di Sandro Abruzzese

 

Sulla Questione comunista in Italia si potrebbe cominciare, se non altro per limitare il campo, da quell’11 giugno del ’69, a Mosca, dove il futuro segretario del Pci, Enrico Berlinguer, alla Conferenza internazionale dei partiti comunisti, non solo ribadisce la via italiana al socialismo: una via democratica, plurale, nel solco della Costituzione repubblicana; ma rivendica un internazionalismo in funzione antimperialista e antifascista fatto di piena sovranità e parità di diritti tra tutte le nazioni. È un discorso noto, in cui, a pochi anni dal Memoriale di Yalta, il Pci di Longo rifiuta ancora una volta l’ipotesi di stati guida, e condanna nuovamente l’intervento sovietico in Cecoslovacchia dell’anno precedente.

 

La libertà della cultura, la questione dell’indipendenza e della sovranità, ogni ampliamento democratico, sono auspicabili per la credibilità stessa del socialismo, questa la posizione italiana, che segue la linea storicistica tracciata da Gramsci e Togliatti, il quale, come ebbe a dire Renzo Liconi, per primo aveva maturato l’abbandono della statalizzazione dell’economia in virtù della socializzazione della politica.

All’Unione sovietica viene sì riconosciuto lo sforzo per la pace, per l’emancipazione dei popoli, il ruolo guida della Rivoluzione d’Ottobre, tuttavia da tempo in Italia si rivendica completa maturità e autonomia di giudizio.

È una tappa, questa del ’69, frutto di una lunga e lenta strategia: in politica estera il percorso è verso l’Europa, in politica interna riguarderà il rapporto con i cattolici e Moro, a cui dal ’75 seguono gli incontri informali con gli americani, affidati a Luciano Barca.

 

L’avvento di Berlinguer alla guida del Pci coincide con una fase internazionale e interna di inaudita gravità. Il ’73 è anno di crisi mondiale sancita dalla Guerra del Kippur. Per l’Italia vuol dire crisi del petrolio (da 2-3 dollari a 12), sommata alla comparsa dei competitori asiatici, ai problemi valutari. Per dare una cifra basti dire che il prezzo del petrolio nel 1979 sarà di 32 dollari a barile, mentre nel 1987 sarebbe tornato ai livelli del ’74.

Se dal punto di vista economico si rischia il collasso, non va certo meglio sotto il profilo politico, anzi dal ’69, con i fatti di Reggio Calabria e la strage di piazza Fontana, comincia la Strategia della tensione, l’attacco alle istituzioni democratiche da parte di un grumo inossidabile di poteri occulti  con diramazioni nei servizi segreti e nelle istituzioni, che all’estero aveva avuto successo in Grecia con i Colonnelli e nel Cile di Allende.

 

In politica interna, l’iniziativa di Berlinguer prende il nome di compromesso storico, ovvero la proposta di pacificazione, dopo lo strappo del ’47 con la Democrazia cristiana di De Gasperi, da cui una rilegittimazione del Pci che lasci cadere la pregiudiziale anticomunista in qualità di forza di governo. Il piano prevede l’ingresso dei comunisti in una compagine di governo e, dopo lo sdoganamento, la possibilità dell’alternanza tra le due forze principali del paese e gli altri partiti. Il compito di Berlinguer e Moro a questo punto è operare una lenta convergenza tra i due partiti per portare a termine la normalizzazione.

In seguito al successo elettorale del Pci alle elezioni del 15 giugno ‘76, sotto molti aspetti la strada appare propizia: è Agnelli a definire la vittoria delle sinistre uno «scossone salutare» all’immobilismo governativo in vista delle riforme. Oppure sono il repubblicano Ugo La Malfa e il governatore della Banca d’Italia Guido Carli a mostrare convinte aperture alla strategia comunista.

 

Per tutta risposta, sempre nel ’76, Berlinguer non solo arriverà a escludere la possibilità di uscire dalla Nato ma, rischiando contraccolpi interni al partito, dirà che “si sente più sicuro da questa parte” dell’Europa. È all’apice della sua parabola: il Pci raggiunge i 12 milione e seicentomila voti. Tuttavia la strada è impervia e ricca di insidie.

Seguono, per rivoluzionare il paradigma del sistema, le riflessioni sulla qualità del consumo e sull’austerità: è la fabbrica, la società, a dover essere più umana, più vicina alle esigenze dei lavoratori. Si sposta così l’attenzione dal solo lavoro, sottolinea Luciano Barca, all’intera vita dell’essere umano.

