di Michele Guerra e Sara Martin

 

[Presentiamo un estratto dall’introduzione del volume Culture del film. La critica cinematografica e la società italiana, uscito negli scorsi mesi a cura di Michele Guerra e Sara Martin per i tipi de il Mulino]

 

 

Critica

 

In un suo recente libro, il critico cinematografico del «New York Times» Anthony O. Scott identifica la crisi della condizione critica contemporanea «in una cultura dell’eccedenza, una condizione di perenne sovrastimolazione che è allo stesso tempo eccitante e sconcertante.»[1] La critica, a detta di Scott, rischia sempre più di assumere la forma di una «scoria culturale» smarrita in un disordine che non riesce più ad arginare. Eppure, nonostante ciò, rimane una risorsa sociale piuttosto ricercata, inserita in ogni programma accademico di area umanistica che si rispetti, resistente nelle redazioni dei giornali, presente in svariati periodici generalisti cartacei e online, fin troppo libera e talvolta spericolata nei blog e sui social networks. L’idea secondo cui l’esercizio critico è prima di tutto un esercizio individuale di comprensione e interpretazione di un prodotto culturale sembrerebbe oggi trovare la sua nemesi nell’effettiva possibilità, per ognuno di noi, di scrivere un pezzo di critica, foss’anche solo sulla propria pagina social.[2] Così come il lontano auspicio zavattiniano circa la possibilità che ogni individuo potesse filmare il reale con la sua cinepresa si è inverato in modo più che ambiguo grazie ai nuovi dispositivi digitali, alla stessa maniera l’utopia di un discorso critico largo quanto il pubblico e veramente in osmosi con il suo portato «sociale» trova oggi nella dispersione delle metodologie interpretative il suo affascinante e al contempo inquietante scacco.

Il titolo originale del libro di Scott, Better Living Through Criticism (tradotto in modo poco fedele in italiano come Elogio della critica), salda in maniera decisa l’atto critico con il nostro vivere, ribadendo che, comunque si voglia leggere la nuova frontiera di questo pensiero critico espanso e sregolato, la sua funzione sociale non può essere messa in discussione. Se, come scriveva Walter Benjamin, «recensire è un’arte sociale»,[3] l’esercizio critico beneficia e soffre delle forme di partecipazione della società al suo discorso, partecipazione un tempo regolata da istituzioni e figure di critici che potevano contare sulla certezza e sulla costanza di un certo tipo di lettori ed oggi invece indebolita dalla «frantumazione degli spazi e dei livelli»[4] che, a dispetto della moltiplicazione degli atti critici, riducono la permeabilità e la pervasività del pensiero critico.

Com’è noto, il termine stesso «critica» reca in sé il concetto e in qualche modo già la prefigurazione della crisi,[5] sia nel senso etimologico e produttivo del termine, cioè del giudicare separando in modo chiaro le cose, che nel senso di una condanna alla costante messa in discussione del suo discorso e del suo giudizio. Ogni stagione critica ha conosciuto e per certi versi si è costruita la propria crisi – fosse essa di carattere politico, sociale, o teorico –, ma mai come di questi tempi si avverte, da un lato, una certa nostalgia perfino per la critica meno aperta, ma pur sempre capace di strutturare e difendere un discorso, dall’altro lato, un interesse per le esperienze critiche minori o, con un termine quanto mai scivoloso, «popolari» che schiudono, meglio di altre, le porte di un’indagine sociale della cultura italiana a lungo trascurata.

