di Laura Di Corcia
[Oggi alle 10.30, presso la Palazzina Liberty di Milano (Largo Marinai d’Italia), sede della Casa della Poesia, si terranno le esequie di Giancarlo Majorino (1928-2021). Lo ricorda per noi Laura Di Corcia, autrice della biografia Vita quasi vera di Giancarlo Majorino (La Vita Felice, 2014). In calce un’antologia di testi poetici di Majorino].
Lo confesso: è un po’ difficile scrivere questo pezzo, riuscire a riassumere in poche righe tutto. E quindi la stima, l’affetto profondo, quello che la frequentazione di un poeta come Giancarlo Majorino (sfociata nella stesura della sua biografia, Vita quasi vera di Giancarlo Majorino, La Vita Felice, Milano 2014) ha significato per il mio percorso, e soprattutto in quel momento, il suo profilo di poeta-intellettuale e la sua multi-sfaccettata, difficilmente ingabbiabile, complessa opera. Forse è impossibile, ma ci provo. Partiamo dal Majorino poeta-organico, poeta-intellettuale. Una categoria sempre meno attuale, oggi, ma fondamentale per chi, negli anni Settanta, si apprestasse a scrivere e a fare della scrittura qualcosa di cruciale. La sua generazione inizia ad occuparsi di letteratura dopo la stagione ermetica e prova diffidenza per le forme di quella poesia che sembrava fin troppo sclerotizzata sul proprio mondo interiore mentre l’Europa intera correva il rischio della distruzione; per questo i poeti come Majorino e Pagliarani, già immersi in un nuova epoca, quella del boom economico, cercavano altre vie per fare della poesia, ripeto, qualcosa di cruciale, qualcosa che avesse a che fare con la realtà, l’immanenza, sfuggendo a un consolatorio e auto-assolutorio “oltre” che liberasse dalla responsabilità di provare un intervento sulla storia. Il fermento di quegli anni ho potuto respirarlo molte volte, nel suo studio pieno zeppo di libri, quando fra una lettura e l’altra mi prestava i preziosissimi numeri della rivista “Il Corpo”, da lui fondata insieme al filosofo Luciano Amodio e allo psicanalista Elvio Fachinelli. Una rivista, come amava definirla lui, “mai vista”, che cercava approcci diversi e sicuramente anti-corporativisti alla letteratura, mettendo al centro, per l’appunto, il corpo. Una rivista in cui trovavano spazio, accanto alla poesia, la filosofia con un taglio principalmente hegeliano e marxista, la storia, la psicanalisi, tutto letto secondo prospettive nuove e con uno sguardo “europeo”. Sul tema del corpo è incentrata anche la sua antologia “Poesie e realtà”, pubblicata a fine anni Settanta e poi ripubblicata, depurandola da alcuni eccessi, a inizio del nuovo millennio: un testo che opera in maniera diversa rispetto ad altri testi, superando il dualismo poesia tradizionale/poesia sperimentale e superando il concetto stesso di “generazione”.
Frequentare casa Majorino ha significato anche essere immersa in un linguaggio diverso, dominato da concetti che Giancarlo aveva trovato e fissato in un modo particolare, tutto suo: avevano il valore di un’ipostasi e li aveva battezzati “concetticona”. Alcuni di questi, come la parola “tetrallegro”, diventano anche i titoli delle sue raccolte poetiche. In un concetticona forse risiede uno degli insegnamenti più importanti che mi ha passato, ovvero “il noto dell’ignoto”. Quello che Giancarlo si prefiggeva come scopo principale della scrittura era sondare i territori dell’ignoto, il che significa andare anche al di là del “noto-dell’ignoto”, che è quel territorio perseguito dal linguaggio delle comunicazioni. Lì la notizia è un elemento nuovo, un aggiornamento da aggiungere all’agenda delle altre informazioni, qualcosa, quindi, sì, di ignoto, che però rimane nel confine del noto, non attua nessuno spostamento rispetto ad un sistema linguistico di riferimento, volto alla perpetrazione del meccanismo perverso per cui il mondo si divide fra chi ha e chi non ha. L’ignoto-del-noto è tutto quello che la poesia (una poesia che voglia dirsi intellettuale, cruciale) dovrebbe evitare come la peste. Attenzione anche all’ignoto-del-noto che fonda il sistema corporativistico della letteratura, il quale, magari inconsciamente, tende a premiare ciò che rimane nei confini del noto. In effetti la scrittura di Majorino è sempre stata segnata da un’ambiguità: poeta mondadoriano, fondatore della Casa della poesia di Milano, Giancarlo si è sempre tenuto al di fuori dei giochi di potere, non ha voluto rinunciare ad una forma di integrità. Un insegnamento prezioso.
Leggere Majorino non è semplice, è quasi un esercizio: il motivo risiede nella complessità estrema della sua scrittura, nervosa, agglutinata, sottoposta a scosse continue, a micro-sismi che la scuotono e la incalzano, a spostamenti di senso volti a sabotare il linguaggio e le sue dinamiche di potere. Una scrittura che, hegelianamente, mirava a contenere tutto (un suo verso famoso: “Mirella, senza tutto il mondo è niente”). Quest’ultimo aspetto si snoda lungo il suo intero percorso di poeta, dalla Capitale del Nord, il primo libro, alla sperimentazione cominciata con Ricerche erotiche fino ai libri pubblicati a partire dagli anni Duemila, come Gli alleati viaggiatori, Prossimamente, e il monumentale Viaggio nella presenza del tempo, un libro scritto lungo il corso di un’intera vita. Questa è stata forse la sfida più grande: il poema era infatti l’utopia di voler scrivere un testo che contenesse tutti i tempi, ma anche tutti gli “io”. Se, come scrive nel visionario incipit, “era necessario lasciare l’io / lo sbriciolato incerottato con i cerotti a pezzi”, quindi riconoscersi nella molteplicità e negli altri, i “simili-dissimili”, secondo una sua definizione, questa stessa molteplicità può essere letta come la ricerca di una connessione fra le varie parti di un “sé” che si realizza nel tempo. È quanto avviene nella stesura del Viaggio, appunto, dove il “sé” presente non voleva schiacciare il sé del passato, quindi la scrittura doveva accogliere i vari “io” che nel tempo compongono la personalità. A questa ricerca fondamentale si legano le scelte lessicali e verbali, che vanno in direzione dell’utilizzo molto forte, quasi ossessivo, del participio presente e del gerundio, modi verbali che dilatano il presente fino a renderlo “con-temporaneo”, in grado di accogliere tutti i tempi.
Dal 20 maggio Giancarlo non c’è più. Lascia un vuoto umano e letterario immenso nei suoi allievi, i poeti che hanno voluto tendere orecchio alla sua lezione, ma anche gli studenti che lo hanno avuto come professore di estetica e che lo leggevano e seguivano anche a distanza di anni. Lascia un vuoto e un segno nella città di Milano, che ha saputo raccontare nelle sue spietatezze, nelle sue meschinità, ma anche nei suoi punti di forza. Amava definirsi un vampiro buono: il suo sguardo critico sulle cose era infatti mitigato da una bontà di fondo, l’amore per gli esseri viventi. Un giorno mi ha detto: “Non posso avercela con le persone, perché scompaiono”.
Antologia di testi
la madre ha insegnato a Virginia
l’importanza del corpo
ogni sera per molte belle estati
il padre riceveva
Virginia allontanata
il suo compenso
eravamo felici se ci penso
il mestiere dannato dei denari
il piccolo commercio
un gatto in mezzo ai cani
faceva il babbo
è strano
grande e allegro
com’è dolce serbare un corpo umano
(da La capitale del Nord)
Strâca morta
l’Enrica dorme:
posa la faccia
sul cuscino che torna
petto di mamma
nel buio
in quella calma
avvicina il mento all’intestino
le ginocchia al mento
nell’acqua della stanza
nuotano pesciolini.
(da Lotte secondarie)
avanti avanti avanti
proseguono, implacabili, coatti,
rasaerba
mentecatti che siamo, circondati
da flussi di petrolio, urlandoci ti amo
o isole di mota
l’anarchia del globo, gomitoli disfatti,
luride animelle
ripeti gesti liberi tamburo
ripeti gesti liberi ripeti gesti liberi ripeti
luride animelle sbatacchianti
tamtamburo motoso tamtamburo
ma tu/ Bianca, lo sai/ che non ci/ vedremo più?/ che finiremo remo
io lì tu là/ tre metri sotto/ tu bocca nera spa/ lancata come
bambola nera/ rotta per sempre
na bambola/ come nera/ rotta per sempre
na bambola/ come nera/ rotta per sempre
ripeti gesti liberi tamburo
ripeti gesti liberi ripeti gesti liberi ripeti
tu con la bocca nera spalancata
io io coi denti e basta
lo sai Bianca?
tu che sei l’amica dell’Enrica
e ieri parlavamo allegri mangiucchiando la tavola fiorita
sotto la lampada lustra di plurima luce
tavola ferita rima luce
(da Provvisorio)
alzavamo onde altissime
o piccole onde, secondo l’estro
con l’amico Viviano
ascensore senz’ allievi
senz’altro figlio che sé
sere degli anni ’50
lasciandoci stordire dal piacere
in ogni porosprazzo
appiccicando antitesi
quasi ad ogni passo
lacerando unità
era è
dato che sta
entro molte staffette
mai appellate mai chiuse
e in quelle giornate
fatte di notte e di giorno
vampiri buoni si girava il mondo
continuo come posso
finché vivo stando addosso
a tutti a tutto, la nostalgia
è troppo semplice
(da Prossimamente)
Primo canto
luna più della luna in cielo stava
sull’intero ma poco guardata poco
in postazione cellule tuttora silenziose
dove con fluiscono si flettono e si abbandonano
sinergie svaganti
e sì riprendono
macchie interne o vichi foresta o avi bestia
ma la potenza dello sguardo tempato
ha la meglio, crèdimi credètemi
luna più della luna in cielo stava
non ci si può togliere da un piangere, non
ci si può togliere da un piangere da un ridere
e i lumi si smagriscono, si spengono
è la città indiretta
dove accucciati sleali si vestono e andiamo
luna più della luna in cielo stava
e sull’intero ma poco mirata poco
e non era bello ma era necessario lasciare l’io
lo sbriciolato incerottato coi cerotti a pezzi
allontanarsi dalle fiammelle grette
e volare a sogno volare introiettando bassi bassi
il cemento, il remoto confine dell’erba
(da Viaggio nella presenza del tempo)
“Sul tema del corpo è incentrata anche la sua antologia “Poesie e realtà”, pubblicata a fine anni Settanta e poi ripubblicata, depurandola da alcuni eccessi, a inizio del nuovo millennio” (Di Corcia)
Ahimè, questa depurazione di “alcuni eccessi” degli anni Settanta, dove ci ha condotti!
SEGNALAZIONE
Su Giancarlo Majorino
Poesie e realtà 1945-2000
https://immigratorio.wordpress.com/2011/09/28/su-giancarlo-majorinopoesie-e-realta-1945-2000/
(2 ottobre 2001)
Stralcio:
Su questa soglia – se la raggiungiamo, magari anche per via poetica, e ci sporgiamo oltre – ci porremo domande e domande. Se davvero siamo in spostamento, di quanto ci siamo spostati o ci stiamo spostando anche dalla Poesia (di una volta, di oggi?) e dalla/dalle Realtà (di una volta, di oggi)? Di quanto si è spostato Majorino stesso da queste due polarità, cominciando prima a riscrivere il suo vecchio lavoro del ’77 e poi, ad un certo punto, scompigliando del tutto le carte predisposte e scegliendo questo catalogo di poeti, di testi e collocandoli in questa cornice tripartita? Cosa dicono o possono dire da lì, su quella soglia questi poeti italiani e i loro testi in italiano? Fanno apparire errore o pericolo le vicende che ci stanno mescolando ad altri (in gran parte ancora sconosciuti)? Ci aiutano a smarrirci e a mescolarci meglio in mezzo a loro? Scatenano nostalgie delle nostre precedente visioni del mondo mediate attraverso la Letteratura e la Poesia (la “nostra” Letteratura, la “nostra” Poesia)? Ora che una Realtà più grossa (addirittura di Guerra) ci percuote e fa impallidire tutte le mediazioni precedentemente adottate e consuete fino ad anni recenti (l’Ideologia, la Politica, la Cultura, la Scienza, ecc.), ridimensionandole a quasi-sogno, è più facile o più difficile abbandonarsi con fiducia a queste poesie?
Solo dalla suddetta soglia (artificiale quanto volete), si controlleranno le cose (non solo l’antologia, non solo la poesia) “da un punto di vista più magnanimo”, e anche più drammatico e forse tragico.
Ma c’è di più. Arrivato a questa soglia, Majorino propone di “avere a che fare” con un doppio silenzio (quello che accompagna lo scrivere e quello “non meno essenziale, quello degli oppressi” (22). Gli oppressi – va ricordato – non sono sempre silenziosi, neppure oggi. E la bella proposta di “connettere o far respirare insieme i due tipi di silenzio” dovrà produrre (sta già producendo?) una scrittura e una parola esodante, incespicante e balbettante; e pensiamo alle figure che si sono affacciate nelle poesie più recenti di Majorino, figure allegoriche, animali che non sbarrano più il passo a pellegrini smarriti dalla dritta via, ma che li trascinano con sé (“nel suo trotto a zig zag cinghiale irsuto / con famiglia a fianco bimbo su bici”) in una – si spera – doppia e ininterrotta migrazione (da noi a loro, da loro a noi…).
Perciò contro le esitazioni di amici più giovani o di amici ancora “militanti”, bisogna prendere sul serio lo spostamento tentato da Majorino con Poesie e realtà 1945- 2000 ed evitare, proprio perché Majorino dice cose pienamente condivisibili (37-39) sulla Poesia Critica, il rischio di una versione rappacificante e neutrale (una versione cetomedista lui la chiamerebbe?) dello spostamento, che pur dal suo discorso potrebbe desumersi.