di Stefano Zangrando
Bozen schmerzt, “Bolzano duole” o più prosaicamente “fa male”: questa sentenza emersa di recente durante una riunione on line di alcuni membri della Südtiroler Autorinnen- und Autorenvereinigung (Unione Autrici e Autori Sudtirolo, detta SAAV) potrebbe essere un buon titolo per una lettura tedesca del romanzo Lingua madre di Maddalena Fingerle, Premio Italo Calvino 2020, da poco uscito per i tipi di Italo Svevo. È davvero così: in modo uguale e contrario agli Stadtstiche – “incisioni urbane” ma anche “stilettate” – del poeta considerato l’iniziatore della letteratura sudtirolese, Norbert C. Kaser (ebbene sì, la letteratura sudtirolese pretende di avere una storia tutta sua e, cosa ancor più incomprensibile ai non iniziati, pretende di averne una anche l’evanescente letteratura altoatesina, ovvero il suo pendant italofono), Bolzano-Bozen è una spina nel fianco di chi ci è cresciuto e, per una ragione o per l’altra, ha deciso a un certo punto di prendere il largo: di tenersi a distanza dalla sua asfittica insularità di capoluogo incuneato prima a martellate fasciste e poi con più diplomatiche arti repubblicane in una terra alpina ed ex-asburgica per secoli forgiata da un’ombrosa ruralità.
Vero è che, dopo quasi un secolo di convivenza più o meno conflittuale, negli ultimi decenni si constata un mutamento di visione e paradigma: forse anche grazie a una qualche metabolizzazione del lascito di Alexander Langer, un compiaciuto assenso all’oggi pare aver addomesticato buona parte degli autoctoni, forse arresi lor malgrado all’idea che lo status di minoranza spetterebbe con maggior diritto alle altre decine di gruppi linguistici ormai presenti in provincia e meno abbienti e tutelati di loro. Permane tuttavia un’incoercibile tendenza all’autoreferenzialità, anche nel campo letterario, come dovettero notare qualche anno fa i membri del blog Nazione indiana, quando furono invitati a un convegno letterario bilingue che organizzai con l’Unione di cui sopra. Nella sala del Museion che ospitava le sessioni vere e proprie gli uditori non furono mai più di una dozzina, ma alla presentazione, a mo’ di intermezzo, di un volume locale su “narrazione e storia” accompagnata da un buffet offerto dall’editore e dalla SAAV accorsero almeno in cinquanta – salvo poi dileguarsi alla ripresa delle sessioni. Bolzano è anche un po’ questo: un fuggi fuggi quando manca l’etichetta “Alto Adige”.
Maddalena Fingerle, che a Bolzano ci è nata ventotto anni fa, in quei giorni non c’era, si era già trasferita da un po’ a Monaco di Baviera, dove oggi sta svolgendo un dottorato in italianistica su Tasso e Marino alla Ludwig-Maximiliam-Universität. Eppure a pagina 58 del suo romanzo d’esordio si trova un’allusione a quella stessa ombelicalità: «non ci va mai nessuno a sentire la gente da fuori, dall’Italia vera, ma neanche dalla Germania o da qualsiasi altra parte del mondo che non sia l’Alto Adige-Südtirol. Perché ai bolzanini interessano solo le radici e il territorio e le beghe sui monumenti e sui nomi delle strade e hanno paura della Mischkultur e hanno paura di perdere radici, identità, cultura e se per caso ci vanno, a sentire quelli che vengono da fuori, non perdono tempo e si mettono a raccontare le storie delle radici e del territorio e le beghe sui monumenti e i nomi delle strade e dicono che siamo tutti bilingui, trilingui, quadrilingui, anche se non è vero niente». La citazione è ampia poiché non sono molti, fuori da questa provincia, a conoscerne i limiti peculiari, frutto di una storia e di tensioni difficili da concepire in regioni estranee alle insidie dello spartiacque alpino.