Il campo degli studi cinematografici non fa eccezione, anzi forse più di altri permette di avvertire bene la distanza tra l’attuale condizione critica e il tempo passato do un’effettiva possibilità di poter contare qualcosa a livello sociale, politico ed economico che aveva caratterizzato molte battaglie tra i primi anni Cinquanta e il decennio Settanta del secolo scorso. Ricordare che c’è stato un periodo in cui, al di là del suo peso economico, il cinema rappresentava uno dei temi di discussione in assoluto più coinvolgenti e aggreganti per il popolo italiano, aiuta a inquadrare meglio il potere e le responsabilità delle critica cinematografica, ma anche il senso di un’occasione per molti versi mancata. Nel febbraio del 1951, la famosa rubrica di «Epoca» Italia domanda, registrava come i quesiti che pervenivano in redazione dai lettori vedessero la religione come argomento più trattato, ma il cinema al secondo posto, davanti alla politica e ai temi medico-igienici. Molto spesso le domande che giungevano a «Epoca» erano di natura critica, desiderose di sapere come si giudica un film o di capire la relazione tra le produzioni cinematografiche e la vita del Paese, entro un sistema di interrelazioni socio-culturali dato quasi per scontato ed oggi invece ricostruito pazientemente dagli studiosi che si dedicano alla storia della critica cinematografica e alle forme della sua pervasività. Qualche decennio dopo, il critico francese Louis Seguin avrebbe sostenuto, con immagine piuttosto incisiva, che le scritture critiche, dalla nota all’articolo, fino all’ambizione del saggio, negoziavano senza sosta l’approssimazione dell’eco e le pretese di esattezza dello studio, distribuendo la loro azione e la loro influenza dentro una «gerarchia di mercato» che includeva, al pari dei critici, gli autori, i finanziatori, i distributori e gli esercenti.[6] Proprio questa funzione ad un tempo errante e incisiva delle forme critiche è ciò che consente di comprendere il valore del discorso prodotto dal cinema a livello sociale e culturale. Per quanto la varietà e la complessità discorsiva delle forme critiche cinematografiche rendano estremamente difficile organizzare studi in grado di restituire in modo esauriente l’incisività e il reale impatto che il cinema come istituzione ha avuto sul nostro Paese nel corso del Novecento, oggi è possibile offrire una mappatura delle principali tendenze, dei maggiori temi critici (e del loro muoversi tra luoghi e pubblici molto diversi), che si possa giovare dei più avanzati strumenti storici e culturologici.[7]

Negli ultimi anni gli studi sulla critica cinematografica italiana hanno registrato un’impennata numericamente e qualitativamente interessante, che ha visto soprattutto gli studiosi di generazione più giovane tornare sui processi di istituzionalizzazione del sistema e del pensiero critico cinematografico, sui punti di forza e di debolezza dei grandi magisteri critici del dopoguerra, sulla pervasività del discorso sul cinema fuori dai periodici di settore, sulla ricostruzione dei diversi bacini di lettura e contatto con i film, sugli scambi tra il mondo della produzione e l’orizzonte della critica.[8] Insomma, mentre il processo di mutazione tecnologica e sociale della critica cinematografica e delle forme della cinefilia accelera sempre più, portando con sé evidenti contraddizioni culturali ma non poche nuove risorse per l’analisi e lo studio del film,[9] lo sguardo si rivolge agli anni d’oro del dibattito per comprendere, da quella prospettiva, quale società la critica ha non soltanto analizzato, ma in qualche misura contribuito a creare.

