di Maura Benegiamo
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi
[Pubblichiamo la prefazione di Luigi Pellizzoni al libro di Maura Benegiamo, La terra dentro il capitale. Conflitti, crisi ecologica e sviluppo nel delta del Senegal, uscito in questi giorni per Orthotes]
Prefazione
di Luigi Pellizzoni
Con la terra il capitalismo fa da sempre il doppio gioco. Dalla terra provengono i “doni gratuiti” da cui l’accumulazione dipende; ma, proprio perché gratuiti, per il capitale tali beni di per sé non valgono nulla. Perché acquistino valore devono essere messi a lavoro, e per essere messi a lavoro devono essere appropriati. Come dice Locke, che dell’ideologia del capitale può essere considerato uno dei fondatori, ciò che in origine appartiene a tutti non solo può ma deve essere privatizzato, per motivare il proprietario a estrarne il più possibile valore, a beneficio suo e di tutti.
Da Marx a Weber, da Benjamin a Polanyi: molti hanno argomentato che il capitalismo è più di un’economia. Per usare una riuscita espressione di Nancy Fraser, esso è un ordine sociale istituzionalizzato, allo stesso modo del feudalesimo. Esso comprende quindi non solo un’organizzazione dei rapporti economici ma anche una concezione della realtà, una morale e una strutturazione delle relazioni entro tra tutte le sfere sociali. Per ciò stesso il capitalismo tende a egemonizzare il senso del mondo e dell’esistenza di chi vi si trova immerso, schiacciando o negando l’esteriorità, l’altro da sé. La sua peculiarità sta però da un lato nel fatto che le crisi che attraversa non sono eventi accidentali e disgreganti ma strutturali e propulsivi; dall’altro nella straordinaria capacità di reazione alle minacce esterne. Il capitalismo è finora riuscito a inglobare, a plasmare a propria immagine, tutto ciò che ha incontrato sulla sua strada.
Se ogni ordine sociale non è mai statico, la questione della continuità nel cambiamento o del cambiamento nella continuità si pone dunque in modo assai più pregnante e drammatico per l’ordine del capitale. Ciò che permane si riassume nella validità, confermata a ogni passaggio storico, della formula marxiana M-C-M’. Per il capitalismo la realtà materiale è un mero pretesto, un necessario passaggio al fine di realizzare ciò che davvero conta: l’accumulazione di denaro. È quindi quello che cambia a essere più interessante e importante, perché è lì che si misura la sfida che si produce alla frontiera della mercificazione, là dove il capitale incontra altri mondi, umani e oltre-che-umani, con le specifiche resistenze all’assimilazione che questi sviluppano.
Gli ultimi decenni hanno segnato una svolta profonda nella vicenda storica del capitalismo. La globalizzazione post-fordista è stata accompagnata dalla “rivoluzione” neoliberista, al centro della quale, come Foucault ha colto con chiarezza, sta una peculiare concezione della realtà sociale, vista come caotica e quindi propriamente ingovernabile, nel senso di non orientabile in modo preordinato, e una altrettanto peculiare concezione dell’individuo. Nell’animo di quest’ultimo è visto celarsi l’homo economicus, il soggetto imprenditore di sé votato a una continua auto-espansione, per portare alla luce il quale occorrono politiche mirate, in primis regolative e educative. Se, come è stato detto, ogni economia materiale sottende un’economia morale, una concezione di ciò che è giusto, doveroso, desiderabile, il capitalismo neoliberista ha al proprio fondo una antropologia concepita allo stesso tempo come dato di partenza e progetto da realizzare, con le buone o con le cattive. Un autore come Hayek è molto esplicito al riguardo.
Gli anni della globalizzazione e dell’affermazione dell’ordine neoliberista sono anche anni in cui cambia la concezione della realtà biofisica. Senza dubbio permane il gioco, ben descritto da Jason Moore e prima ancora da Neil Smith, in base al quale la terra, con cui gli umani, come ogni altro essere vivente, intrattengono un legame inscindibile, va prima respinta in un reame a se stante – quello della “natura”, oggettiva e passivamente reattiva – per poi essere inclusa nei processi produttivi. Tuttavia globalizzazione significa virtuale esaurimento della superficie planetaria da esternalizzare, dunque rischio che il gioco si arresti. Più si diffonde, dunque, e più il capitalismo sembra porre le basi per la propria caduta: è l’aporia denunciata da Marx ed estesa da James O’Connor dal lavoro alla terra, dove essa sembra assumere una configurazione difficilmente aggirabile (i “limiti della crescita” denunciati dal rapporto del Club di Roma all’inizio degli anni ’70). La risposta a questa sfida inedita è duplice. Da un lato la frontiera della merce muove dalla superficie verso la profondità del mondo biofisico. La “grammatica interna della natura” (per citare ancora Nancy Fraser) viene sempre più alterata la al fine di intensificare l’estrazione di valore. Dall’altro la narrazione sottesa a tale movimento si sviluppa sempre meno sul piano epistemico (le scoperte geografiche e scientifiche; i diritti di proprietà) e sempre più su quello ontologico. L’alterità del non sociale e del non capitalistico è presentata sempre più insistentemente come già interna al sociale e al capitale, di cui costituirebbe una variante o una forma inespressa. L’ecomodernismo dei think tank neoliberisti e la narrativa delle industrie biotecnologiche lo dicono a chiare lettere: la natura è tecnica e la tecnica è natura; così come l’economia non capitalista è un’economia capitalista non (ancora) capace di riconoscere e valorizzare le proprie potenzialità. Non c’è nessun “esterno”; solo differenziazioni interne a un unico ordine della realtà, dove capitale e mondo sono una cosa sola. Ma lo dice anche la nozione di Antropocene, la cui rapidissima ascesa da ipotesi stratigrafica a idea regolativa putativamente chiamata a riscrivere passato, presente e futuro si spiega solo con la sua perfetta coincidenza con lo spirito del tempo; una coincidenza che sembra catturare perfino pensatori come Dipesh Chakrabarty, che hanno costruito la propria carriera sulla critica post-coloniale della narrazione occidentale. Lo dice anche la crescita impetuosa dell’economia dei servizi ecosistemici, ormai spintisi concettualmente e applicativamente ben oltre le Polanyiane “merci fittizie”, a dichiarare il mondo integralmente e originariamente merce, solo in attesa di corretta valutazione. Tutto ciò, con ogni evidenza, manda in crisi la concezione e la critica tradizionale del capitalismo, che si basano su una distinzione netta tra produzione e riproduzione, sempre meno rinvenibile nei processi di valorizzazione. È per questa ragione che il pensiero ecofemminista, da decenni impegnato a tematizzare la centralità della sfera riproduttiva per l’ordine del capitale, è oggi per molti versi la punta più avanzata e vitale della critica.
Gli anni della globalizzazione neoliberista sono, ancora, anni in cui l’eredità coloniale mostra tutto il suo peso, la sua persistenza, le sue contraddizioni. I programmi di aggiustamento strutturale con cui si è cercato di rilanciare la promessa mancata della modernizzazione hanno messo in piena luce il carattere “necropolitico” (Achille Mbembe) di quest’ultima: l’esclusione e la marginalizzazione che ne costituiscono il complemento necessario sotto forma di scarti improduttivi, modi di vita resistenti al progresso o irriducibili alle sue esigenze, dunque sacrificabili. La colonialità si è riaffermata tramite l’assegnazione alle economie “emergenti” di specifiche vocazioni, da opporre al supposto immobilismo delle economie tradizionali ma, come si è constatato, destinate a rafforzare la dipendenza dai circuiti economici globali. La strutturazione degli stati post-coloniali in base agli istituti politici e giuridici dell’occidente (o meglio, delle versioni di tali istituti propri delle ex potenze coloniali di riferimento) si è poi sovrapposta alle divisioni tradizionali delle comunità locali, dando luogo a nuove disuguaglianze e lacerazioni.