La questione di fondo, tuttavia, viene solo alla fine del brano citato, e cova nella lingua. Giacché è di questo che parla Lingua madre, ed è da qui che il romanzo di Maddalena Fingerle muove per approdare a un livello di anamnesi molto più che locale, approdando a quello che un tempo si sarebbe chiamato l’universale umano. Prendiamo le premesse della trama: Paolo Prescher, il protagonista il cui nome è anagramma di “parole sporche”, è un bambino che cresce in una famiglia bolzanina di lingua italiana inficiata da una tara relazionale. La madre Giuliana, nel racconto del giovane narratore, è una donna «stupida», «presa da se stessa», che «piange» e «stressa», ma soprattutto è colei che «sporca le parole» al figlio. Per questo Paolo fin da piccolo è «ossessionato dalle parole», ha «le parole in testa», così come deve averle avute un tempo il padre Biagio prima di piombare in un «mutismo» o «afasia» la cui causa rimane inespressa, abbandonata a una duplice congettura: resa estrema allo stesso «sporco» causato al linguaggio dalla madre, come ritiene il figlio, o senso di colpa per un omicidio involontario, come invece sosterrà lei. Sta di fatto che, dopo il voto del silenzio, il padre ha apposto su ogni oggetto di casa un’etichetta con il nome: sedia, poltrona, pavimento, letto. Parole che per Paolo non sono soltanto sporche, ma indissolubilmente legate in forme sinestesiche alla realtà domestica, per cui ad esempio «la parola pavimento è di legno e sa di cera», mentre la poltrona Frau verde, poiché la madre se ne vanta con le amiche e una zia molesta vi si siede spesso, «mi sporca la parola poltrona che puzza di cosce incollate». C’è poi la sorella maggiore Luisa, con cui la madre intrattiene un rapporto pseudoamicale dai tratti morbosi e votato a un chiacchiericcio inautentico, con approdi regolari a ipocrisia e falsità, e nel quale si trasfonde una comune «cattiveria», anche questa mai espressa se non in forme nevrotiche, mediate. E infine, oltre a un cane, c’è una nonna che «parla bianco» ed «è l’unica che ha il coraggio di dire a mia madre di stare zitta». Questa è grosso modo la costellazione familiare in cui il protagonista cresce nella prima parte del romanzo, che si chiude con la maggiore età, il suicidio improvviso del padre – che la lingua di Paolo tenta di disinnescare nell’istante traumatico ricorrendo a un disperato eufemismo –, il diploma di maturità e la scelta subitanea di smettere di usare l’italiano, di parlare d’ora in poi solo in tedesco e fuggire a Berlino.
Messo in questi termini, il romanzo parrebbe invitare decisamente a un’interpretazione psicoanalitica di stampo lacaniano: c’è una madre narcisista che sembra non aver mai offerto al figlio uno sguardo, un riconoscimento che gli conferisse il tratto unario dell’identificazione simbolica – quando impara a dipingere, Giuliana ritrae prima la figlia, poi se stessa e, al primo maldestro tentativo ai pennelli di Paolo, gli «ruba la tela e la usa per fare un quadro brutto lurido schifoso che mi fa schifo e mi fa male», e ancora anni dopo attribuirà il successo di Paolo alla maturità non al suo merito, ma a un’intercessione del padre morto –; c’è un padre il cui nome parlante dice l’inceppamento del linguaggio e il cui silenzio revoca la possibilità di significazione che, se il padre fosse stato terzo fra il soggetto e l’Altro, avrebbe permesso a Paolo di accedere al simbolico tra parole e cose, evitando che in lui le prime collimassero con le seconde fino a generare realtà letterali; c’è una sorella che unisce in sé corpo, eros e sozzura, e dai cui agiti affiorano punte di sadismo. C’è insomma una violenza diffusa, sempre sottotraccia, quasi sempre sublimata in nevrosi e ossessioni, la stessa che Paolo si limita a esprimere sotto forma di rabbia linguistica, ora culminante in aperte dichiarazioni di «odio», ora in turpiloqui insultanti ma impotenti. C’è dunque una condizione pre-psicotica, che verrebbe magari utile anche come chiave di lettura per il seguito della storia: a Berlino il narratore incontra la giovane milanese Mira di Pienaglossa (anagramma di Sapone di Marsiglia), che a dispetto della «paura» e dell’«ansia» di Paolo si rivelerà, oltre che sensibile e accogliente, capace di “pulire la lingua” fino a fargli ritrovare la parola italiana. Ma quanto avrebbe senso leggere il passaggio a Berlino come una messa in sicurezza del nevrotico grazie a un nuovo contesto, nonché a una relazione sana e curatrice, per poi cogliere nella terza parte, nel ritorno a Bolzano con Mira incinta, il progressivo riassorbimento nell’ambiente malato dal quale nasceranno i cortocircuiti che condurranno Paolo allo scompenso e al drammatico delirio finale?