Nel corso del Novecento, soprattutto a partire dagli anni Trenta e per lo meno fino agli anni Settanta, la critica cinematografica ha avuto l’enorme responsabilità di mediare la socialità della più trasversale delle arti, contribuendo a fissarne la forza politica, economica e culturale, lungo l’asse che dal fenomeno di costume muoveva verso l’annessione definitiva del cinema ai fatti di cultura del Paese. Giacomo Debenedetti, già alla metà degli anni Trenta, osservava che tra le grandi occasioni da non farsi sfuggire per la critica cinematografica ci fosse quella relativa all’avvicinamento tra gli intellettuali e le masse e che addirittura la vita moderna potesse, grazie alla carica inclusiva del cinema, giovarsi di una circolazione di idee e «stati d’animo» tra il popolo e le élites che non si era mai di fatto potuta realizzare in tempi in cui la condivisione di prodotti culturali e relativi immaginari era assai più complicata e tutto sommato impermeabile. Il cinema, scrive Debenedetti, «è una porta aperta in permanenza, che sopprime la clausura degli intellettuali, che rende impossibile – a meno di una bizzarra ed anacronistica cocciutaggine – la torre d’avorio. Il pedante perde sempre più terreno. Rimane ancora l’altro pericolo: l’idolatria del dernier cri[10] Rileggere oggi ciò che Debenedetti scriveva ottantacinque anni fa ci mette di fronte al grande potenziale di una critica cinematografica sempre più strutturata e, nel contempo, all’occasione persa di porte che non sono rimaste aperte in permanenza, ad una clausura intellettuale che è stata, seppur in nuove forme, ricostituita, a pedanterie favorite dai dogmi dell’ideologia o da un confronto non sempre sano – su entrambi i fronti – con l’estetica e con la teoria del film.[11] L’ambizioso progetto di una democrazia culturale di massa che il cinema avrebbe potuto aiutare a costruire e che la critica avrebbe potuto provare a mediare era destinato a perdersi proprio man mano che la condizione critica si rafforzava, che il pubblico dei lettori si distribuiva tra testate di diverso livello, man mano che i critici cinematografici acquisivano autorevolezza e potere e che alcuni di loro si muovevano tra periodici di diversa natura e vocazione.[12] Paradossalmente, negli anni che qui vengono presi in considerazione e che sono anni di innegabile espansione e sofisticazione del dibattito critico, si gettano le basi per la frantumazione e l’impermeabilità di cui parla Giulio Ferroni: i processi di accentramento del pensiero critico sia a livello editoriale che addirittura personalistico e il graduale indebolimento delle specificità geografiche delle iniziative critiche condurranno alla sostanziale impossibilità di un reale rinnovamento e porteranno a forme, spesso oppositive, di chiusura che contribuiranno a recidere il legame con una parte estremamente vitale della produzione cinematografica e con le comunità di pubblico ad essa legate, fino a giungere alla graduale perdita di autorevolezza dell’istituzione critica e alla sua effettiva perdita di presa sulla società.

 

Lettori

 

Per comprendere i processi che hanno condotto a questa perdita, occorrerebbe sviluppare un discorso critico e analitico, obiettivamente molto più complesso, anche attorno alla figura del lettore. Se, come si è detto, recentemente gli studi sull’istituzionalizzazione della critica cinematografica si sono rafforzati, ci si è interrogati ancora poco su quello che possiamo definire il controcampo del critico, ovvero il lettore. Tra chi scrive e chi legge c’è – o dovrebbe esserci – una relazione stretta, intima. Lo spettatore è da tempo al centro di studi storici e teorici[13], ma il lettore di cinema non è sempre identificabile con lo spettatore, almeno non in tutte le fasi della storia della critica e della storia del cinema in generale. Se, già a partire dagli anni Trenta e di più dal dopoguerra, la pervasività del cinema è stata tale da invadere ogni campo d’interesse della società (si andava al cinema, si leggeva di cinema, si parlava di cinema e si fantasticava di essere parte di quel mondo), via via le abitudini sono cambiate per ragioni ampiamente indagate[14] e l’arrivo della televisione nelle case degli italiani ha avuto, come sappiamo, un ruolo cruciale. E lo dimostra soprattutto la lenta e inesorabile contrazione delle riviste specializzate sia in quanto a titoli che in quanto a copie vendute. Nella contemporaneità la rete gioca tutta un’altra partita. Va ridiscusso completamente il ruolo del lettore, che dovremmo oggi chiamare con un altro termine, fruitore forse. Una video recensione, un video essay, un podcast non li leggiamo, li guardiamo e li ascoltiamo. Inoltre possiamo servirci di molti luoghi virtuali in cui entrare in contatto diretto con chi ha scritto o realizzato un contributo audiovisivo. La domanda dunque è: a chi si rivolge la critica cinematografica nel momento in cui vive quel processo di crescita e assestamento della sua autorevolezza di cui si parla diffusamente in questo volume e al contempo inizia a mancare quell’obiettivo, che avrebbe dovuto essere primario, di gettare le basi per una costruzione più solida del rapporto coi suoi lettori?