Rispetto a quanto precede gli anni più recenti hanno segnato un ulteriore cambio di passo. La svolta è data dalla crisi del 2007-2008, che colpisce simultaneamente i mercati finanziari e alimentari, nel contesto di problematiche ecologiche (cambiamento climatico, perdita di biodiversità, crescente difficoltà di accesso all’acqua e alle materie prime) che vanno assumendo un aspetto sempre più concreto; minacce planetarie ma imprevedibili e geograficamente difformi nelle manifestazioni. Benché non collegate in superficie, le due crisi lo sono nel profondo in quanto segnalano una disconnessione sempre più drammatica tra realtà e mercato, materia e moneta. Per alcuni la crisi di realizzazione del capitale, al di là di fattori contingenti, è da ricondursi a una tendenza “secolare” verso la stagnazione. Le ultime rivoluzioni tecniche (bio e ICT) non hanno prodotto un salto di qualità nell’efficienza energetica paragonabile a quello della rivoluzione industriale. La loro spinta propulsiva si starebbe perciò già esaurendo. Le oscillazioni monetarie mostrano in ogni caso la vacuità del paradigma neoliberista della “sicurezza alimentare”, impostosi a partire dagli anni ’90 e basato sull’idea che un mercato globale di tipo neoricardiano (specializzazioni competitive) possa fornire a tutti l’accesso al cibo, ovunque prodotto.
È a partire da questi anni che prende consistenza il fenomeno del land grabbing, l’accaparramento di terra, di cui è protagonista soprattutto l’Africa. Esso si inscrive certamente nel solco di un modello consolidato di agricoltura industriale, quello della “rivoluzione verde”, basato sulla monocoltura, lo sfruttamento intensivo e l’inserimento nelle catene globali del valore, ma si segnala per alcune peculiarità. Innanzitutto esso esprime un rinnovato interesse dell’industria alimentare a gestire direttamente le fonti produttive. In secondo luogo, crisi energetica e crisi climatica orientano in modo consistente verso un uso dei terreni a fini non alimentari ma di produzione di biocarburanti. In terzo luogo acquista salienza la fondamentale funzione della terra quale riserva disponibile per ogni evenienza; funzione che torna prepotentemente alla ribalta a fronte di instabilità sociali, finanziarie e ecologiche sempre più accentuate. Una funzione che però si differenzia dalle spinte alla ricerca della rendita caratteristiche dei momenti di crisi produttiva del passato per il fatto di inscriversi nell’acquisizione ontologica del mondo alla sfera delle merci sopra accennata, che costituisce la cifra più rilevante, ma anche più enigmatica (per le interpretazioni tradizionali) del capitalismo odierno. L’importanza della funzione di riserva, generica opportunità, della terra si evince anche dal fatto che i protagonisti dell’accaparramento a volte non hanno alcuna esperienza specifica nelle attività in cui si impegnano.
È proprio la questione del land grabbing – cos’è, su quali assunti e motivazioni si basa, quale ruolo vi gioca l’eredità coloniale, cosa comporta per chi lo subisce, che forme di resistenza determina – il tema con cui si confronta il libro di Maura Benegiamo. Un libro che offre un’indagine illuminante e coinvolgente su questo fenomeno e più in generale sul capitalismo odierno: i suoi tratti peculiari; le esclusioni e marginalità che produce; i suoi impatti ecologici; il rifiuto della sua logica che prende forma sul crinale della necropolitica. Rifiuto che, prima di essere opposizione esplicita, esprime un’incompatibilità profonda – quella che l’autrice chiama “impossibilità fisica di convivenza” – tra capitalismo e altri modi di vivere, di rapportarsi al mondo biofisico, di concepire se stessi, la collettività, il legame tra umano e non-umano.
Il caso al centro dello studio è emblematico. La storia inizia nel 2010 ed è quella di un’impresa italiana che decide di acquisire un appezzamento di 20.000 ettari nel Delta del fiume Senegal, con l’obiettivo di produrre girasoli e patate dolci da cui ricavare bioetanolo. La vicenda si sviluppa nell’arco di alcuni anni, intrecciandosi con le vicissitudini politiche dello stato senegalese, per concludersi, almeno provvisoriamente, nel 2017, con il ritiro dell’investitore italiano a seguito del sostanziale fallimento del progetto e anche per la crescente ostilità delle comunità locali. Ma la storia che il libro racconta è più ampia di quella di un investimento fallito. Ciò che mostra è come il land grabbing prosegua la logica sviluppista post-coloniale, che vede alleati capitali internazionali e autorità locali. Queste ultime la subiscono ma anche la supportano con ogni mezzo, dalla concessione di autorizzazioni di sfruttamento di durata lunghissima al declassamento di aree protette, all’accettazione di studi di impatto costruiti ad arte. La logica sviluppista, mostra ancora il libro, penetra nel tessuto delle comunità locali, dividendo chi in qualche modo ha (o spera di avere) qualcosa da guadagnarci e quelli che hanno tutto da perdere.