Al di là di tanti indizi, non credo sia questo il modo in cui la storia chiede di essere letta. O almeno non è così che se ne può cogliere la qualità profonda, il suo valore estetico ed esistenziale. Peraltro, più che inquietare, Lingua madre è un romanzo che fa spesso ridere. Ed è un testo che, a dispetto della sintesi qui sopra, impiega tutte le sue forze per obliterare la violenza, che invoca non-violenza, delicatezza anche in chi legge, rispetto della sua «velatura» e della sua «verniciatura», come quelle in cui Marino traveste i suoi soggetti erotici, come quelle che Paolo apprezza nei quadri: «perché sono un po’ una magia che cambia tutto. Con la velatura si copre il quadro con veli e veli e veli di ragnatele che se guardi bene li vedi, sennò no. La verniciatura invece imbalsama tutto dietro uno strato che dice: finito, il quadro è finito». Varrebbe la pena di tenervisi anche solo per la qualità di una simile chiusa di frase.
Ripartiamo dunque dall’inizio: «È da quando sono nato che mia madre piange. Piange perché la mia prima parola è parola. Piange perché dico parola e non mamma. Piange perché papà non parla nemmeno quando dico parola e non mamma. Mia madre piange, piange, piange. Piange perché le dico che ormai parola non significa più parola perché lei mi ha sporcato la parola». Così si apre il romanzo. Cosa ci dice questo incipit? Che Paolo è innanzitutto un personaggio, e sua madre è la lingua. È innanzitutto figlio della parola, di cui per prima pronuncia il nome, e come tale chiede di essere compreso. La madre in carne ed ossa che gli ha sporcato la parola è un a priori che l’ipocrisia borghese bolzanina non basta a fondare, ma chiede di essere preso così, nella sua datità netta, come il salto temporale che nel giro di quattro frasi porta il protagonista dalla prima parola pronunciata a una proposizione strutturata: c’è in tutto il romanzo un cosciente scavalcamento del realismo psicologico e della scansione convenzionale dei tempi biografici. È la lingua come stile e come tema a dettare il racconto: non solo il suo ritmo, il suo tempo o le sue evoluzioni, ma la stessa sostanza dei personaggi. Eppure è proprio stando a questo patto di velatura linguistica che si riesce ad entrare nel vivo mentale e biografico del protagonista: è così che Paolo si fa conoscere, perché così chiede di essere conosciuto.
Quello che si apre a questo punto è tutt’altro racconto: Paolo Prescher è un picaro in cattività, un outsider e un rompiscatole la cui ossessione linguistica smaschera a ogni piè sospinto l’inautenticità degli altri e le loro vanità intrise di conformismo – qualcosa di non troppo dissimile da ciò che Heidegger scorgeva nel regno del «si» impersonale, nel man della collettività uniformata. Peccato che neppure la filosofia, nell’universo mentale di Paolo, debba essere presa troppo sul serio: Paolo legge di straforo, da un suo personale «Indice dei libri proibiti», i libri della madre che questa gli preclude, ma il suo proposito di «capire Husserl», almeno per ora, è più il disgusto anagrammatico verso la sorella che un proposito conoscitivo (mentre alla madre, più avanti, concederà senza nascondimenti l’anagramma più convenzionalmente schifoso). Per non parlare della letteratura, o di chi pretende di rappresentarla: Paolo smaschera senza fatica l’egotismo dell’amico scrittore della madre, guadagnandosi un cazziatone che fa concludere il primo capitolo come una sit-com.
