di Fabio Magro

 

[Pubblichiamo un estratto dal volume di Fabio Magro Poesie italiane del novecento. Nove esercizi di lettura, uscito nelle scorse settimane per i tipi di Carocci]

 

 

Chi t’ha veduta nel mare ti dice

Sirena.

 

Trionfatrice di gare allo schermo

della mia vita umiliata appari

dispari.

A te mi lega un filo, tenue cosa

infrangibile, mentre tu sorridi,

e passi avanti, e non mi vedi. Intorno

ti vanno amiche numerose, amici

giovani come te; fate gran chiasso

tra voi nel bar che vi raccoglie. E un giorno

un’ombra mesta ti scendeva ­– oh, un attimo! –

dalle ciglia, materna ombra che gli angoli

t’incurvò della bella bocca altera,

 

che sposò la tua aurora alla mia sera.

 

La Campionessa chiude Ultime cose, seconda sezione del terzo volume del Canzoniere. Si tratta di un nucleo di 43 liriche che non vide mai la luce in forma autonoma.[1] Le indicazioni cronologiche che seguono il titolo della silloge, 1935-1943, segnalano che la composizione di queste poesie è stata lunga e non facile; certo per una complicata condizione personale,[2] ma ancor più per la pressione della situazione sociale e politica che aveva visto l’introduzione delle leggi razziali nel 1938 e il conseguente peggioramento della condizione di vita degli ebrei.[3]

 

Da quanto afferma Saba in Storia e cronistoria del Canzoniere, Campionessa di nuoto è tra le ultime poesie ad essere state scritte in quel periodo: «fu scritta a Trieste nei primi mesi del ’43».[4] Nella presentazione della raccolta, Saba-Carimandrei punta a sottolineare, rispetto al libro precedente, ossia Parole (1933-1934), la continuità («Quel lavoro di illimpidimento e di scavo, quel lavoro di sintesi […] continua e s’intensifica») e insieme la discontinuità («Eppure una poesia di Ultime cose è diversa da una di Parole») di queste nuove liriche.[5] Nello specifico, sul versante della diversità, l’autore di Storia e cronistoria coglie in queste nuove poesie «come un riaccendersi di passioni sopite; per il loro accento passionale alcune lo riportano alle più emotive della giovanezza. Ma quelle passioni sono quasi sempre dei ricordi, di una vivezza a volte estrema, ma sempre ricordi» (Saba 2001, p. 304).

 

La sostanziale unità stilistica e tematica dell’ultimo Saba – al di là di qualche inevitabile sfumatura di tono – è stata ben messa in luce dalla critica. Si veda ad esempio quanto scrive Girardi (2019, p. 6):

 

in Ultime cose si trovano un po’ meno pathos, meno risonanze emotive, e più dettagli concreti, più fatti o cose, appunto. Per il resto, il loro assetto è molto simile a quello della raccolta precedente: metrica di endecasillabi alternati a misure minori, spesso trisillabiche; articolazione del periodo in prevalenza paratattica e a volte asindetica; frequenti enunciati nominali e non di rado abbinati tra loro.

 

La struttura del componimento ricalca quella tipica in particolare di Trieste e una donna, ma non solo, su tre strofe distinte sia da un punto di vista della misura (la seconda è la più lunga, la più corta è in genere la terza) sia da un punto di vista diegetico (la prima enuncia il tema, la seconda lo sviluppa narrativamente, la terza funge da epilogo con tratti anche sentenziosi).[6] La forma metrica comunque funge già da dispositivo argomentativo: «le tre strofe apparivano, per molti aspetti, una proiezione più o meno diretta della forma del contenuto. Le loro dimensioni e le loro misure di verso corrispondevano, infatti, alle differenti dimensioni e conformazioni delle unità narrative» (Girardi 1987, p. 44). Con le parole di Contini (1934, p. 29) si può in effetti chiosare «metrica […] di contenuto, metrica di fatti».

