muovermi. Senza fiato, ho paura.

 

*

 

Ho zero anni.

 

Perdo i denti. A volte anche i capelli. Mi smarrisco nei labirinti. Sono su una macchina che non so guidare e mi vado a schiantare. La folla. Cado col lettino dal ballatoio della nonna. Non sono in picchiata ma il letto si disfa progressivamente fino a quando l’unica protezione contro lo schianto è la mia impronta sul materasso. Polvere e cenere in turbini. Mi va malissimo il compito in classe di matematica che devo svolgere.

 

*

 

Ho sei anni.

 

Seduta settima: lei non affronta la realtà per timore del fallimento.

 

Se pubblicano me, devono valere poco. Non è che scappo dalla realtà per non subire fallimenti: scappo dalla realtà per non dovere rinunciare ai miei desideri.

 

Seduta ottava: lei non sente sue le opere che scrive.

 

*

 

Ho cinque anni.

 

Mamma mi invita, apre la porta.

La stanza è buia.

Richiude la porta e inizia a frustarmi con la cintura.

Provo ad accendere la luce, a trovarla ma non esistono spiragli.

Mi sforzo, le do tutto quello che ho.

 

*

 

Ho quattro anni.

 

Mi ama così tanto che si è fatto un calco della mia figa, dice che mi ama così tanto che non riesce solo a baciarla, a mangiarla ma deve sputarci dentro il cibo.

 

*

 

Sono un ingegnere civile. Ho smesso di leggere e scrivere quando avevo diciotto anni, ho ripreso a venticinque anni.

 

Ora ho quattro anni.

 
*
 
Cartolina.
 

Non ti hanno amato i tuoi genitori. Non ti ha amato, né ti ama tua moglie. Non credo tu abbia amici. Forse, ma non credo nemmeno questo, ti amerà l’altra tua figlia. Quella più piccola. Quella che le urlavi di fronte che non era figlia tua. Bestia.

 

Voglio questo odio perché è quello che ti meriti. Bestia. Tu non hai poco. Tu non hai niente. Forse sono io quella che non è figlia tua. Non ho nulla in comune con te. Forse non puoi capire. Ma su questo non mi sbaglio: guardati. Bestia. Guarda cos’hai costruito, quali sono i sentimenti di cui ti circondi. Bestia. Guardati intorno. Cosa vedi? Cos’hai alle spalle? Cos’hai fatto di buono in vita tua? Cos’hai imposto agli altri che sia stato migliore di quanto sia stato destinato a te? Io supererò questa malattia. Tu non avrai, e non avrai mai avuto, niente. Bestia. Idiota e cattiva. Avrai che ne parleranno i libri. Bestia. Io ti distruggo. E mi devi ascoltare. Perché tu hai nutrito il mio odio. Perché anch’io avevo il diritto di amare un padre. Bestia.

 

La vendetta mi permette di riequilibrare le ingiustizie della vita. Si rinsalda l’immagine alla realtà.

 
*
 
Ho ventisei anni.
 

Il ragazzo biondo triste, quello che mi precede durante le sedute, ha pianto. Aveva gli occhiali da vista in mano stavolta, mentre di solito li indossa. Inizialmente, dopo essermi chiesta il perché, avevo creduto che fosse per avere qualcosa da toccare mentre parlava. Ma i fazzolettini non sono mai in quella posizione. Sono sempre in quella posizione quando qualcuno ne ha bisogno.

 
*
 
Ho dodici anni.
 

Siamo su una nave affollata, il mare è grosso ma il cielo è bello. La nave ondeggia pericolosamente. Mi nascondo sotto una scialuppa di salvataggio, sto rannicchiata. La gente cade in mare, sotto questa scialuppa siamo in due, un uomo è dietro di me. Anche lui si bagna, stranamente io no, io resto asciutta.

 

L’uomo ammazza la donna e i figli. I soldati inglesi pestano a sangue i ragazzini iracheni. Le bambine coreane nel giro della prostituzione vengono vendute come vergini e durante l’amplesso infilano nella vagina pezzi di plastica taglienti. È l’alba.

 

*

 

Ho mille anni.

 

Un futuro possibile. In cui io il bambino e il suo papà facciamo il bagno in mare. La merenda con pane burro e marmellata. In cui ci si addormenta in un lettone tutti e tre abbracciati. Qualcosa di nuovo in cui cambia il mio ruolo. In cui non sono più un peso doloroso che deve affannarsi per non trovare amore.

 

Non sei figlia. Non sarai mai più figlia. Non sarai mai stata figlia.

 

*

 

Ho venticinque anni.

 

voglio morire voglio morire voglio morire voglio morire. Bruciare.

 

non so bene quello che voglio. Un coltello. In cucina, apro il cassetto, lo guardo. Chiudo il cassetto e me ne vado.

 

Ho tanta voglia di tagliarmi. Torno in cucina, apro il cassetto, prendo in mano il coltello. Non è molto tagliente. Non lascia segni. Lo ripongo, chiudo il cassetto.

 

Scappo in camera da letto, è la stanza più distante dalla cucina. Mi vedo nello specchio. Sto piangendo e ho il braccio destro davanti alla faccia.

 

Volevo tagliarmi ma i tagli superficiali fanno male comunque.

 

Torno in cucina, prendo il coltello e me lo porto in camera da letto. Lo guardo attraverso lo specchio sulla pancia nuda. Alzo lo sguardo e vedo questa faccia arrossata e gli occhi piccoli lucidi.

 

Non riesco a non guardarmi e vedo un mostro.

 

In cucina, butto il coltello, scappo in camera da letto.

 

Sul letto.

 

Adesso m’ammazzo.

 

Cerco un vincolo nelle lenzuola, avvolgermi e bloccarmi, immobilizzarmi.

 

Calmati, basta basta basta.

 

Devo chiudermi in camera e non ci sono chiavi. Anche in camera posso frantumare lo specchio e tagliarmi con quello. Spacca i piatti spacca i bicchieri ribalta la casa ma non farmi male perché non riuscirai ad ammazzarti e poi sarà peggio. Chiama Luca. Luca non risponde. Chiamalo finché non risponde ma lui non risponde. Chiama Sara. Fingo di avere una crisi di pianto e di non sapere perché. Rimango al telefono con lei. Sono frastornata. Torna Luca. Lo allontano.

 

Ho la manica sinistra totalmente strappata. Ho dei graffi sulla mano destra. Una rabbia incontrollabile. Non lasciarmi da sola mentre muoio. Ti prego. Ho paura di stare da sola mentre muoio. Uccidimi ti prego. Mi vedi? Riesci a vedermi? Allora se mi ami devi uccidermi tu, che da sola non ce la faccio.

 

Tremo, tutto quello che è intorno sembra irreale.

È come essere bendati. Non ci sono limiti.

Oggi ho paura. La perdita di controllo mi fa paura.

L’unica cosa che sono, un animale che può provare dolore.

Quando penso sia il momento opportuno per fare un passo avanti, ogni volta, ne esco a pezzi.

 

[Immagine: Tommy Nease, Skyler].

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