Nel complesso è l’utopia concreta di un’Italia più razionale e giusta a farsi strada, per cui occorre un partito diverso dagli altri, che continui a fare, come in passato, dell’elaborazione teorica e politica, della lotta culturale, dell’educazione di massa, la sua temibile forza.

 

Emerge poi nei diari di Barca (Cronache dall’interno dei vertici del Pci, Rubbettino editore), l’influenza di Claudio Napoleoni, da cui un punto di vista originale sulle idee economiche che si fanno spazio nell’entourage del leader sardo: la distinzione tra capitalismo e mercato, tra profitto e rendita, la fine dei contributi a pioggia per l’individuazione di chiare e proficue voci di spesa, il corretto rapporto tra stato e mercato. E poi ovviamente la battaglia per la centralità del parlamento, per l’esercizio democratico del potere che investe la scuola, le forze armate, la magistratura. Sono questi alcuni dei punti che fanno del più grande partito comunista occidentale un partito dai caratteri originali e, paradossalmente, per via della pregiudiziale anticomunista, lo relegano a semplice puntello e difensore della democrazia italiana che ha contribuito a fondare. Un partito che nel definirsi rivoluzionario sembra incontrare i suoi maggiori ostacoli alla tanto agognata normalizzazione. Ecco perché a chi continua a chiedergli quale sia la differenza rispetto al riformismo socialdemocratico, Berlinguer preciserà che “la differenza tra sviluppo graduale e riformismo è nel tentativo di una concreta rottura dell’andamento evolutivo del sistema capitalistico, oltre che nella determinazione a usare qualsiasi mezzo necessario per difendere eventuali tentativi di schiacciare il movimento operaio”.

 

Prima e dopo l’epilogo del caso Moro, che determina il fallimento della strategia berlingueriana, il segretario torna più volte sull’argomento. Lo fa per esempio, nell’intervista del 3 maggio ’72 alla Nazione, dove è costretto a rispondere alle solite domande sull’impegno a garantire le libertà. In realtà è tutto nero su bianco dal ’56, è la dichiarazione programmatica approvata all’VIII congresso del partito, egli ricorda all’intervistatore. Il fatto è che “si vorrebbero partiti di sinistra che di fatto si accontentano di limitare la loro azione a introdurre qualche correzione marginale all’assetto sociale esistente”, commenta infine il segretario.

Se non bastasse, nel discorso del novembre ’77 a Mosca, in occasione dell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, Berlinguer dirà ai sovietici, la cui nomenclatura ormai lo detesta: “la democrazia è il valore storicamente universale sul quale fondare un’originale società socialista.”

E, l’anno dopo il caso Moro, la parola compromesso ricompare in un editoriale su Rinascita per un chiarimento “tra chi è solo interessato al quanto produrre e chi è interessato invece al che cosa e perché”, per evitare “un’Italietta ridimensionata e rattrappita, sempre più squilibrata nelle sue aree geografiche”. Saranno la gestione del terremoto irpino e lo scandalo petroli a convincere il segretario a lanciare la Questione morale per fermare lo scollamento tra istituzioni e paese.

 

Nella famosa intervista concessa a Scalfari, il 28 luglio ’81, il segretario ribadisce che “i partiti hanno occupato lo stato e tutte le sue istituzioni, (…) gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv”; è una guerra per bande, e lo sfascio morale deriva dall’esclusione e dalla discriminazione dei comunisti italiani. Insomma, quello che della Questione morale si finge di non capire è che il problema della moralità dei partiti ha acuti risvolti politici, annota Luciano Barca, che porteranno dritto alla stagione di Tangentopoli.

Ma che cos’è allora la Questione comunista italiana? È un’anomalia? Riguarda l’ostracismo della Democrazia cristiana e degli americani nei confronti di una forza politica troppo radicale e ingombrante? È la paura dell’Urss? Oppure è, come ritiene Berlinguer, l’opposizione al tentativo di trasformare profondamente il paese, le sue strutture economiche, le istituzioni, con la partecipazione delle masse alla direzione della vita pubblica?

La domanda è d’obbligo se oggi, nell’anno del centenario della nascita del Pci, sulle pagine del Corriere della sera il pregiudizio contro la storia dei comunisti italiani ritorna con le stesse mistificazioni d’un tempo negli articoli dei vari Battista e Cazzullo quotidiani, e soprattutto se un’icona della lotta alla mafia come Roberto Saviano pubblica sul suo profilo social un post con la foto di Filippo Turati, gesto che in un solo colpo liquida la genesi del Pci insieme a qualsiasi sua possibile necessità storica, come un unico grande errore.