 

La ripresa in Ultime cose di questa struttura così felice e personale non è priva di conseguenze sul piano formale dal momento che obbedisce allo stesso processo di sintesi e concisione che caratterizza questa fase poetica dell’autore triestino (in rapporto alle altre fasi certo, ma anche in assoluto). La prima strofa si riduce a un endecasillabo seguito da un trisillabo, ma in dialogo stretto con il titolo imposta il tema; la seconda si distende per 12 versi in cui, grazie a un parlato mentale molto lineare (almeno per la media di Saba), quel tema è sviluppato attraverso una scena concreta che contestualizza il rapporto tra il soggetto e il tu; la terza, ridotta a un solo verso, chiude anzi suggella con grande efficacia, anche per mezzo della rima baciata, il senso e il gusto amaro (per la donna) di quel rapporto. La formula tripartita è dunque reinterpretata alla luce della nuova sensibilità metrica dell’ultimo Saba.

 

Il legame tra questi due tempi della scrittura poetica sabiana è in ogni caso confermato anche da un’altra poesia, Dall’erta, composta anch’essa da tre strofe, la prima di quattro, la seconda di sei e la terza di due versi: la riduzione del modello antico è presente anche in questo caso, soprattutto per la ridotta estensione della parte narrativa e per la ancora più vaga tessitura rimica, ma qui è soprattutto il tema che riprende in modo scoperto la poesia di un tempo, Trieste nella fattispecie, finendo per configurare il testo come una sorta di rilettura di quel componimento specifico più che una nuova interpretazione di un’originale formula metrica, o metrico-discorsiva:[7]

 

Dall’era solitaria che nel mare

precipita – che verde oggi e schiumoso

percuote obliquo la città – si vede

il bianco panorama di Trieste.

Tu già le conoscevi – dici – queste

mie strade, ove s’incontra, al più, una donna

che la lunga salita ansia, un fanciullo

che se Bòrea t’investe, mette l’ali

a ogni cosa, per te vola, Poi torna

a se stesso, ti passa accanto altero.

 

Tutto un mondo che amavo, al quale m’ero

dato, che per te solo oggi rivive.

 

Continuità formale e tematica, dunque, e insieme discontinuità, che si può cogliere in primo luogo nella diversa intonazione: se Trieste (e le poesie sue sorelle) risente forse di un eccesso dimostrativo, qui il registro si abbassa e accorda alla presenza dell’interlocutore, non una pura funzione del discorso bensì presenza concreta, sia pure silente, nella mente del poeta. Proprio come accade, ma ci torneremo, nel testo in esame.[8]

 

Qualcosa ancora si dovrà dire in merito al verso isolato finale in rima con il precedente: una soluzione non isolata, che ancora una volta risale alle poesie di tre strofe di Trieste e una donna (si veda L’autunno, La gatta, Nuovi versi alla Lina. 8 ecc.)[9], ma che è presente anche in Quando si apriva il velario in Ultime cose, dove si stacca da un’unica strofa di nove versi con evidente funzione di commento e congedo (situazione analoga in Anche un fiato di vento e in Una notte, dove però il verso finale non rima con il precedente).[10]

 

Per quanto riguarda la prosodia va innanzitutto considerata la tipica dialettica tra endecasillabo e trisillabo che compare per la prima volta, ma in un contesto prosodico molto più vario, in Casa e campagna (cfr. A mia moglie e poi A mia figlia), prima di essere utilizzato con maggior frequenza proprio in Trieste e una donna, sia pure in alternanza con altri imparisillabi inferiori all’endecasillabo (quinari e soprattutto settenari, ma anche novenari). Da lì in poi diventa un tratto caratteristico della versificazione sabiana, utilizzato con varie finalità: come ad esempio per introdurre una variazione melodica o per sottolineare un elemento lessicale e tematico particolare ecc.: nel componimento in esame nel primo caso, al v. 2, sono presenti entrambe queste motivazioni (isolare e dunque mettere in primo piano l’appellativo, come se alla fine dell’endecasillabo ci fossero i due punti; e assecondare e compiere la curva intonativa), mentre nel secondo, al v. 5, si può aggiungere forse un valore figurativo del trisillabo isolato che gioca con il corrispettivo verbo in uscita al verso precedente.

