di Roberto Lapia

 

Nell’armamentario d’immagini della mia educazione sentimentale emiliana spiccano in particolare due ricordi: il primo è a Parma, nell’Oltretorrente. È notte, cammino solitario lungo Strada Nino Bixio, una via fatta di costruzioni basse e anonime. La nebbia s’infittisce di colpo, mi circonda; ho l’impressione di trovarmi in un racconto di Antonio Delfini. Visioni indistinte si sovrappongono e la città sembra perdere i suoi confini: «Il giovane si lasciava semplicemente portare da quel poco che viveva fuori in mezzo alla nebbia»[1]. Nel secondo invece sono a Bologna, in via Mascarella. Con un amico entriamo in un piccolo negozio di poster e locandine varie. Il proprietario, un anziano e ruspante signore bolognese, ci mostra – senza che gli sia stato richiesto – due gigantografie degli attacchi alle Torri gemelle, declamando quanto segue: «I an fat un cap lavour!… Tutto a casa loro: le armi a casa loro, l’addestramento a casa loro, gli aerei a casa loro… Un capolavoro!». Gli spieghiamo che non è proprio il tipo di poster che andiamo cercando; come alternativa ce ne propone uno altrettanto grande di «Carletto» (non Ancelotti, emiliano doc. No, Carletto Marx. Emiliano d’adozione, almeno fino a qualche tempo fa). Andiamo via con una cartolina di Toro seduto (o forse di Geronimo, non ricordo bene) e la sensazione di aver toccato con mano il genius loci. Sì, perché quel signore mi faceva pensare all’esuberanza un po’ stramba di Emanuele Menini, dipintore d’insegne che viveva lungo la via Emilia, e che diceva che «Qui noi viviamo come ubriachi e non si sa mai cosa può capitarvi»[2].

 

Ecco, forse è per questo vivere come ubriachi, o per questa nebbia che annulla la percezione del corpo e che fa vacillare le identità, che l’Emilia è così affascinante ai miei occhi: un luogo di circolazione di storie, un incessante movimento di voci, come tanti altri territori, certo, ma alla sua maniera. È così che possiamo leggerla, ed è così che la leggiamo nell’ultimo libro di Marco Belpoliti, Pianura (Einaudi, 2021), un testo che disvela le trame invisibili che tengono insieme quella pangea che è la pianura padana, e che dedica ampio spazio proprio all’Emilia (trattino Romagna). Eppure non è di Pianura che vorrei parlare – nonostante lo consideri un libro inevitabile –, Pianura qui è solo un pretesto per entrare nel merito dell’argomento, che come avrete intuito è l’Emilia (con trattino o senza trattino, vedete voi), più precisamente l’Emilia vista attraverso due autori anche emiliani come Gianni Celati e Pier Vittorio Tondelli.

 

È chiaro, avrei potuto optare per altri autori; d’altronde non c’è che l’imbarazzo della scelta se pensiamo che l’Emilia-Romagna, come hanno giustamente sottolineato Giulio Iacoli e Alberto Bertoni, è diventata tra gli anni ’80 e gli anni ’90 un luogo centrale della letteratura postmoderna italiana, un vero e proprio laboratorio di sperimentazione letteraria e di molteplici esperimenti di scrittura del territorio[3] (difatti, tanto per fare un esempio, avrei potuto scegliere come canone ristretto per questo articolo i testi di Ermanno Cavazzoni, Paolo Nori o Daniele Benati, e intitolarlo Lunatici e sbombardati, e sarebbe andato bene ugualmente). Ma allora perché proprio Celati e Tondelli? Non, o non solo, perché Belpoliti ne parla nel suo Pianura, e non, e non solo, perché sono uno di famiglia ferrarese (Celati) e l’altro di Correggio (Tondelli). Diciamo che le ragioni della mia scelta sono plurime: perché si tratta dei due autori (nel contesto emiliano) dal progetto letterario a mio avviso più complesso, dal lascito più duraturo, più importante. Perché attraverso i loro testi, caratterizzati da un nuovo modo di approcciarsi al paesaggio, hanno saputo plasmare un’immagine diversa dello spazio emiliano: disambientandolo, destabilizzandolo, defamiliarizzandolo, aprendolo al mondo. Perché il loro continuo viaggiare, sintomatico di un’irrequietezza di fondo comune a entrambi, è inevitabilmente segnato da un continuo movimento di ritorno: verso casa, verso il luogo di nascita, verso la provincia. Perché l’Emilia, la pianura, la valle Padana, è il pozzo dei loro sentimenti, una sorta di luogo dell’anima, o, se vogliamo dirlo con Dante, «la secretissima camera de lo cuore». Infine: perché paradossalmente sono i meno emiliani di tutti.