 

Insomma, non è da tutti esprimere il parere che fu di Paolo Sylos Labini allorquando, nell’invitare il Pci a uscire definitivamente dall’ambiguità e a ripudiare la filiazione sovietica, oltre a ricordare il contributo formidabile alla guerra civile, alla pacificazione, alla costituzione, scrisse: “è doveroso riconoscere che, in Italia, il partito comunista ha meriti straordinari per il grande contributo alla democratizzazione di ampie masse popolari, per la lotta contro la corruzione nella vita pubblica, (…) contro la criminalità (…) il terrorismo. La serietà, il coraggio civile e la capacità di sacrificio non abbondano nel nostro paese; e in un partito come quello comunista c’è sempre stato assai scarso spazio per i maneggioni e gli arrampicatori sociali”.

E non tutti possiedono l’onestà intellettuale di Lukács, che ritenne l’esperienza dei comunisti italiani, a partire dal pensiero di Gramsci, e proseguendo attraverso l’abile tatticismo di Togliatti, come la storia migliore dei comunisti europei.

 

Sulla vicenda, Berlinguer ritiene che questa diversità sia il vero problema dei comunisti italiani, non c’entra l’Urss: basterebbe accettare i metodi, ridursi a qualche aggiustamento, rinunciare allo stile e alla vita interna,  ideali e condotta, “veti e sospetti cadrebbero, riceveremmo anzi consensi e plausi strepitosi dai nostri sollecitatori, se ci rinnovassimo nel senso apparente e fasullo da essi suggerito e auspicato (…) se abdicassimo alla nostra funzione trasformatrice, dirigente, nazionale, se decidessimo di “recidere le nostre radici pensando di fiorire meglio”, ciò che sarebbe – come ha scritto François Mitterand – “il gesto suicida di un idiota”.

Ebbene, Berlinguer rivendica la storia dei comunisti italiani e la distingue dalla socialdemocrazia europea anche per l’attenzione ai sottoproletari, agli emarginati, alle donne, ma ammetterà infine che l’errore è stato di aver creduto in una riforma della Dc.

La diversità comunista è in questa spinta a una democrazia avanzata e la ritroviamo nella battaglia per l’ordinamento regionale, nella legge e il referendum sul divorzio, nelle riforme al diritto di famiglia, nella chiusura dei manicomi, fino alla legge sull’aborto, anche se il dopo Moro risulterà sostanzialmente un vicolo cieco senza più sbocchi politici.

 

Nondimeno, se uno stratega con la passione per il piano internazionale come Berlinguer, come ricorda in un bel libro Silvio Pons, per via dell’arretramento del partito di ben quattro punti percentuali, è costretto a barcamenarsi in tatticismi interni, tra l’ingombrante personalità di Lama nel sindacato, l’opposizione interna nella direzione, e l’aggressiva competizione di Craxi, ormai prossimo al suo primo governo; nell’82 a Firenze, al convegno di Confindustria sullo stato e i soldi degli italiani, egli ricorderà che all’austerità lanciata sei anni prima si è risposto con l’indifferenza prima e l’irrisione poi: nel frattempo il debito pubblico è passato da 184mila a 350 mila miliardi, il contributo del lavoro dipendente al reddito imponibile è passato dal 41 al 75%, quello del lavoro autonomo dal 18 al 3%, la corruzione e le clientele, l’inflazione, hanno fatto il resto.

Il fatto è che non si può aumentare indiscriminatamente l’iva o aumentare ancora le tasse sul lavoro, argomenterà ancora il sardo, perché l’austerità è utile se diventa una proposta per l’innovazione e la produttività che però non gravi come al solito sui ceti meno abbienti e gli operai.

 

L’austerità – e mai come oggi il tema risulta attuale – ha senso se si propone di mettere ordine e equità nel sistema pensionistico, sanitario, del pubblico impiego, fiscale, anche perché “se si compissero solo tagli (…) non si inciderebbe sulle vere cause del dissesto finanziario e dell’inflazione”.

Ma è nell’intervista del dicembre ’83 concessa a un giovane Ferdinando Adornato, sull’Unità, che il segretario assume toni profetici e preconizza: “La lotta, la pressione di massa, saranno sempre necessarie. Certo si può immaginare un mondo nel quale la politica si riduca solo al voto e ai sondaggi; ma questo sarebbe inaccettabile perché significherebbe stravolgere l’essenza della vita democratica”.