La gran parte dei periodici ha vissuto con intensità il rapporto epistolare con i lettori attraverso le rubriche a loro dedicate (diverse vengono analizzate in questo volume).[15] È quello, certo, il punto di partenza da cui iniziare a costruire una mappatura del lettore e della lettrice, per quanto non siano solo le rubriche gli strumenti utili a questo obiettivo. Negli archivi pubblici e nelle collezioni private, per esempio, recentemente sono stati oggetto di studio gli ephemera: diari, album di ritagli, articoli e recensioni, agendine quaderni appartenuti a spettatrici e cinefile nel periodo che va dagli anni Venti e gli anni Quaranta[16]. Gli ephemera vanno «interpretati come spazi di inscrizione e negoziazione della soggettività (…), in relazione alle narrazioni e alle immagini promulgate dal cinema e dal sistema dei media; e come luoghi di metabolizzazione e rielaborazione dei flussi discorsivi (connessi al cinema) dallo spazio mediale pubblico allo spazio del privato e viceversa. Sono pratiche, dinamiche culturali e simboliche, (…) formidabili fonti e tramiti per spaccati inediti di storia sociale e culturale.»[17] Si tratta di storie chiaramente filtrate ora dalla linea editoriale della rivista, ora da esperienze intime, ma proprio per questo capaci di far emergere dal basso ruoli e dinamiche redazionali, posizioni politiche, forme discorsive che non sono state, per molto tempo, adeguatamente considerate nei processi di ricostruzione delle funzione critiche.

L’obiettivo principale di questo volume è quello di fissare, da una parte, lo stato degli studi sul periodo di forza del discorso critico, dall’altra – nondimeno – è quello di rilanciare le aree di cantiere più significative per la ricerca a venire. Porre l’attenzione sui lettori cinefili[18], per esempio, significa anche cercare di comprendere nel profondo le modalità con cui il dibattito critico ha saputo (non sempre) penetrare all’interno della società culturale. Ma si tratta, appunto, di un cantiere appena aperto, che ci auguriamo, come vuole la ricerca, possa continuare a trovare stimoli per avanzare e strumenti adatti alle analisi che richiede.

 

 

[1] A.O. Scott, Elogio della critica, Il Saggiatore, Milano, 2017, p. 228.

[2] Scott parla di «un’attività meno specialistica, qualcosa che assomiglia più al gioco delle carte o alla cucina o ancora all’andare in bicicletta, insomma che tutti possono apprendere.» Ivi, p. 11.

[3] W. Benjamin, Novità sui fiori, ora in Id., Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Torino, Einaudi, 2012, p. 221.

[4] G. Ferroni, La solitudine del critico. Leggere, riflettere, resistere, Roma, Salerno Editrice, 2019, p. 8.

[5] Al riguardo, seppur da contestualizzare in un momento del tutto diverso da quello attuale, si veda P. de Man, Critica e crisi, in Id., Cecità e visione. Linguaggio letterario e critica contemporanea, Liguori, Napoli, 1975, pp. 5-25. Si veda, sempre da ambito letterario, anche C. Segre, Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?, Torino, Einaudi, 1993.

[6] L. Seguin, Une critique dispersée, Paris, Union Générale d’Edition, 1976, p. 7.

[7] Da un punto di vista metodologico, a metà tra ricostruzione storica e ritorno a un significativo numero di fonti, resta ancora oggi un riferimento importante il volume La critique du cinéma en France, sous la direction de M. Ciment et J. Zimmer, Paris, Ramsay, 1997.