 

Rispetto alla prima stagione del Canzoniere (su cui si veda Zambelli 2008, pp. 23-33), nella sua ultima fase creativa Saba accentua l’uso di un endecasillabo più lento e meditato, su quattro ictus (in Ultime cose ad esempio sono quasi il doppio di quelli con tre accenti). Si conferma invece la tendenza alla buona percentuale sia degli endecasillabi “cantabili” di 4a7a sia di quelli con contraccento, soprattutto di 6a7a. Una situazione che anche il testo in esame ribadisce, rivelandosi dunque in media con l’intera raccolta: due versi con profilo “dattilico”, tra cui quello di apertura, molto musicale anche per il sostegno allitterativo, e due versi anche con contraccento di 6a7a: al v. 10 l’accento ribattuto salda due movimenti sintattici distinti, mentre al v. 13 la giuntura con sinalefe tra aggettivo e sostantivo, con aggettivo anteposto, è tra le più diffuse nella tradizione lirica. In un componimento in cui l’ordine delle parole non conosce perturbamenti di rilievo (eccetto l’attacco della seconda strofa e il finale),[11] si noti la ripresa chiastica e allitterante del sintagma centrale del testo («ombra mesta […] materna ombra»): il filo che lega il soggetto alla campionessa-sirena è così iconicamente e fonicamente inscritto nel testo.

 

Il rapporto metro-sintassi è, per quanto riguarda la seconda strofa, alquanto movimentato, dal momento che i quattro periodi di cui è composta non si accordano al metro; tuttavia il verso appoggia senza particolari fratture lo svolgimento del discorso (le inarcature sono per lo più cataforiche). Se si aggiunge che, come si diceva poc’anzi, l’ordine delle parole è in linea di massima quello del discorso normale (solo in un paio di casi il filo un po’ si ingarbuglia), si può ben cogliere l’apparente mistero di questo endecasillabo, che c’è, è sempre canonico, ma quasi non si sente.

 

Per restare sul piano sintattico si può notare l’uso della congiunzione e, che assume negli snodi centrali del discorso una funzione avversativa, modulando nel primo caso con grande eleganza il polisindeto («mentre tu sorridi, / e passi avanti, e non mi vedi», vv. 7-8), staccando nel secondo ma insieme anche legando l’ultimo snodo del discorso («E un giorno», v. 11 sgg.): anche in questo caso – e grazie alla dialettica che si instaura con la punteggiatura – continuità e discontinuità, lontananza e prossimità, insomma elementi di accordo e disaccordo tra il poeta e la campionessa assumono un’evidenza formale. Lo conferma del resto anche l’ossimoro che descrive il legame tra i due come un filo tenue e infrangibile.

 