Costoro, nella vicenda analizzata, sono le comunità dedite da lunghissimo tempo alla pastorizia e contraddistinte da un rapporto co-evolutivo con una terra dall’equilibrio idrogeologico precario; un rapporto fondato su un senso del luogo, del tempo e dello spazio capace di mantenere tale equilibrio nel suo costante mutare, grazie a una concezione di ciò che vale del tutto estranea a quella dell’appropriazione e dell’industrializzazione. Ciò che dal punto di vista dello sviluppismo appare immobilismo, incapacità di far rendere ciò che si ha a disposizione accettando il cambiamento e cavalcando le opportunità che esso offre, è in effetti una visione completamente diversa di ciò che resta e ciò che cambia, dove la terra non è altro da sé, secondo le categorie del dualismo occidentale, ma qualcosa che procede insieme al collettivo umano. Marginali tra i marginali (ma perfettamente “centrate” rispetto al luogo in cui vivono), povere tra i poveri (ma per nulla tali dal loro punto di vista), queste comunità sono inadatte perfino ai processi “partecipativi” con cui promotori e autorità cercano di legittimare decisioni già prese e gestire il malcontento. Esse sono irriducibili alla categoria dello stakeholder, il “portatore di interesse”; ciò che per loro è importante è irrappresentabile secondo le logiche che governano il processo decisionale. Possono dunque solo essere oggetto di “compensazioni”: la “filantropia”, la benevolenza del capitale che ovunque sta sostituendo sempre più i diritti.
Nella lingua parlata da queste comunità, ci ricorda l’autrice, la parola sviluppo non esiste; non nel senso capitalista, almeno. Il cambiamento c’è – non può non esserci e non essere riconosciuto in ogni assemblaggio socio-materiale – ma non nel senso di un meno e un più, un prima e un dopo linearmente connessi. Nella logica estensiva e conservativa della pastoralità da esse praticata c’è un senso dell’ottimizzazione del tutto differente da quello dell’efficienza estrattiva di valore; più affine semmai a ciò che in occidente è chiamato agro-ecologia: l’integrazione degli “interessi” di tutti, umani e non umani, di ieri, oggi e domani, in quanto inscindibili gli uni dagli altri e quindi inconcepibili in termini di contrapposizione o superamento. Non sorprende, così, che dalle interviste emerga come i pastori non vogliano diventare salariati agricoli, né adottare una logica imprenditoriale di agro-pastorizia intensiva. Né sorprende che chi è abituato a interagire con la terra in modo così diverso da quello proposto nelle varie versioni della rivoluzione verde mostri quella che l’autrice definisce calma, compostezza, saggezza e dignità; un senso del luogo e del collettivo in occidente ormai quasi del tutto svanito, vanamente sostituito da particolarismi e tradizioni inventate.
Il libro di Maura Benegiamo racconta e riflette su tutto questo, mescolando con rara efficacia e perspicacia passione e ragionamento; narrazione di un’esperienza personale, che si intuisce essere stata intensa, profondamente formativa, e collocazione di tale esperienza nelle dinamiche complessive della globalizzazione; focalizzazione puntigliosa sui dettagli di una vicenda specifica, le specificità di un’eredità storica, l’unicità di luoghi e culture, e zoomate all’indietro dell’inquadratura al fine di mostrare le traiettorie di ampia portata, spesso impreviste, che tali peculiarità vanno a comporre. Uno fra i tanti episodi di land grabbing acquista così senso compiuto sullo sfondo delle torsioni del capitalismo globale, gettando a sua volta su queste ultime luce preziosa. È da libri come questo – scritto da una studiosa brillante e appassionata, appartenente a una generazione più disillusa rispetto alla mia ma non per questo meno, anzi ancor più motivata a studiare il mondo, per capirlo e per cambiarlo, mettendo a frutto la sapienza che esso racchiude spesso là dove non ci si attende di trovarla – che possiamo trarre indicazioni importanti per riflettere sul passato, leggere il presente, immaginare un futuro diverso da quello che la logica falsamente inesorabile del capitale sembra imporre.