di Ezio Sinigaglia

 

[Presentiamo un breve estratto dal romanzo Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche, il più recente fra gli inediti di Ezio Sinigaglia a vedere la luce per i tipi di TerraRossa Edizioni, che di questo autore ha già pubblicato nel 2020 L’imitazion del vero dopo aver riproposto, nel 2019, il suo romanzo d’esordio, Il pantarèi (prima edizione 1985). Il frammento fa parte del capitolo intitolato “Sciadè Sulapì”: con questo stesso titolo l’intero episodio è già comparso sulla rivista “Nuovi Argomenti”, n. 81, gennaio-marzo 2018.].

 

Il dono dell’insonnia

 

Sulla soglia del sonno c’era uno spazio di mistero che mi attraeva. Un’instabilità, un’imprecisione vertiginosa. Spessori tenebrosi, ma di tenebra imperfetta, movimentati da subitanei bagliori. La fermezza del mondo era turbata. Credevo di giacere su una zattera, navigando a derive capricciose. Dentro una notte torrida, dolce, tropicale. L’aria densa, friabile, nutriente, come una meringa. La divoravo. Mi divorava. Un cannibalismo reciproco, insaziato. Il mio corpo, a tratti, non aveva peso. Leggero come un ritaglio di carta. Volteggiava, senza cadere. Bastavano soffi impercettibili a sostenerlo. Impalpabili vapori di schiuma. A tratti, e d’un tratto, assumevo una massa imponente, planetaria. Il centro di gravità, però, era bizzarramente eccentrico. E vagabondo. Come se ci fosse una pallina, dentro di me. Tonda, levigata. Di peso immane. Di formidabile concentrazione materica. Una pallina che rotolava, qua e là. Si fermava: in un gomito, in un ginocchio, in un malleolo. In un dito, magari, della mano o del piede. Allora tutto era risucchiato in quel punto. Vorticosamente. Affluivo impetuoso in quell’imboccatura, come l’acqua del lavabo nello scarico. Di là, mi rovesciavo come un guanto. Una notte del tutto nuova. Abbagliante. Giorno, più che notte. Andavo e venivo. Su e giù, dentro e fuori, come un fiume carsico.

 

Esplorazioni emozionanti. Paura ed eccitazione. Scoperte che ribaltavano il tavolo d’un colpo. Il tavolo del sapere acquisito. Tutte le statuette in frantumi. La solitudine spalancava usci segreti. Si viaggiava nel proibito. Una vitalità torbida, morbosa, animava le cose inanimate. Visitavo ogni notte una natura antagonista, dove il liquido prevaleva sul solido, il mobile sull’immobile. La metamorfosi sull’identità. Un dio sensuale, sogghignante, su Gesù d’amore acceso.

Presagi di voluttà mi attraversavano. Fulminei, fuggevoli, come scosse elettriche. Onde di piacere inspiegabile battevano la riva. Proprio su quella linea arcuata, dinamica, che stava fra la veglia e il sonno. Una linea danzante come una frusta. Sibilante, guizzante. Proprio lì, come su una spiaggia introvabile, si abbattevano i marosi dello spauracchio e del visibilio. Varcavo la soglia in un’estasi tiepida, la pelle accapponata di terrore, imperlata di stupefatto appagamento. Varcavo la soglia e rimbalzavo indietro, per varcarla ancora. Era strano, era inquietante, era meraviglioso: la coscienza galleggiava sulle tenebre, il sonno si tuffava nella luce.

 

Una notte ero là, dondolandomi sulla mia segreta altalena. Potevo avere sei anni. Sette forse. Non di più. Piccino e dorato. Consapevole della mia grazia. Ma inconsapevole d’ogni altra cosa. Correvo la vita come un anello variopinto, d’erba e fiorellini, di fiori e gioia. E ogni notte, nella mia corsa, attraversavo quella regione di mistero, che mi attraeva come un tradimento. Così, avevo i fiori del bene e i fiori del male. Il sole e la luna. Il sopra ed il sotto. Ed ero felice nella mia pienezza: non si è mai felici senza un segreto.

Avevo baciato mia madre da un pezzo. Ed ogni altro guardiano della riva. Mia madre per ultima, come ogni sera. Lei si curvava su di me come se il mio sonno fosse una madre notturna, che la sostituiva amorevole nel buio, per restituirmi intatto al risveglio alla madre del giorno e della luce. Il suo bacio non tremava d’apprensione e distacco, ma solo d’attesa. Il mio, invece, era un bacio d’addio. Mi sporgevo sulle sue guance come un marinaio che s’imbarca. Curioso del viaggio, ma sensibile alla mollezza dolce del restare. Appena fuori del porto, le creature sommerse erano in agguato. Io solo sapevo l’ignoto in cui avrei navigato. In mezzo a quali pericoli. Quali Scille e Sirene. Con quanta incertezza del ritorno.

 

C’erano ospiti, quella sera. Accadeva di rado. Mia madre era molto socievole, mio padre assai poco. Gli ospiti rappresentavano il prevalere, raro, sporadico, della volontà materna su quella paterna. Perciò, quando c’erano ospiti, c’era musica. Altrimenti la musica esisteva solo di giorno, e taceva col buio. Ma, quando la volontà materna era libera di espandersi, tutto si faceva dissimile. I lampadari scintillanti di gaiezze iridate. Gli angoli più trascurati e cupi di ogni stanza estratti dalla polvere, dalle tenebre. La tavola affollata di oggetti insoliti, di materiali lucenti: argenti e cristalli, panciute zuppiere dalle rotondità interessanti, piatti e piattini d’ogni misura ed in numero abnorme. La casa era percorsa da inquietudini vaghe, da passi, da voci, da risa. L’elettricità traboccava da tutti i filamenti possibili: dalle lampadine e dai nervi. E infine, visitatore più eccitante di tutti, entrava la musica.

 

(estratto da Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche, TerraRossa edizioni, pp. 165-167)

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