Si tratta di una dialettica nel segno della duplicità che regge l’intera struttura argomentativa: a partire dall’introduzione del tema che identifica la protagonista come Sirena.[12] L’appellativo infatti, utilizzato in virtù delle doti natatorie e delle imprese sportive, introduce anche il tema dell’ambiguità della ragazza alludendo alle arti seduttorie e ammalianti caratteristiche essenziali del personaggio mitologico. L’inizio della seconda strofa sottolinea invece il tratto dell’intermittenza e discontinuità, che dal piano figurativo e concreto (la nuotatrice tra le onde) si sposta su un piano metaforico a esplicitare i rapporti tra i due. Ora quel legame saldo ma intermittente può calarsi nel contesto di una scena concreta, una scena di strada in cui la protagonista è immersa in un altro suo congeniale elemento, sotto il segno della giovinezza e della vitalità. Gli attributi che prima erano impliciti ora diventano espliciti: l’incedere della donna che sorride e passa oltre esprime un’ostentata consapevolezza di sé e insieme anticipa il tratto di alterigia che sarà enunciato in chiusa (o meglio se ne individua la continuità). L’indifferenza e superiorità non è tuttavia un fatto personale, poiché è ribadita dal ruolo centrale che la campionessa sembra avere nella sua cerchia di amici («Intorno / ti vanno»). Nel momento comunque di massima distanza tra i due, fisica e generazionale oltre che psicologica, ecco che l’io recupera il filo di quel legame, la sua natura «infrangibile»: non si tratta di un legame esteriore, né di un legame concreto, ma ha a che fare piuttosto con la saggezza del poeta che «un giorno» ha visto e letto sul volto della protagonista, al di là della presente stagione di gloria, il presagio di un destino di fatica e sofferenza, che in una parola emblematica ha (e avrà) a che fare con l’ombra della maternità. Nel presente si insinua dunque un tempo passato (un imperfetto prima e un doppio remoto poi) che aggancia la protagonista e la porta in un futuro in cui tutti i tempi (aurora e sera) si conciliano, e si pareggiano le vittorie e le umiliazioni.[13]

 

È necessario naturalmente soffermarsi sul contenuto di quella conoscenza, che ci riconduce a uno dei temi più spinosi e profondi della personalità e dell’opera di Saba, ossia il lato oscuro della maternità («mia madre / tutti sentiva della vita i pesi» dirà il poeta nel terzo sonetto dell’Autobiografia). Va considerato innanzitutto, come sottolinea Lavagetto (1989, pp. 135-36), che

 

la figura della madre non si presenta come un blocco monolitico: è resistente, dura, non omogenea; ha una storia, e nel corso di questa storia assume caratteri e volti diversi. Alla fine si scinde, si sdoppia in due figure autonome.

 

Nel Canzoniere in ogni caso molti sono i luoghi in cui sostantivo e aggettivo (madre, materno o materna) rintoccando in modo cupo, rinviano alla figura negativa e dolorosa della madre naturale. Dal «buio alvo materno», sintagma presente sia in La vetrina di Cuor morituro («Nel buio, / tornar nel buio dell’alvo materno, / nel duro sonno, onde più nulla smuove» vv. 25-27) sia nel successivo poemetto L’uomo («A lui la lunga giornata finiva, / di cose / piena ora liete ed ora paurose; / ritornava soffrendo al buio eterno, / ei che dal buio dell’alvo materno / veniva») che nel nostro testo pare riflettersi nell’ombra delle ciglia, all’accoppiamento di materno e austero/-a che si trova sia nei Nuovi versi alla luna sia in Torrente, due poesie che fanno parte, ancora una volta, di Trieste e una donna.[14] Il passaggio, in rima si potrebbe dire e cioè sul filo del significante, dalla giovane altera alla madre austera è in perfetta continuità di senso. All’interno di questo complicato percorso (portato benissimo alla luce proprio da Lavagetto 1989, pp. 135-49) che dall’elaborazione della propria esperienza biografica trova spunto per depositarsi su concetti e situazioni generali c’è un testo che forse più di tutti tiene insieme narcisistica giovinezza e presagio di maternità, e si trova nella serie delle Fanciulle (1925). Il quarto ritratto, o la quarta statuetta, chiama in causa Chiaretta,[15] con le parole di Saba stesso «dopo Lina, la figura femminile più rilevante del Canzoniere» (Saba 2001, p. 182):

 

Questa che ancor se stessa ama su tutto

ha bei capelli d’oro,

e le riveste un oro

impalpabile il corpo come un frutto.

 

È bella quanto può così acerbetta

esser bella una fanciulla.

Non è fatta di nulla

la sua grazia? Non è la mia Chiaretta?

 

Vedi come al sapore della lode

le s’imporpora il viso.

Io le dico «Narciso».