 

Come ho preannunciato sopra, la scrittura di Celati e di Tondelli è caratterizzata da un fertile paradosso di fondo: da un lato un nomadismo inesauribile (che è culturale, sentimentale, sociale) e dall’altro un radicamento nel cuore della terra emiliana, una sorta di attaccamento buio ad essa. Di conseguenza la loro letteratura si fa scavo antropologico di questa terra – raminga, stralunata, straniata – con uno sguardo sempre rivolto all’Italia, all’Europa, alla modernità, e dà vita all’idea di una “provincia-mondo”, «un territorio insieme chiuso e aperto, con un rapporto fondamentale tra l’immagine o la parola e il luogo che ne è a un tempo la condizione generativa e il contesto di interpretazione entro un sistema di tramandi attivi»[4]. Quella che i due autori fanno emergere è un’Emilia progressiva, presa tra la direttrice urbana della via Emilia e quella fluviale e campagnola del Po, tra D’Arzo e Delfini, tra Lolli e Guccini, ma anche tra Ariosto, Pulci e Luigi Ghirri (senza dimenticare il Boiardo).

 

Ma procediamo con ordine. Già nel 1971, introducendo il primo romanzo di Gianni Celati (Comiche), Italo Calvino sottolineava uno degli aspetti centrali dell’opera: «l’avere radici in un humus geografico e sociologico ben riconoscibile: una piccola Italia padana che d’ora in avanti riconosceremo come il mondo di Celati». Questo mondo di Celati assumerà un’importanza ancora maggiore negli anni ’80, periodo della nota svolta narrativa dell’autore avvenuta a seguito dell’incontro con il fotografo Luigi Ghirri, del quale Celati sposerà la poetica, trasponendola nella sua scrittura: la visione naturale, «che è sempre una sorpresa, un riaprire gli occhi sul mondo», il pensare per immagini, e la proiezione affettiva: «sguardo come incontro con le cose, verso cui ci dirige una nostra tendenza intima»[5]. E lo sguardo affettivo di Celati si poserà su quel territorio di prossimità, di simpatie e di attrazione che è la valle Padana, come si evince dalle due raccolte di racconti (Narratori delle pianure, 1985, e Quattro novelle sulle apparenze, 1987) e dal diario di viaggio (Verso la foce, 1989) pubblicati dall’autore durante quel florido periodo.

 

Questi testi sono frutto di lunghe erranze lungo le campagne padane (emiliane in particolare), erranze caratterizzate dalla volontà di considerare ogni luogo come un “luogo aperto” che ci attende, e di avanzare spedito verso verità che ignoriamo e che ci ignorano: «Per alcuni anni sono andato in giro per la valle del Po […]. Una delle attività che facevo era quella di piantarmi per interi pomeriggi nei bar di campagna e ascoltare tutto quello che si diceva. C’erano accenni a storie possibili a ogni frase, e di lì mi sembrava di capire come nascono i racconti»[6]. È a partire da queste voci distanti che nascono i tre libri, nei quali chi narra non ha nome, perché è solo un raccoglitore di storie che si ripetono di continuo, magari con alcune variazioni, e lo scopo di questo narrare è di portare sollievo a chi ascolta. Così la valle Padana e l’Emilia celatiana diventano dei luoghi reali e fantastici allo stesso tempo, luoghi sui quali il narratore posa il suo sguardo ingenuo interrogando quelle voci e quegli oggetti che sono rimasti fuori dalla storia.

 

In questi racconti e diari, segnati dal “gusto orale”, le tracce del passato sembrano indicare, con il loro silenzio nel presente, una «condizione tutta nuova dell’uomo che è l’essere senza origini»[7]: difatti che cosa sono la via Emilia di Menini, dipintore d’insegne, e del silenzioso Baratto, che osserva gli spigoli delle costruzioni, o la campagna che costeggia il Po di Verso la foce, o ancora, i paesini del ferrarese attraversati nel Ritorno del viaggiatore, se non un grande bric-à-brac di scarti, di rovine, di immagini frammentarie dello straniamento di una terra desolata? Esemplare a tal proposito il passaggio che segue: «Dopo a Polesella, scendendo dal treno, mi sono trovato in mezzo a gente con la stessa aria traballante; gente che s’era alzata come me all’alba con l’impressione d’essere in un luogo sconosciuto, era uscita di casa semicosciente di gesti ripetuti e abitudini attaccate al corpo, e si ritrovava là fuori pronta ad andar ovunque. […] E in quel posto anche adesso sembrava d’essere in un dopoguerra, dopo un disastro di cui nessuno aveva sentito parlare»[8].

 

È chiaro allora, e Celati lo mostra in maniera impeccabile sia nei Narratori che nelle Quattro novelle e in Verso la foce, che gli abitanti di quei luoghi padani e emiliani hanno smarrito la comprensione dell’identità profonda del loro paesaggio culturale, «e questo spiega la manomissione e il degrado di paesaggi millenari ad opera degli stessi abitanti, ormai privi della cultura e della sensibilità estetica che fino a qualche generazione fa ha mantenuto consapevolezza di sé»[9]. Difatti ecco un’Emilia disambientata fatta di casolari vuoti e di zuccherifici abbandonati, di neon e di cartelloni pubblicitari, di macchine («Perché da queste parti tutti rispettano solo le macchine, e hanno solo pensieri di macchine. E ritengono che, se qualcosa non è una macchina, quella sia una bassezza della vita»[10]), e di spazio diffuso in ogni direzione. Non è un caso che uno dei viaggiatori del documentario realizzato da Gianni Celati nel 1991, Strada provinciale delle anime, a un certo punto, con schiettezza emiliana, si chieda: «Cosa siamo venuti a vedere qui?».

 

Il narratore celatiano, come Menini, insegue le variazioni di luce «che sottopongono gli spazi a un incessante mutamento prospettico»[11], e attraverso il suo guardare ingenuo rende visibile il visibile, toglie l’imballaggio che avvolge ogni cosa (credo l’abbia detto Sklovskji). Nei luoghi di disfazione e spaesamento sui quali il suo sguardo si posa, le cose fuori luogo e le persone fuori luogo ci appaiono dei poveri dispersi, come il tipografo parmigiano che non si spiega come mai le parole da leggere in giro aumentavano sempre, o come gli automobilisti che circolano all’infinito «con i più miserabili pretesti, nel terrore di essere immobili»[12]. Si tratta insomma di un’Emilia (e di una valle Padana) priva di nostalgie folkloriche, un luogo tutto piatto, «a volte da brivido», fatto di anime provinciali che sembra abbiano fatto il giro del mondo, con «camion, strade, ceramiche, mobili: questo mondo di ora, queste cose qui, quello che la macchina fotografica vede quando non va a cercare il c’era una volta»[13].

 

Pier Vittorio Tondelli segue in qualche modo Celati in quella nuova condizione del “piacere della narrazione” (in contrapposizione alla logica del “piacere del testo”), e la prima parte dell’opera dello scrittore di Correggio è caratterizzata proprio dalla scrittura emotiva (non lontana da quella “affettiva” di Celati). Inoltre, un altro punto di contatto tra i due è il legame imprescindibile con la tradizione orale e con la lingua parlata, che si risolve in soluzioni differenti ma che in entrambi non si limita mai «a una semplice mimesi del parlato dialettale, risolvendosi piuttosto nelle varie forme di un linguaggio medio che restituisce la ricchezza della parlata emiliana, le sue figure colorite e le sue cadenze tipiche, fino a contagiare la stessa struttura sintattica del dettato»[14]. Tondelli, che ha seguito il seminario di Celati al DAMS di Bologna (Alice disambientata, 1977) e che è rimasto particolarmente colpito dal Lunario del paradiso (1978)[15], costruisce fin dal suo esordio dei personaggi che celatianamente (se mi passate l’avverbio) osservano la realtà attraverso uno sguardo laterale, ingenuo, dei marginali che popolano la via Emilia e che non possono riconoscersi nelle regole comuni.

