di T.S. Eliot (trad. di Carmen Gallo)

 

[Esce oggi per Il Saggiatore l’edizione di The Waste Land di T.S. Eliot curata da Carmen Gallo. Si intitola La terra devastata. Oltre a una nuova traduzione, il volume contiene un saggio introduttivo e un commento. Il saggio è costruito come una mappa della terra devastata eliotiana e attraversa diversi spazi (New York, Parigi, il Congo, Cartagine, Monaco, Londra) e tempi (l’imperialismo romano e il colonialismo europeo, la prima guerra mondiale e il dopoguerra dei trattati di pace). Qui si riporta – per gentile concessione dell’editore – il luogo della mappa intitolato Dardanelli, 1915 e un brano della prima parte del poemetto, La sepoltura dei morti (vv. 1- 42)].

 

La sepoltura dei morti

 

Aprile è il mese più crudele, genera

lillà dalla terra morta, mescola

memoria e desiderio, pungola

radici ottuse con pioggia primaverile.

L’inverno ci teneva al caldo, copriva

la terra di neve dimentica, nutriva

con tuberi secchi una vita minima.

L’estate ci sorprese, piombando sullo Starnbergersee

con un acquazzone; ci fermammo sotto il colonnato

e con il sole proseguimmo, fino allo Hofgarten,

e bevemmo caffè, e parlammo per un’ora.

Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch.

E quando da bambini, ospiti dell’arciduca

mio cugino, lui mi portò fuori in slitta,

io avevo paura. Mi disse, Marie,

Marie, tieniti forte. E giù andammo.

Su, tra le montagne, ci si sente liberi.

Leggo, quasi tutta la notte, e d’inverno vado a sud.

 

Quali sono le radici che afferrano, quali i rami

che sbucano tra questi rifiuti di pietra? Figlio dell’uomo,

questo non sai né puoi indovinarlo, perché conosci soltanto

un mucchio di immagini sfatte, dove picchia il sole,

e l’albero morto non offre riparo, e il grillo nessun conforto

e la pietra secca nessun suono d’acqua. Soltanto

ombra sotto questa roccia rossa,

(venite all’ombra della roccia rossa),

e vi mostrerò qualcosa che non somiglia

né all’ombra che vi insegue al mattino

né all’ombra che vi si fa incontro la sera;

vi mostrerò la paura in un pugno di polvere.

Frisch weht der Wind

Der Heimat zu,

Mein Irisch Kind,

Wo weilest du?

«L’anno scorso mi hai dato giacinti per la prima volta;

mi hanno chiamato la ragazza dei giacinti.»

– Quando siamo tornati, però, tardi, dal giardino dei giacinti,

tu avevi le braccia cariche, e i capelli bagnati, io non riuscivo

a parlare, e la vista mi veniva meno, e non ero

né morto né vivo, e non sapevo nulla,

lo sguardo nel cuore della luce, il silenzio.

Oed’ und leer das Meer.

 

*

 

 The Burial of the Dead

 

April is the cruellest month, breeding

Lilacs out of the dead land, mixing

Memory and desire, stirring

Dull roots with spring rain.

Winter kept us warm, covering

Earth in forgetful snow, feeding

A little life with dried tubers.

Summer surprised us, coming over the Starnbergersee

With a shower of rain; we stopped in the colonnade,

And went on in sunlight, into the Hofgarten,

And drank coffee, and talked for an hour.

Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch.

And when we were children, staying at the archduke’s,

My cousin’s, he took me out on a sled.

And I was frightened. He said, Marie,

Marie, hold on tight. And down we went.

In the mountains, there you feel free.

I read, much of the night, and go south in the winter.

 

What are the roots that clutch, what branches grow

Out of this stony rubbish? Son of man,

You cannot say, or guess, for you know only

A heap of broken images, where the sun beats,

And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief,

And the dry stone no sound of water. Only

There is shadow under this red rock,

(Come in under the shadow of this red rock),

And I will show you something different from either

Your shadow at morning striding behind you

Or your shadow at evening rising to meet you;

I will show you fear in a handful of dust.

Frisch weht der Wind

Der Heimat zu,

Mein Irisch Kind,

Wo weilest du?

«You gave me hyacinths first a year ago;

They called me the hyacinth girl.»

— Yet when we came back, late, from the hyacinth garden,

Your arms full, and your hair wet, I could not

Speak, and my eyes failed, I was neither

Living nor dead, and I knew nothing,

Looking into the heart of light, the silence.

Oed’ und leer das Meer.

 

*

Dardanelli, 1915

 

Non si devono lasciare i cadaveri insepolti. Lo insegnano i miti di Edipo e Antigone, la storia di Palinuro nell’Eneide. La mancata sepoltura attira sciagure o pestilenze sui responsabili. La questione è antropologica – e lo sa bene Eliot che ha letto i miti e i riti mediterranei raccolti nel Ramo d’oro di Frazer –, ma diventa urgente tra il 1914 e il 1918, quando l’Europa sarà ricoperta dei corpi di milioni di soldati da seppellire. Di questo, e di molto altro, si parla nella prima parte del poemetto, La sepoltura dei morti, che si dispiega dall’incipit dell’«Aprile crudele», dove radici ottuse si rifiutano di rispondere alla pioggia primaverile uscendo dal letargo mortale dell’inverno (vv. 1-7), all’immagine raccapricciante di derivazione joyciana di un cadavere sepolto in giardino perché germogli, e va dunque protetto dalle gelate e certo anche dal cane che potrebbe riportarlo allo scoperto (vv. 71-76). Cadaveri insepolti, e cadaveri dissepolti. È quanto era accaduto durante la catastrofica campagna di Gallipoli, nei Dardanelli, organizzata dall’Intesa contro l’Impero ottomano a partire dal febbraio 1915, e già evocata da Eliot in Gerontion.