Si specchia nell’ingiuria ella, e ne gode.

 

Fortunata creatura! Ma gli anni

mutano affetti e voglie,

e l’aerea una moglie

sarà, la madre dura negli affanni.

 

In un certo senso si può pensare alla Campionessa di nuoto come a una Chiaretta uscita dalla fanciullezza: la giovane protagonista de L’amorosa spina, di varie Canzonette e di altro è ora consapevole della propria forza e bellezza,[16] a danno di quanti, giovani o meno giovani, ne subiscono il fascino. Ma il futuro incombe sulla nuotatrice come sulla bella commessa, come ci ricorda Saba-Carimandrei nel suo commento:

 

Saba racconta che mai gli mancò tanto il cuore come quando ricopiò, per l’edizione definitiva del Canzoniere (portandovi anche, o cercando di portarvi, qualche variante) questo gruppo di poesie [le Fanciulle]. È che egli sapeva come le leggiadre creature, che erano, al tempo in cui le ritrasse, acerbe adolescenti, fossero poi finite. Era il 1944: vent’anni erano passati d’allora. Due si erano uccise per amore; una fu catturata dai tedeschi e morì in una camera a gas; altre dovevano lottare colla vita e le crescenti difficoltà della vita; le più fortunate erano diventate delle madri, e vivevano per allevare i loro figli. Questo era del resto l’augurio che la sua “saggezza” rivolgeva ad una del piccolo coro, alla “narcisa” Chiaretta, che nella sua giovanile innocenza, si specchiava in quell’attributo, e ne arrossiva di gioia.

 

Il “saggio augurio” di Saba andò a buon fine nel caso di Chiaretta-Giulietta che divenne moglie – di Antonio Doplicher – e poi madre. Per quanto riguarda invece la protagonista del nostro testo, l’ombra della maternità indovinata per un istante dal poeta rimane come un sigillo a sancire, al di là delle opposte lontananze, il legame indissolubile tra i due,[17] l’appartenenza in un qualche tempo della vita – un futuro che tiene insieme passato e presente – al medesimo destino di dolore.

 

E così ancora una volta, come nel mito degli Argonauti, il poeta, grazie alla musica della sua poesia ma anche alla sua maggiore conoscenza, ha avuto ragione del canto melodioso della sirena.

Non resta a questo punto che allargare un po’ il campo di osservazione. La Campionessa di nuoto di Saba può con ragione entrare a far parte di una galleria di personaggi che sembra avere un certo successo nella prima metà del Novecento. La giovinezza, la positiva fisicità e l’attitudine sportiva, l’atteggiamento di indifferenza o superiorità con cui si relaziona al soggetto che la ritrae, e la conseguente lontananza che l’io avverte e subisce nei confronti del proprio oggetto del desiderio sono tratti che accomunano questa ragazza alla protagonista ad esempio di Invernale di Gozzano e di Falsetto di Montale («e, sullo sfondo, anche un suo archetipo, l’Adolescente di Cardarelli»).[18] Va detto comunque che il contatto più stretto sembra essere proprio con Montale, sia per l’analogo sfondo marino, sia per la postura della ragazza che non interagisce nel testo con il poeta, sia forse anche per il linguaggio, neoclassico “in falsetto”, scelto dal poeta degli Ossi per questo componimento. In ogni caso la nostra campionessa di nuoto sembra avere tutti gli attributi di Esterina, ma Saba risolve in modo completamente diverso il comune spunto tematico. Montale guarda anche divertito alla sua figurina, ben sapendo di non poterne ricavare altro che un simbolo, un emblema, mentre Saba ne fa subito – subito dopo averla con parole altrui nominata – una questione personale. Pur condividendo inizialmente l’intonazione leggera del testo montaliano egli inserisce la sua Sirena in una scena di bar molto realistica, sia pure tratteggiata con pochissimi tocchi, così che quel personaggio diventa subito molto concreto, mentre Esterina rimane lontana e soltanto vagheggiata. Se Montale inoltre contempla da lontano il suo emblema accontentandosi, per così dire, di misurare una distanza che sa incolmabile, per Saba quella Sirena è un enigma da risolvere, di cui avere ragione, a cui carpire un segreto che l’avvicini. Così Saba delinea in pochi versi una storia (queste liriche, contrariamente a quanto si pensa sono tutt’altro che prive di elementi narrativi), inserisce cioè la sua campionessa nel corso del tempo e ne traccia – ed è «oh, un attimo!» – un destino. Per il soggetto che la descrive invece, carattere, funzione, e significato della vicenda di Esterina si esauriscono nel preciso momento in cui la ragazza si tuffa nel mare. Potremmo dire da questo punto di vista che è lei la vera Sirena, mentre gli attributi divini della fanciulla di Saba non sono che il pallido riflesso di una stagione destinata presto a tramontare: ed è l’aurora che si fa sera, chiudendo il cerchio.