 

Altri libertini, esordio del 1980, è un libro che rompe gli schemi su più piani, e che mette in risalto un’Emilia generazionale fatta di luoghi periferici e squallidi, come il Posto ristoro, di eroina, emarginazione e di vuoto politico, di dancing e di desiderio di fuga. Sono storie che si svolgono in un mondo di giovani, cui Tondelli dà dignità letteraria: è la realtà «di chi ha meno di trent’anni, si tratti della fauna metropolitana e di provincia che si trascina per le vie e le piazze dell’Emilia, della tribù dei fuorisede universitari che vaga tra le aule dell’ateneo e i portici bolognesi, dei ventenni che compiono uno dei riti di accesso all’età più matura, il viaggio all’estero»[16]. Vi sono dei luoghi ricorrenti, che potremmo definire tondelliani, come le osterie, le trattorie e i bar, e poi le strade e le piazze di Bologna e Reggio Emilia, quelle di Correggio, e ovviamente la via Emilia, via “letteraria” per eccellenza, piena di discoteche e neon; una via Emilia che in Tondelli è anche la strada che si spinge fino all’Europa e all’America, un’idea di movimento, di fuga possibile. Non posso non citare ora il noto incipit di Viaggio, forse il racconto più bello di Altri libertini: «Notte raminga e fuggitiva lanciata veloce lungo le strade d’Emilia a spolmonare quel che ho dentro, notte solitaria e vagabonda a pensierare in auto verso la prateria, lasciare che le storie riempiano la testa che così poi si riposa»[17].

 

A ben vedere ha ragione Fulvio Panzeri quando parla di Altri libertini (ma lo si potrebbe estendere a tutta l’opera di Tondelli) come di un’opera ambivalente, come ambivalente è il rapporto che l’autore intrattiene con le proprie origini: «da una parte il canto disperato della rivolta, e la forza delle radici dall’altra»[18]. Perché i personaggi si definiscono in base al loro essere emiliani, e allo stesso tempo vi è in loro una continua necessità di rompere quel legame (esemplare a tal proposito il racconto Autobahn, pp. 177-195). Contraddizione che si trascina in tutti gli scritti di Tondelli, e che sfocia in Camere separate (1989) e nel Weekend postmoderno (1990) nella celebrazione del mito del “ritorno” all’infanzia, alla terra, alla stretta provincia emiliana. Alla radice insomma. Così scrive l’autore in Giro di provincia, immagine finale di quel romanzo critico che è il Weekend postmoderno: «C’è comunque una sorta di attaccamento buio alla propria terra, e poi ci sono le nebbie che rendono le vie e le piazze delle città quinte metafisiche di un palcoscenico in cui si recita il copione tipico di ogni provincia: quello dell’attesa e del sogno»[19].

 

Questo movimento all’indietro, una sorta di viaggio letterario che Tondelli compie probabilmente nell’intento di capire se stesso in relazione alle proprie origini, in relazione alla sua Emilia, lo ritroviamo ancora nell’ultima raccolta postuma L’abbandono, in particolare nel testo del 1988 Un racconto sul vino, nel quale il narratore indugiando sugli odori della campagna («Uscendo un giorno, solo qualche tempo fa, dall’autostrada e immettendomi sulla provinciale verso la campagna, ecco i soliti, antichi odori che mi facevano sorridere e dire finalmente: “Sto per arrivare a casa”»[20]) e sulla civiltà contadina, riflette sulla perdita di valore di alcuni riti, nonché sulla scomparsa delle osterie. O ancora in Weekend, dove questo desiderio di ritorno, per quanto momentaneo, appare ancora più chiaro: «E oggi cos’è rimasto delle follie del weekend? […] A me piace uscire dalla città e tornarmene in Emilia, alla vita del paese. Un viaggio di qualche centinaio di chilometri che mi rilassa e contribuisce a farmi restare in pace con me stesso, la mia storia, le mie origini»[21]. Laddove le sue origini sono quel modo tutto particolare, generoso forse, esuberante e ansiosamente malinconico che hanno i personaggi della sua terra, come scrive ancora nel Racconto sul vino.

 

Mi sembra si possa dire, parafrasando Giovanni Lindo Ferretti, che con Tondelli e con Celati, riusciamo a cogliere un qualcosa di fondamentale: che il cuore del mondo pulsa nella provincia profonda, nelle campagne, nella sterminata periferia. E i libri di Tondelli e di Celati, come le fotografie di Ghirri o i racconti di D’Arzo e Delfini, o come le canzoni di Guccini e dello stesso Ferretti, diventano pezzi di quel paesaggio padano-emiliano (e aggiungeteci trattino Romagna se volete), ma pezzi «autonomi, indipendenti dalla singolarità che li ha generati»[22]. Sono scritture di un paesaggio in movimento, che rendono visibile quel continuo tremolio del mondo che Menini, dipintore d’insegne, vorrebbe fermare, come il vecchio signore che vendeva poster e locandine in via Mascarella a Bologna. Sono, anche, l’attraversamento di una specie di nebbia, di una specie di solitudine, «che però è anche la vita normale di tutti i giorni»[23].