 

Ben prima dell’avvento di Berlusconi, egli riflette che senza escludere il partito-immagine, non si può pensare a un tale impoverimento generale dell’essere umano, perché il socialismo è “la direzione consapevole e democratica, quindi non autoritaria, non repressiva, dei processi economici e sociali con il fine di uno sviluppo equilibrato, della giustizia sociale e di una crescita del livello culturale dell’umanità”.

 

La madre delle questioni

 

Insomma, Berlinguer non ha eredi e non solo, come è facile intuire, perché i suoi successori negli anni ’90 hanno fatto esattamente il contrario di quello che lui ha teorizzato e difeso nella sua lunga battaglia politica e culturale. Ma perché il Pci, per sua stessa natura dialettica e storicistica, per il fatto di essere un partito autenticamente nazionale e internazionalista, non poteva che essere un partito meridionalista, legato ai Sud del mondo.

Per capire meglio i termini dell’affermazione, forse conviene un passo indietro al luglio del 1962. Nei tre giorni di guerriglia degli scontri di piazza Statuto tra operai e forze dell’ordine, (291 fermati in un solo giorno, più della metà è di origine meridionale), vi sono le avvisaglie della rivolta sociale. In soli sei mesi a Torino sono arrivati 25mila giovani. Le loro condizioni sono peggiori dell’operaio medio torinese, popolano soffitte, alloggiano in stanze sovraffollate e fatiscenti.

 

A riguardo, la posizione dei comunisti è chiara: uno sviluppo intensivo, disordinato, produceva “l’Italia dei monopoli, dei grattacieli, delle automobili, dei televisori, dei frigoriferi, delle città impazzite, e l’Italia dove si spopolavano interi paesi, dove i raccolti agricoli e la produzione delle campagne dovevano venire distrutti, dove si mandavano alla rovina e mettevano nella disoccupazione milioni di braccianti, di mezzadri, di coltivatori, dove la montagna e parte delle campagne divenivano un deserto”.

Si ripeteva in Italia quello che su scala mondiale accadeva al rapporto tra paesi sviluppati e aree povere del globo, è la natura di un capitalismo privo di regolamentazione, il cui risultato è un mondo in fuga: la fuga della manodopera, dei capitali, dei cervelli. Da qui la rivendicazione di uno sviluppo di tipo estensivo, equilibrato, su tutto il territorio nazionale.

Il Mezzogiorno, dieci anni dopo, è per il partito di Berlinguer, insieme alla Questione femminile, il punto più importante dell’agenda politica interna.

 

Se il partito nuovo lanciato da Togliatti, un partito a carattere nazionale, radicato nelle comunità e capillare in tutta la penisola, negli anni ’60 aveva lavorato alla convergenza degli operai del nord e dei migranti meridionali, ora per Berlinguer “il problema più importante è quello dell’accrescimento del peso e del potere delle popolazioni meridionali come tali”.

Si tratta di una lotta per dare un futuro alle zone appenniniche, alle isole, anche perché “l’esodo ha raggiunto, negli ultimi due anni, livelli di una gravità eccezionale”. Il rischio “è una sorta di vera e propria frattura, e non solo sul piano economico, ma su quello culturale, civile, politico”.

 

L’analisi investe le sorti del Mezzogiorno come madre di tutte le questioni italiane: “quel modo di essere e di funzionare dell’intero meccanismo capitalistico italiano”, dirà alla Conferenza regionale del partito di Palermo del ‘71, “che ha come condizione del suo sviluppo, da una parte lo sfruttamento della classe operaia, dall’altra la rapina di uomini e risorse delle regioni meridionali e quindi la creazione incessante di sottosviluppo, dell’arretratezza, del parassitismo”. La destra eversiva e quella democristiana tentano così, è l’analisi del segretario, di colmare il vuoto nel meridione, spingendolo a destra.

Tuttavia liberare il Sud dai dirigenti locali che sfruttano e speculano sul denaro pubblico è possibile solo con grandi lotte sociali e politiche di massa. Gettare questo peso nella lotta regionale può distruggere un blocco di potere, a patto che piano nazionale e locale rispondano a questa chiamata.

 

Nel Sud, insiste Berlinguer, dal ’51 al ’70, quasi 4 milioni di italiani hanno abbandonato l’agricoltura, “si tratta del fenomeno”, senza mezzi termini, “forse più sconvolgente di tutta la storia unitaria del nostro paese. Non si possono capire le vicende attuali – economiche, politiche, sindacali, e anche ideali e di costume – al di fuori di una riflessione sulle conseguenze prodotte da questo fenomeno”.