 

Quel che importa soprattutto è la resa di quello spunto tematico, la perfetta acclimatazione nel sistema stilistico, denso e spoglio nello stesso tempo, dell’ultimo Saba, che non cede alla tentazione di “gareggiare” con i suoi modelli, ai cui sistemi formali, di Montale, o anche di Cardarelli, in particolare nelle poesie in questione, non era certo insensibile.

 

Note

[1] Nel 1943 Saba si era accordato con Einaudi per la pubblicazione della silloge (e anche per un’altra edizione del Canzoniere). A quanto riferisce in Storia e cronistoria (cfr. Saba 2001, p. 305) la raccoltina era già stampata quando venne stipulato l’armistizio e ci fu l’invasione tedesca. Saba fu costretto in fretta e furia a far bloccare l’uscita del libro per il pericolo di ritorsioni (dalla promulgazione delle leggi razziali era fatto divieto agli ebrei di pubblicare propri scritti). Una versione ridotta di sole quindici poesie, da un manoscritto ancora incompleto, uscì comunque all’insaputa di Saba in Svizzera nel 1944, con prefazione di Contini (riportata in Bonura 2019, tomo ii, pp. 509-10).

[2] Si ricordi quanto Saba scriveva alla figlia il 22 novembre del 1940: «Devi figurarti un uomo che è giunto al colmo della stanchezza fisica, che ha i piedi insanguinati, le reni che gli fanno male, il cuore che gli si stringe, e che deve camminare, camminare, senza credere per lui alla meta».

[3] Carrai, 2017, p. 181: «La nuova sezione [Ultime cose], inizialmente concepita come quella che avrebbe dovuto concludere il libro [la nuova edizione del Canzoniere], si trascinò e andò in lungo come nessun’altra. Il poeta, ebreo per parte di madre e marito e padre a sua volta di due ebree, si trovò improvvisamente a essere in pericolo, tormentato prima dalla paura dell’emarginazione, poi della deportazione per lui e per i suoi cari. Contemporaneamente egli andò incontro al rarefarsi dell’ispirazione poetica anche per effetto della nuova attrazione provata nei confronti della prosa col sopraggiungere del progetto di Scorciatoie».

[4] Si veda Saba 1994, p. 1062: «tra gennaio e febbraio Saba compone le due poesie conclusive di Ultime cose, Porto e Campionessa di nuoto (“come legate da un filo interiore, che probabilmente io sono il solo ad avvertire”)».

[5] L’oscillazione tra due opposti, del resto come noto tipica di Saba, si coglie anche più oltre: «La sua ispirazione – gli intimi motivi cioè che lo costringevano a scrivere una poesia – si intensificava da una parte e rarefaceva dall’altra» (Saba 2001, p. 304).

[6] Su cui si veda Girardi 1987, p. 37-48, e anche l’analisi de Il poeta e la sua città in Mengaldo 2008, pp. 177-80 (in particolare p. 178).

[7] La presenza di Trieste e una donna in questa nuova raccolta è confermata anche dall’epigrafe di Porto che riprende alcuni versi del primo testo dei Nuovi versi alla Lina: «… A scordarla ancor m’aggiro io per il porto, come un levantino». L’indicazione d’autore tuttavia non va al singolo testo, ma all’intera raccolta.

[8] Sui rapporti tra le due raccolte vale la pena di riprendere quanto affermato da Lavagetto (nell’Introduzione a Saba 1994, p. liii e p. lvi) a proposito dei versi finali de Il giovanetto (che hanno pure qualcosa in comune con il nostro testo): «Scende intanto la sera, e tinge in rosa / le nubi, e a quanto del tuo corpo è ignudo / fugacemente intona il suo colore.  // La sua bellezza con la tua si sposa. È Trieste e una donna e potrebbe essere Ultime cose. Il gioco sarebbe ripetibile molte altre volte e dimostrerebbe sempre che l’ultima maniera è presente, allo stato di possibilità, in tutto il Canzoniere: anche nelle raccolte in apparenza più lontane e discordi». Più oltre anzi Lavagetto aggiunge che «si potrebbe quasi azzardare un parallelo e sottolineare che Il piccolo Berto, Parole, Ultime cose sembrano ordinarsi in una sequenza perfettamente simmetrica a quella che ci avevano presentato i Versi militari, Casa e campagna, Trieste e una donna». Vale la pena inoltre ricordare a questo punto le parole dello stesso Saba (2001, p. 308): «Diremo ancora che, nelle ultime poesie di Ultime cose si avverte un leggero ritorno all’ispirazione dalla quale erano nati i grandi momenti del primo Canzoniere. Questo ritorno è sensibile, in modo particolare in Ultimi versi a Lina, in Ritratto, in Fedra, in Campionessa di nuoto».

[9] Legato alla morfologia di queste poesie è anche l’aggancio tramite la rima tra prima e seconda strofa. Qui la rima è interna (mare : gare).

[10] Un paio di casi anche in Parole: con rima in Stella, senza rima in Tre città. Torino.

[11] È una situazione tipica dell’ultimo Saba anche se inversioni e iperbati non sono del tutto assenti neppure dal sistema stilistico di Ultime cose: si veda l’inizio di Contovello («Un uomo innaffia il suo campo. Poi scende / così erta del monte una scaletta, / che pare, come avanza, il piede metta / nel vuoto», vv. 1-4), o il solenne attacco di alberto («alberto / uno morendo m’hai lasciato in dono / fiasco di vecchio vino e la tua pipa» vv. 1-2) ecc.

[12] Tre le occorrenze nel Canzoniere definitivo di Sirena: a parte il testo in esame (che però rispetto agli altri porta la maiuscola), il termine si trova ne La serena disperazione (L’osteria «all’isoletta», v. 12: «ritrova il marinaio la sirena»), e in Mediterranee (Mediterranea, v. 7: «penso cupa sirena / – baci ebbrezza delirio»)

[13] In altre parole, cioè con le parole di Saba-Carimandrei si può allargare il discorso all’intera raccolta: «Una delle caratteristiche di Ultime cose è che il presente, invece di esaurirsi in se stesso, fa rivivere, riacutizzandolo, il passato; lo esaspera a significati attuali a un tempo e remoti»; e poco più oltre: «Il passato, che per volontà di vita, il poeta tenta di respingere da sé, per non aggravare il cumulo delle memorie, che non sempre le parole riescono a sciogliere, come il sole scioglie la neve, ritorna da ogni parte, dovunque il poeta volga gli occhi, qualunque nuovo affetto gli faccia battere il cuore» (Saba 2001, pp. 306-7).