 

[1] Antonio Delfini, Le trombe della sera, in Id., Autore ignoto presenta. Racconti scelti introdotti da Gianni Celati, Torino, Einaudi, 2008, p. 12.

[2] Gianni Celati, Condizioni di luce sulla via Emilia, in Id., Romanzi, cronache, racconti, a cura di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri, Milano, Mondadori, 2016, p. 904.

[3] Cfr. Giulio Iacoli, A verdi lettere. Idee e stili del paesaggio letterario, Firenze, Franco Cesati, 2017, in particolare p. 105, e Alberto Bertoni, Qualche nota introduttiva, in Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia Romagna, 1968-2007: II. Narrativa, a cura di Piero Pieri e Chiara Cretella, Bologna, Clueb, 2007, pp. 7-10.

[4] Ezio Raimondi, Prefazione. Un possibile percorso, in Gian Mario Anselmi, Alberto Bertoni Una geografia letteraria tra Emilia e Romagna, Bologna, Clueb, 1997, p. VIII.

[5] Gianni Celati, Ricordo di Luigi: fotografia e amicizia, in Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, Macerata, Quodlibet, 2010, p. 259.

[6] Testimonianza di Gianni Celati, raccolta in Massimo Rizzante, Il geografo e il viaggiatore. Lettere, dialoghi, saggi e una nota azzurra sulla prosa di Italo Calvino e Gianni Celati, Pavia, Effigie, 2017, p. 73.

[7] Gianni Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura [1975], Torino, Einaudi, 2001, p. 200.

[8] Gianni Celati, Narratori delle pianure, Milano, Feltrinelli, 1985, pp. 105-106.

[9] Luisa Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Milano, Mimesis, 1997, p. 28.

[10] Gianni Celati, Condizioni di luce sulla via Emilia, in Id., Romanzi, cronache, racconti, a cura di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri, Milano, Mondadori, 2016, p. 904.

[11] Nunzia Palmieri, Visioni in dissolvenza. Immagini e narrazioni delle nuove città, Macerata, Quodlibet, 2016, p. 116.

[12] Gianni Celati, Narratori delle pianure, cit., p. 109.

[13] Giuliano Scabia, Un narratore delle pianure, in Gianni Celati,  Riga 40, a cura di Marco Belpoliti, Marco Sironi e Anna Stefi, Macerata, Quodlibet, 2019, p. 319.

[14] Michele Barbolini e Sergio Rotino, Di altri narratori emiliano-romagnoli. Dagli “Under 25” ai giorni nostri, in Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia Romagna, cit., p. 170.

[15] Si vedano a tal proposito due scritti di Tondelli: il primo è Sulle strade dei propri miti, in Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, Milano, Bompiani, 1990, pp. 461-463 (in particolare a p. 461-462 Tondelli scrive: «Quando, nel suo bellissimo Lunario del paradiso, Gianni Celati racconta il viaggio di un giovane personaggio padano nell’Europa del Nord e nella swinging London, ecco l’eco della musica dei Beatles»). Il secondo è Una conferenza emiliana, in L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, Milano, Bompiani, 1993, pp. 52-61 (si vedano in particolare le pp. 54-55, e il passaggio che segue a p. 54: «Vi chiedo di prestare attenzione a come è scritto il romanzo. A una prima rapida occhiata vi accorgerete che non è D’Annunzio»).

[16] Elisabetta Mondello, In principio fu Tondelli. Letteratura, merci, televisione nella narrativa degli anni novanta, Milano, Il Saggiatore, 2007, p. 33.

[17] Pier Vittorio Tondelli, Viaggio, in Altri libertini, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 67.

[18] Fulvio Panzeri, Pianura Progressiva, in Pier Vittorio Tondelli, Opere. Romanzi, teatro, racconti, a cura di Fulvio Panzeri, Milano, Bompiani, 2000, pp. XVIII.

[19] Pier Vittorio Tondelli, Giro di provincia, in Un weekend postmoderno, cit., p. 593.

[20] Pier Vittorio Tondelli, Un racconto sul vino, in L’abbandono, cit., p. 152.

[21] Pier Vittorio Tondelli, Weekend, in Ibid., p. 231.

[22] Giovanni Lindo Ferretti, Panta n. 9, Milano, Bompiani, 1992, p. 339.

[23] Gianni Celati, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 1989, p 9.

 

[Immagine: Luigi Ghirri, Carpi 1973].

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