Tutto il resto viene di conseguenza: Paolo cresce, va alla scuola media, inizia a conoscere meglio la città in cui vive, gli «italiani», i «tedeschi», e si affeziona a un compagno di madrelingua tedesca, Jan Einstatt, che si dice bilingue, si sente «sudtirolese» ed «europeo» e ai mondiali tifa per l’Italia, ma più che altro si caca addosso. La madre corregge la lingua di Paolo in nome di un politicamente corretto cui questi si oppone con rigore filologico mentre inizia a scoprire che, nel bilinguismo, «le parole hanno un potere metamorfico sulle cose». Capisce allora di non avere mai avuto una «lingua della famiglia» né tanto meno, come Jan, una «Heimat» (la terra d’origine, in cui ci si sente a casa), ma anche che, se di una lingua sente la mancanza, è una lingua «di papà più che di mia madre», magari un «dialetto». Il padre è infatti la sola persona che Paolo sente vicina, e che lo capisce se il vestirsi «a cipolla» per una gita scolastica induce il ragazzo a lacrimare per davvero. Paolo scopre la dizione, con cui cerca di smarcarsi dalla pronuncia bolzanina, che non sopporta; poi viene il liceo classico, ma è deludente, perché neanche lì le parole sono pulite, come non lo sono in generale a Bolzano, dove «si contestualizza sempre tutto e si contestualizza in continuazione e si sporca tutto», come quando si appone pubblicamente un motto di Hannah Arendt di fronte a uno di Mussolini o si tenta di cambiare il nome di una piazza di epoca fascista da «vittoria» a «pace».
La rivolta glottopatica di Paolo, acquisendo coscienza politica, assume così una connotazione antiborghese che assorbe nell’idiosincrasia anche il silenzio paterno e culmina nel rifiuto, raggiunta la maggiore età, di fare la cosiddetta dichiarazione di appartenenza al gruppo linguistico. In compenso egli scopre di potersi nutrire di italiano pulito, come il non-bolzanino di un’amica di famiglia, che lo «sfama» al punto da togliergli l’appetito vero («globo, ad esempio, è un pasto completo»). Alla morte improvvisa del padre, Paolo se ne assume la colpa – «sono io che non ho trovato le parole per comunicare con lui» – e dopo il funerale fila in doccia per togliersi di dosso tutte le parole sporche di madre e sorella che avevano ammorbato le esequie, e non solo quelle. La sua rabbia è grande, la lingua ormai «lurida», la promessa fatta al padre di trovare «parole pulite» è fallita, le parole in testa «si confondono e si aggrovigliano […] è tutta colpa di mia madre», quindi Paolo decide di non parlare «mai più in italiano con nessuno», opta per il tedesco e, dopo il diploma, decide ex abrupto di partire per Berlino, a sciacquare i panni nella Sprea.
Da questo punto in poi la narrazione si fa più fluida, la lingua più solida, Paolo inizia a credere in sé stesso (del resto poteva riuscirci soltanto lontano da casa, dove non era visto o, se lo era, era in forme svalutanti), si nutre di parole pulite tedesche, la sua voce si fa «più maschile, più adulta», legge Bernhard e Kraus – che con Wittgenstein ammiccavano fin dall’inizio dal tessuto intertestuale del romanzo, come ora fanno Thomas Mann e il Canetti di Auto da fè –, cità l’Husserl della «sintesi passiva» (qui da prendere un po’ più sul serio), lo Scheler del pudore e a contatto coi tedeschi la sua bolzaninità produce effetti comici. Trova lavoro in una biblioteca e una stanza da un collega, conosce Mira e scopre che forse per lui la Heimat è questo, «non sentirmi solo». Il tedesco gli dà parole per nominare il disagio delle origini, mentre Mira, l’anti-madre, «pulisce quando parla» (in italiano) – «le parole pulite sono così: dici una cosa e intendi quella cosa, sono vere e limpide, non ci sono associazioni mentali che le rovinano, che le macchiano o le sporcano» –, al punto che, al primo appuntamento, Paolo cede e si lascia scappare una parola italiana. È crisi, ma non dura: Paolo si lava, declama Tasso fra sé e sé e chiede mille scuse al padre, Mira non fa domande, il pulito ritorna, Paolo è innamorato, semmai prova «vergogna», «agitazione» o «imbarazzo». L’attaccamento è parecchio insicuro, ma ci sta, e comunque l’amore è corrisposto, presto l’idillio è anche linguistico e perfino il nome Paolo «è un nome nuovo e bellissimo». Il resto è bohème berlinese, liberante, igienizzante e non priva di nuovi risvolti satirici intorno allo scrittore famoso amico della madre, nel quale chiunque bazzichi l’ambiente reale potrà riconoscere un tipo familiare, a piacere.