Ancora, in un articolo per l’Unità del 10 settembre 1972 Berlinguer, ponendo il problema dei popoli nuovi che si affacciano al mondo dopo la decolonizzazione, a cui vanno riconosciuti diritti, indipendenza, ribadisce che l’obiettivo è “irrobustire la consistenza delle associazioni democratiche di massa, particolarmente nel Mezzogiorno: dei sindacati, delle organizzazioni contadine, delle organizzazioni femminili”. Mentre a Roma, nel marzo del ’75, al XIV congresso nazionale del Pci, avverte: “Nessuna politica economica è valida in Italia (…) se non avvia a soluzione la questione meridionale”, insieme al Terzo e Quarto mondo.

 

Sarà poi il turno delle istanze ecologiche, della difesa dell’ambiente, del patrimonio artistico, di una proposta per il rafforzamento dell’economia e dello scambio secondo criteri di reciproco vantaggio.

Ma anche sul versante della legge elettorale e degli schieramenti, incrociare la storia degli ultimi trent’anni della sinistra italiana con le parole di Berlinguer può risultare significativo, come per esempio quando sul bipartitismo egli riflette: “a chi potrebbe convenire, in Italia, un processo di polarizzazione delle forze politiche a due soli grandi partiti? Forse alle forze progressiste che si battono per allargare la base del consenso popolare, per un rinnovamento profondo della nostra società? Il punto è lavorare per ridurre le forze di destra, non lasciargli un intero campo, questa la priorità”.

 

Il gesto suicida di un idiota

 

Beninteso, l’intento di questo scritto non vuole essere apologetico. I limiti e gli errori del Pci di Berlinguer sono stati tracciati altrove, penso al già citato libro di Pons, alle recenti critiche, a volte fin troppo sottili, di Luciano Canfora, che resta una delle voci più acute e originali sulle vicende.

Semmai qui il tentativo è di ri-tracciare le linee principali di un percorso così da fissare almeno un limite, seppur labile, una sorta di soglia, il cui attraversamento produce una rottura di metodi e di generazioni, prima che di idee e azioni. Questa soglia resta labile anche per la distanza che sempre intercorre tra le parole, gli ideali propugnati e la prassi della realtà concreta, pur tuttavia credo che molti dei temi toccati dimostrino un grado di fecondità e dei caratteri originali frutto di alte competenze nella decodificazione dei problemi dell’Italia e del mondo, dai mutamenti tecnologici a quello delle classi sociali, fino all’ecologia e alla giustizia globale.

 

Se gli eredi del Pci in questi trent’anni hanno deciso di attraversare quasi acriticamente questo limite, finendo per produrre una vera e propria dépense, la storia repubblicana sembra come attraversata dal filo della sostanziale impossibilità ad attuare le riforme strutturali di cui il paese necessita. Il nostro declino segue inesorabilmente questo filo, per cui emblematica a tal proposito resta la riflessione di Berlinguer sulla differenza che intercorre tra la visione di generici partiti progressisti, penso all’attuale Pd, e la concezione difesa dal segretario.

Quanto all’aspetto tragico della figura di Berlinguer, letteralmente consunto dall’attività politica,  credo anch’esso dipenda dalla soglia su cui è venuta a svolgersi la sua parabola. Essa richiama alla mente la malinconia della sinistra di cui ha scritto Enzo Traverso, per ricordarci che le grandi sconfitte fanno parte del patrimonio genetico del socialismo, forse fin dai primi cospiratori democratici. Il socialismo è sì una storia di fallimenti, di utopie destinate a cadere e forse a risorgere in altre e inedite forme di lotta, nondimeno il punto non è la sconfitta né tanto meno la meta chimerica, bensì la tensione progressiva prodotta, quella capacità di muovere le energie migliori del paese a una spinta costante verso la giustizia, l’emancipazione e la libertà dei popoli.

 

Facendo nostra la suggestione di Traverso, dovremmo affrontarne le conseguenze e aprirci a una storia dai tratti hegeliani che molti ovviamente, nella loro strenua ricerca di cause eternamente intelligibili, tendono a escludere. Si tratta della storia che a volte si compie indipendentemente dalla volontà degli esseri umani, che vede soccombere la parabola e i tentativi della via italiana alla democrazia radicale di Berlinguer in un quadro internazionale e interno di estrema precarietà e incertezza, dalle variabili indefinibili, in cui non tutti i percorsi sono realmente percorribili contando sulla base della sola propria forza e volontà. O si tratta ancora della storia tolstojana fatta dai popoli, dalla gente senza voce, che pure sussulta e smuove, spostando improvvisamente gli argini che la politica via via edifica nel mondo.

 

Un giudizio storico, soprattutto su periodi vicini e concitati, corre sempre il rischio di ridimensionare la complessità e la portata degli eventi, di risentire di una foga contemporanea, che magari sostituisca con zelo un’attuale fine della storia con le precedenti, accettabile proprio perché figlia del nuovissimo tempo.

Chi avrebbe per esempio predetto il modo in cui è avvenuta la Caduta del Muro, e chi avrebbe intuito le modalità repentine dell’implosione dell’Urss? A questo punto sarebbe lecito chiedersi se altre vie avrebbero potuto produrre risultati molto diversi dal nostro epilogo. Ma così siamo fuoriusciti dall’alveo del metodo storico e scivolati nel campo della filosofia sull’argomento, la quale porta a interrogarci sul senso che volta a volta le epoche conferiscono alla Storia.

C’è ancora un ultimo punto che vorrei toccare in questa vicenda, e riguarda, una volta tanto, la gente comune, che quasi mai fa capolino nei libri della grande storia.

 

Nel paese del fascismo e del carismatico corpo del capo, in cui l’Istituto Luce ci ha abituato alla folla che si annulla al cospetto del taumaturgo duce; ebbene, i comunisti italiani e, nella fattispecie, Berlinguer, hanno incarnato un altro e ben più alto rapporto con le masse.

Quell’uomo mite e introverso, curvo nelle spalle, ritratto di schiena da Luigi Ghirri mentre parla all’immensa folla di Reggio Emilia, rovescia il paradigma estetico della storia totalitaria italiana e fonda una diversa legittimità basata sul coinvolgimento consapevole, per un’idea di società nel rispetto e nella dignità del genere umano. Anche questo carisma indiscusso e il rapporto instaurato con la sua gente e con gli avversari fanno parte della storia di Berlinguer.

 

I suoi funerali, per esempio, nelle immagini di repertorio, testimoniano qualcosa di difficilmente ripetibile nel rapporto tra politica e massa: anche questo è il margine di un’epoca al crepuscolo, almeno nei termini fin qui tracciati, e se il senso finale della storia dei comunisti italiani è risultato ancora una volta irraggiungibile, pieno di errori, abbagli, fallimenti, ciò non vuol dire che quell’esperienza non abbia in seno alcune risposte per il presente, non fosse che per l’esempio di determinazione, di ragione e passione, serietà e responsabilità, e per la prova che è possibile, a costo di enormi sacrifici, contendere l’egemonia alla democrazia demagogico-populisitica, oggi diretta dall’intreccio saldo di mass-media e partiti, e soprattutto che è possibile allontanare i pericoli sempre incombenti sulla democrazia, quella continua minaccia autoritaria dovuta al  sempiterno blocco di potere reazionario – quello sì vincitore della nostra storia – a patto di coinvolgere le masse.

 

Forse sono questi enormi sacrifici, probabilmente è il percorso, il processo, non la meta o il campo, che le generazioni successive a Berlinguer non hanno avuto intenzione di conservare e proseguire, da cui l’oscura volontà di rimuovere e dismettere a tutti i costi la peculiare storia del Pci.

 

Bibliografia

 

Luciano Barca, Cronache dall’interno dei vertici del Pci, 3 volumi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005.

Enrico Berlinguer, La questione comunista, 1969-1975, 2 volumi, a cura di A. Tatò, Editori Riuniti, Roma, 1975.

Enrico Berlinguer, Attualità e futuro, 1975-1984, a cura di A. Tatò, L’Unità, Roma, 1989.

Giuseppe Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, Laterza, Bari, 1989.

Augusto Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.

Lukács parla, Interviste 1963-1971, a cura di A. Infranca, Edizioni Punto rosso, Milano, 2019.

Giorgio Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo, Laterza, Bari, 2005.

Paolo Sylos Labini, La classi sociali negli anni ’80, Laterza, Roma, 1986.

Silvio Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino, 2006.

Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino, 2005.

Enzo Traverso, Malinconia di sinistra, Feltrinelli, Milano, 2016.

 

[Immagine: Berlinguer, Foto di Luigi Ghirri].

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