[8] Una buona panoramica di questi studi è contenuta nei contributi presenti in M. Guerra, S. Martin (a cura di), Atti critici in luoghi pubblici. Scrivere di cinema, tv e media dal dopoguerra al web, Parma, Diabasis, 2019.

[9] Si veda R. Menarini, Il discorso e lo sguardo. Forme della critica e pratiche della cinefilia, Parma, Diabasis, 2018.

[10] G. Debenedetti, Il cinema e gli intellettuali, in «Intercine», 8-9, agosto-settembre 1935; ora anche in G. Debenedetti, Cinema: il destino di raccontare, a cura di O. Caldiron, Milano-Roma, La Nave di Teseo-Centro Sperimentale di Cinematografia, 2018, p. 111.

[11] Da prospettive diverse, le forme del confronto sono evidenti in libri che, come si sarebbe detto al tempo, erano pensati per fare il punto. In particolare rimando a G. Aristarco, Il dissolvimento della ragione. Discorso sul cinema, Feltrinelli, Milano, 1965 e a Aa.Vv., Teorie e prassi del cinema in Italia 1950-1970, Milano, Mazzotta, 1972.

[12] Rimandiamo, per alcune riflessioni in merito, a G. Canova, Il neorealismo e la mancata democrazia culturale di massa, in M. Guerra (a cura di), Invenzioni dal vero. Discorsi sul neorealismo, Parma, Diabasis, 2015, pp. 153-159 e G. Canova, Ignorantocrazia. Perché in Italia non esiste la democrazia culturale, Milano, Bompiani, 2019.

[13] Pensiamo solo per fare alcuni degli esempi più importanti, ai numerosi studi di Mariagrazia Fanchi sull’argomento: M. Fanchi, Spettatore, Milano, Il Castoro, 2005, M. Fanchi, E. Mosconi, Spettatori. Forme di consumo e pubblici del cinema in Italia (1930-1960). Si vedano anche: D. Forgacs, S. Gundle, Cultura di massa e società italiana (1936-1954), Il Mulino, 2007. Da segnalare anche il progetto di ricerca “Italian Cinema Audience. Un progetto di ricerca collaborativo sull’andare al cinema in Italia negli anni ‘50” http://italiancinemaaudiences.org/italiano/.

[14] Si veda fra i molti studi in questo ambito, L. Gorgolini, L’Italia in movimento: Storia sociale degli anni Cinquanta, Mondadori, Milano 2013; D.W. Elwood, L’impatto del Piano Marshall sull’Italia, l’impatto dell’Italia sul piano Marshall, in G. P. Brunetta (a cura di), Identità italiana e identità europea nel cinema italiano dal 1945 al miracolo economico, Torino, Ed. Fondazione Giovanni Agnelli, 1996, pp. 87-110; M. Livolsi Chi va al cinema? in M. Livolsi (a cura di), Schermi e ombre. Gli italiani e il cinema del dopoguerra, La nuova Italia, Scandicci (Firenze), 1988, pp. 95-154.

[15] Su questo tema rimandiamo alle proposte contenute in M. Guerra, S. Martin “La cultura della lettera. La corrispondenza come forma pratica di critica cinematografica”, numero speciale della rivista Cinergie. Il cinema e le altre arti, n. 15, 16 luglio 2019.

[16] Si veda, per esempio, un recente esito di queste ricerche: M. Comand, A. Mariani (a cura di) Ephemera. Scrapbook, fan mail e diari delle spettatrici nell’Italia del regime, Venezia, Marisilio, 2020.

[17] Ivi, p. 10 (nota dei curatori).

[18] Un caso specifico di studio che affonda le radici su questo tema è M. Comand e S. Martin (a cura di) Nereo Battello. Memorie di un cinefilo, Gorizia, Transmedia, 2016.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *