di Michele Cotelli

 

Nicola Samorì. Sfregi. Exhibition view at Palazzo Fava, Bologna 2021. Photo Marco Cappelletti

 

“In una reazione chimica la massa complessiva dei reagenti è uguale alla massa complessiva dei prodotti”. Così si esprimeva il chimico Antoine-Laurent de Lavoisier nel settecento dimostrando la Legge di conservazione della massa e questa formula è arrivata nell’immaginario collettivo come “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.

Entrando nella mostra Sfregi di Nicola Samorì, classe ’77, che si tiene presso Palazzo Fava di Bologna dal 8 aprile al 25 luglio 2021 a cura di Alberto Zanchetta e Chiara Stefani (tutte le informazioni per accedere su www.genusbononiae.it), si trovano 80 lavori dell’autore di Bagnacavallo, laureatosi all’Accademia di Belle Arti di Bologna, a cui la città celebra omaggio in questa antologica che presenta il suo operato di 17 anni di attività, dal 2004 ad oggi.

 

Quello che appare evidente nel percorso anti cronologico della mostra è la costante, e matura fin dagli esordi, capacità di Samorì di cimentarsi con le diverse tecniche per affondarle tutte nella maniacale e ossessiva ricerca della forma che può parlare solo negandosi. Analogamente alla censura onirica, che è quel limite che lavora per rendere inaccessibile l’inconscio e allo stesso tempo ce lo mostra attraverso sfasamenti, distorsioni, condensazioni e rimozioni, così lavora incessantemente Samorì sulla sua opera che si sovraccarica di libido e destrudo fino a diventare l’immagine negata che ci appare ogni volta di fronte ai nostri occhi. Come se si cristallizzasse in un altro da sé il tempo psichico impegnato nella ricerca formale della perfezione, dell’affermazione, e al contempo si insinuasse la sottrazione continua dell’oggetto stesso del desiderio.

 

La sorda presenza dell’opera si carica così di una vitalità potente che si aggancia universalmente all’Io dello spettatore nei suoi più profondi processi psichici e poco importa il soggetto dell’immagine che esso ritragga santi, profeti, fiori e farfalle, o veloci abbozzi di argilla manipolata. Importa invece il connubio tra la compositio dell’autore e la parte relegata al caso nel momento in cui avviene lo sfregio dell’opera, come se si condensasse in ogni opera il destino umano, quello degli uomini e delle donne rappresentati, spesso soli, a volte in gruppo, ma sempre consumati nella festa sacrificale che è il processo della materia nel suo decorso temporale dove azione, desiderio, volontà e caso vanno in cortocircuito emotivo. Questo concretizzarsi nell’immagine sfinita, negazione di sé stessa, sembra essere il segno distintivo ricorrente di Samorì, dagli esordi fino ad oggi in tutti i medium sperimentati (incisione, disegno, pittura, scultura), come unica possibilità del fare artistico, ovvero del mostrare e far vedere, o del nascondere e accecare, che, nel processo di trasformazione su cui poniamo l’attenzione, è parlare della stessa cosa.

 

Nicola Samorì. Pittura, 2018

 

Nella prima sala ci accoglie Pittura, una metaopera di Samorì, un piccolo olio su tavola dall’Allegoria della pittura di Simone Cantarini, dove la personificazione della pittura, qui figurativa e informale e materica insieme, guarda lo spettatore e pone la punta del pennello sul margine esatto dell’opera, proprio dove il quadro inizia a oscurare palazzo Fava, come se il punto di contatto fra il contenitore e il contenuto, fra il mondo e la sua rappresentazione, fosse il punctum da cui tutta la mostra si irradia facendoci muovere nelle sale fregiate dai Carracci.

 

Quello che accade è un effetto di campo dove la distinzione fra il piano nobile del palazzo e l’opera di Samorì si ammolla in un amalgama di relazioni fitte e imprevedibili, come se una parte si arricchisse dell’altra in un insieme dal nuovo significato. Avviene una drammatizzazione subconscia delle sale affrescate, come in un sogno ad occhi aperti, attraverso incastri architettonici e messe in scena teatrali. Se nella fenomenologia della percezione si pone l’attore uomo sul palco come incarnazione del personaggio letterario, qui, mantenendo vivo lo stesso processo, all’inverso si trasformano i personaggi mitologici o sacri dell’arte figurativa in uomini contemporanei vivi nel loro sentire e nel loro dolore.

 

Nicola Samorì. Sleeping Drummer, 2020

 

Nella sala del fregio dei Carracci Storie di Enea, per esempio, giunti all’episodio del Sacrificio di Enea (il cartiglio non coincide con la rappresentazione), si vede sull’isola di Delo una statua di Apollo guardare in basso verso il visitatore. Al cadere della linea dello sguardo della divinità Samorì ha collocato un affresco diviso in sei parti di Marsia, lo scorticato dal dio nella mitologia, e si sente questa tortura nel percorrere in senso orario tutti gli strappi fatti all’affresco che popolano la stanza facendo scomparire progressivamente l’uomo fino alla calce viva preparatoria dell’opera che ne era il primo strato. Nel compiere questo moto circolare nella sala si scopre quasi per inciampo, al centro della stanza, sdraiato a terra, un busto mutilo, Sleeping Drummer, realizzato in marmo bardiglio, un corpo in una tensione spasmodica che si contorce in tutta la sua umanità. In questo modo vediamo come il mondo samoriniano lavori partendo da rimandi e da citazioni, attingendo così ad un reperto stabile e schermante nella sua stratificazione, per poi farli deflagrare mostrando in tutta la sua potenza l’universale umano che trattengono attraverso i processi di detonazione del caso e del caos che sono affidati alle tecniche artistiche che torturano il modello. Così facendo, solo in presenza di un modello perduto (la figura, la rappresentazione) si può riattivare il sentire contemporaneo (l’azione, il taglio, la corrosione, il frammento e il materico), l’opera d’arte prende vita nel momento in cui si distrugge come l’uomo sente solo durante il suo destino di morte. Questa è l’esperienza che ci accompagna in tutta la mostra, passando da Malafonte incastonato al millimetro nel palazzo Fava, come fosse parete antica affrescata del palazzo stesso, o giungendo nella sala dei pellami dove i trucioli delle incisioni dei dipinti ad olio su rame dei santi Paolo Eremita e Bartolomeo vengono lasciate cadere in relazione con le pelurie animalesche nella natura morta di cacciagioni sfregiata da Giuseppe Maria Crespi.

 

Nicola Samorì. Canto della carogna, 2021

 

Questo mondo fatto di immagini da immagini per immagini, resterebbe gioco fino ma per pochissimi se non fosse per il processo psichico personalissimo di sfinimento del soggetto e per le tecniche adoperate per sformarlo dal suo autore. Continuiamo nell’analisi di Sleeping Drummer, per approfondire quella, e proviamo a risalirne l’identità e la storia. Ci accorgiamo così che quel busto a terra che sembra contorcersi in realtà era lo stesso disegnato, in posizione eretta, in un’altra sala del palazzo, e lo avevamo visto in una mostra avvenuta alla Eigen Art di Berlino sotto forma di affresco, e prima in Black Square tenutasi a Napoli presso il Made in Cloister dove era una gigantesca statua vulcanica nera, e prima ancora era un bozzetto in argilla nello studio dove aveva subito diversi processi tra calchi e controcalchi che lo avevano reso quella forma monca, perché all’inizio era una graziosa statuetta di avorio di Joachim Henne del 1680, la Morte come batterista.

 

Ma questo lavoro di rimandi e citazioni non è in alcun modo fondamentale nella percezione dell’opera, è la maniera di procedere di Samorì, è la sua porta di accesso alla realtà e alla vita, perché quello che invece arriva allo spettatore è la sofferenza di quell’uomo senza nome attraverso quel busto sforme visto in quella luce e in quella stanza di palazzo Fava, e da questo particolare si riesce a innestare l’universale che soggiace alla compassione del destino comune che l’autore è riuscito a farci provare cristallizzando il suo sentire nell’affrontare svariate volte quel soggetto nelle diverse tecniche e nei più disparati materiali, ripetendo ogni volta una coazione a ripetere tormentata fatta di trasformazioni continue della materia.

 

Nicola Samorì. Sfregi. Exhibition view at Palazzo Fava, Bologna 2021. Photo Marco Cappelletti

 

Centrale rimane l’uomo, il suo sentire, la sua storia, la sua fratellanza nella pena del dover morire e tutto ciò lo vediamo nuovamente nella grande sala Storie di Giasone e Medea dove le opere di Samorì, che trattino santi o dannati, guardano al cielo, ma trovano la pittura dei Carracci e non la pace di Dio. Necessario rimane dunque l’uomo, nella sua complessità fisica e psichica, tant’è che al centro della stanza, senza la sua croce fra le mani, staziona la Maddalena penitente del Canova, col capo reclinato, nella sua splendida umana miseria.

Si sa oramai, al contrario di quanto pensavano i primi surrealisti, che nell’uomo, quando è imbrigliato in una tecnica rigida dove la legge si fa ferrea, può manifestarsi il momento in cui l’energia psichica straripa tra conscio e inconscio e si coagula così quel limite che è la forma trasformata, imprevedibile infrazione della norma stessa. Nicola Samorì riesce, nella sua maniera di lavorare, a far questo e a tener indistinti e aggrovigliati il caos, il concetto di autore, la materia e la rappresentazione, trasformando così il suo segno personale sull’opera in un sentire collettivo che sembra essere la testimonianza di quel solco che ha trasformato il fato nel caso creando una incolmabile mancanza.

Il solco che Nicola Samorì ha tracciato nella storia dell’arte è proprio quello che spetta all’incisore, colui che scalfisce la superficie per farne forma negativa, e tale sfregio è diventato manifesto in questa antologica bolognese che mostra come sia ancora possibile fondere arte e mondo e uomo, rimettendo in campo la domanda: hanno ancora senso le distinzioni fra arte figurativa, astratta e informale?  Se un futuro ci può essere da qui deve partire, dal confronto con questa nuova soggettività dove l’Io riappare ma per trasformarsi nell’altro.

 

Nicola Samorì. Sfregi. Exhibition view at Palazzo Fava, Bologna 2021. Photo Marco Cappelletti

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