Nel frattempo, tuttavia, la precoce gravidanza di Mira induce i due a una decisione: torneranno insieme in Italia, anzi a Bolzano, che nel frattempo a Paolo appare meno minacciosa, perché lui nel frattempo è «cresciuto» e perché a Mira piace. È un’illusione che il riapprodo concreto alla terra nativa distruggerà presto, ma non subito: lo sguardo del protagonista, mondato da Mira e dal contesto berlinese, gli fa riscoprire la città, perfino le parole della madre suonano «rimpicciolite». Ma basta che Mira utilizzi per caso parole che Paolo aveva sentito usare molto prima dalla madre perché venga sollecitata la Sollbruchstelle (la parola preferita di Paolo): «un punto di rottura prestabilito che può essere quello delle tavolette di cioccolata e per me significa confine». Meriterebbe un discorso a parte il modo in cui Maddalena Fingerle, nata e cresciuta in un luogo che del confine ha fatto uno dei suoi cliché più logori, ne scompiglia la natura e la funzione – c’è peraltro una soglia comunicativa tra verità e falsità di cui la seconda metà del romanzo offre demistificazioni molto vive e delicate. Basterà dire, per ora, che da questo momento riparte in Paolo l’idiosincrasia, lo sguardo su Bolzano torna via via a irritarsi e, con esso, appare il timore di sporcare le parole «alla bambina» – perché Paolo è convinto che sarà femmina.
Il problema ulteriore di trovarle un «nome pulito» si risolve presto in un patatrac, e il punto di rottura è dato dalla madre. Ma qui lascerei Paolo al delirio ossessivo-compulsivo che porta al finale, annunciato poco alla volta da dettagli ben disseminati, attraverso uno stile che è un pastiche furioso di registri, citazioni e idiomi in cui il tragico, anziché stemperarsi in letterarietà, si fa incubo prosastico. Poiché, al di là della fine, c’è da chiedersi cos’è successo a Paolo al netto dell’espediente psicotico, nel suo tema esistenziale e romanzesco, che è la «lingua madre». La mia conclusione, da bolzanino smammato come Paolo Prescher, è che questo personaggio senza predecessori, quindi senza famiglia, svela un’opzione finora inesplorata dalla letteratura che muove dalla terra di confine Alto Adige-Südtirol, e cioè che la lingua italiana, in un contesto del genere, è lingua matrigna. A Bolzano, da italofoni impiantati a suon di ondate paracolonialiste, privi di una lingua del luogo – di un dialetto –, condannati fin da piccoli all’artificio dello standard per potersi strutturare nel linguaggio, si è stranieri nella propria madrelingua.
Paolo Prescher dà voce allo spaesamento radicale del soggetto che vive il confine da orfano, alla sua tara identitaria che si revoca soltanto nella liberazione provvisoria dell’altrove e nella ricerca spasmodica, destinata a un perpetuo scacco, di una lingua che sia davvero propria, che sappia unire in sé verità e velatura. Maddalena Fingerle questa lingua l’ha trovata nella parola romanzesca e ha scritto così il primo romanzo su Bolzano non destinato ai bolzanini, ma alla letteratura, sovvertendo così le attese autonarrative di questa città ombelicale, che duole, che fa male soprattutto a se stessa. E alla quale, per conforto, resta l’eterna mummia Ötzi, ad esprimere la museificazione ad uso turistico di un passato localissimo che, nel migliore dei casi, è degno di «ricerche sul contenuto dell’intestino». Merda, madre.
Complimenti a Zangrando per il saggio e a Fingerle per questo romanzo, che dimostra cosa succede quando un tema “produce” la narrazione, o la detta, come scrive Zangrando, senza restare soltanto una parentesi avulsa dalla storia e concepita a tavolino per poter dire che “il tema è questo”. In bocca al lupo a “Lingua madre”.