 

Le difficoltà incontrate nel soccorrere i feriti e la controffensiva turca (e le condizioni igieniche e climatiche) avevano provocato un numero di perdite tale che si ritenne necessario, a maggio, chiedere una tregua di qualche ora per seppellire i cadaveri, nella speranza anche di limitare le epidemie che si stavano diffondendo. Soldati australiani e neozelandesi, con il loro cappello Stetson (v. 69) e le loro ballate oscene su Mrs Porter (vv. 199-201), erano al loro battesimo del fuoco e subirono perdite incalcolabili, ancora oggi ricordate con celebrazioni ufficiali. Dopo la sconfitta, che tutti imputarono a Winston Churchill, all’epoca Lord Ammiraglio della Marina britannica, si costruirono in loco immensi cimiteri per i caduti, mentre alcuni di essi furono disseppelliti e riportati a germogliare in patria.

 

Fin qui, la storia degli uomini, delle masse. Ma nella campagna di Gallipoli, tra i morti, c’è anche un pezzo della storia personale di Eliot, Jean Verdenal. Si erano conosciuti a Parigi, alla Sorbona, nel 1910, e avevano mantenuto una fitta corrispondenza anche quando Verdenal si era arruolato come medico dell’esercito ed era stato spedito nei Dardanelli. Qui, nel maggio 1915, il giovane rimase ucciso dopo aver trascorso una notte in acqua a soccorrere i feriti. A lui, «mort aux Dardanelles», Eliot dedicherà la raccolta Prufrock e altre osservazioni. A lui sono da ricondurre le declinazioni della «morte per acqua» che attraversano la Terra devastata, insinuandovi motivi elegiaci, primo fra tutti l’eco della Tempesta shakespeariana: «Queste sono le perle che erano i suoi occhi» (v. 48 e v. 125).

 

Qualche mese dopo la morte di Verdenal, Eliot avrà un’altra testimonianza dell’orrore della guerra grazie al cognato Maurice Haigh-Wood, che a soli diciannove anni aveva fatto esperienza della trincea all’estremo opposto dello scenario bellico, nella Francia del Nord. Nel giugno 1917 Eliot si prodigò per far stampare sulla rivista The Nation una lettera in cui Maurice raccontava, contro chi accusava i soldati di indifferenza o reticenza, l’impossibilità di restituire il «quadro di una terra lebbrosa, cosparsa dei cadaveri gonfi e anneriti di centinaia di giovani uomini», infestata da mosconi sulle interiora esposte. A Eliot Maurice racconterà anche l’incubo di trincee piene di topi, grandi come gatti e uccisi in tiri al bersaglio (Letters, p. 132). Ossa insepolte, trincee e topi: è quanto ritroviamo nella Partita a scacchi, nel contrappunto di una donna che, in una dinamica che ricorda quella della pioggia primaverile con le radici ottuse, chiede attenzione, dialogo («Stai con me». / «Parla con me», vv. 111-112) e incalza con domande insistenti («A cosa stai pensando? Cosa pensi? Cosa?», v. 114) un io solipsistico, assente a se stesso perché inabissato nel ricordo dei rats’ alleys, i vicoli delle trincee prese d’assalto dai topi: «Penso che siamo nel vicolo dei topi / dove i morti hanno perso le ossa» (vv. 15-16). La scena mescola, come recita già l’incipit, «memoria e desiderio» (v. 3): la memoria della guerra (vissuta o non vissuta, ma comunque esperienza traumatica collettiva) che ammutolisce e allo stesso tempo anestetizza il soggetto, e il desiderio della donna che vorrebbe invece spingerlo a una comunicazione intima, alla condivisione del suo stato d’animo. Alla richiesta successiva, ancora più agitata, di «sapere», «vedere», «ricordare», la risposta non può che essere un silenzio che lascia la parola a un frammento della morte per acqua shakespeariana (il ricordo di Verdenal), e subito dopo al motivetto frivolo e sincopato (ragtime) di una canzone popolare nel dopoguerra, mentre ovunque nel poemetto riecheggia la pianura piena di ossa del profeta Ezechiele (37, 1-6).

 

Impossibile dare voce al ricordo della guerra. Impossibile dare ordine e forma all’immensa futilità del panorama contemporaneo senza ricorrere a una figura mitica, o archetipica, aveva insegnato Joyce. Ecco allora Filomela, la donna ateniese stuprata dal cognato, il barbaro Tereo (e non è forse casuale questa opposizione greci/barbari alla luce della campagna di Gallipoli), che le taglia la lingua perché non racconti la violenza, e la tiene segregata in un casolare tra i boschi. Anche così mutilata, racconta Ovidio nelle Metamorfosi, Filomela riuscirà a tessere il suo dolore su una stoffa consegnata alla sorella, che potrà così vendicarla, e insieme potranno fuggire, trasformate la prima in usignolo, la seconda in una rondine. Come Filomela prova a disegnare su frammenti di stoffa l’orrore subito, e ad affidare alla riconoscibilità del suo canto (diventato un’onomatopea ricorrente nella letteratura elisabettiana) la memoria della sua storia, così Eliot tenta di restituire nel «mucchio di immagini sfatte» (v. 22) del poemetto l’orrore della guerra, perché il lettore – ipocrita, ma «fratello!» (v. 76), come aveva ammonito Baudelaire – possa ricordare ciò che l’euforia del dopoguerra vuole nascondere, e che la poesia dei war poets rischiava di estetizzare nella propaganda del sacrificio.

 

 

[Immagine: Dattiloscritto di The Waste Land  (The Burial of the Dead) con le annotazioni di Ezra Pound] .

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