[14] Si rileggano i passi in questione: «La luna non mi pare come l’occhio / del sole, l’accecante occhio che tutto / vede, ma non discerne e non ricorda; / ella sa le presenti e le passate / cose, e per quelle che saranno porta / un finissimo intuito; ed anche ha un certo / fare, austero e materno, / ch’io la riguardo come il bimbo, tolta / del suo fallo la traccia, / scruta furtivo la marmorea faccia / della madre, la sua bocca che tace, / un sorriso indicibile che toglie / ogni sua pace». (Nuovi versi alla luna, vv. 15-27); «sempre ad un bimbo la sua madre austera / rammenta che quest’acqua è fuggitiva, / che non ritrova più la sorgente, / né la sua riva; sempre l’ancor bella / donna si attrista, e cerca la sua mano / il fanciulletto, che ascoltò uno strano / confronto tra la vita nostra e quella / della corrente» (Torrente, vv. 20-27).

[15] Al secolo Giulietta Morpurgo, impiegata come commessa nella libreria di Saba, di cui Saba si innamorò (Cfr. Carrai 2017, p. 122). Si veda anche Girardi 2006.

[16] Nel quarto testo de L’amorosa spina si legge tra l’altro questo verso: «Poi ch’io sono il tramonto e tu un’aurora» (v. 11). Per entrambi i casi, conoscendo la cultura musicale di Saba, si può forse rinviare all’ultimo atto della Bohème: «Mimì: “Son bella ancora?”. Rodolfo: “Bella come un’aurora”. Mimì: “Hai sbagliato il raffronto. / Volevi dir: bella come un tramonto”».

[17] Proprio questo contatto con Chiaretta mi pare renda meno plausibile l’altra ipotesi interpretativa, ossia che quel sintagma, materna ombra, si riferisca alla madre della ragazza: il filo tenue ma indistruttibile con il poeta sarebbe allora tutto nel passato, nella comune presenza di una madre dolorosa.

[18] Si veda almeno Girardi 2005, p. 80 (da cui è tratto il passo tra virgolette); Salibra 2014, p. 1014, Carrai 2017, p. 183. Per il tema “sportivo” rinvio anche al saggio di De Angelis (1982) che parte proprio dal testo di Saba qui in esame.

 

Bibliografia

 

Bonura G. E. (edizione critica a cura di) (2019), Saba, Il Canzoniere (1945) oltre il Canzoniere (1946-1957), Padova, Libreria universitaria.it.

Carrai S. (2017), Saba, Roma, Salerno ed.

De Angelis M. (1982), Poesia e gesto atletico, in Id., Poesia e destino, Milano, Crocetti, pp. 46-53.

Girardi A. (1987), Metrica e stile del primo Saba, in Id., Cinque storie stilistiche, Genova, Marietti, pp. 1-48.

Girardi A. (2005), Le stagioni del Canzoniere, in Id., Grande Novecento. Pagine sulla poesia, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 61-84.

Girardi A. (2006), Saba e Giotti, italiano e dialetto, in Id., Grande Novecento. Pagine sulla poesia, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 93-106.

Girardi A. (2019), Lo stile dell’ultimo Saba, in L’ultimo Saba: poesie e prose, a cura di J. Galavotti, A. Girardi, A. Soldani, Firenze, Società Editrice Fiorentina, pp. 3-13.

Mengaldo P.V. (2008), Umberto Saba: Il poeta e la sua città (Trieste, da Il Canzoniere), in Id., Attraverso la poesia italiana. Analisi di testi esemplari, Roma, Carocci, pp. 178-80.

Salibra E. (2014), La classica modernità di Saba: lettura di ‘Ultime cose’, in Per civile conversazione. Con Amedeo Quondam, a cura di B. Alfonzetti, G. Baldassarri, E Bellini, S. Costa, M. Santagata, Roma, Bulzoni, pp. 1001-15.

Saba U. (2001), Tutte le prose, a cura di A. Stara, con un saggio introduttivo di M. Lavagetto, Milano, Mondadori.

Saba U. (1994), Tutte le poesie, a cura di A. Stara, introduzione di M. Lavagetto, Milano, Mondadori.

 

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