di Giuseppe Nibali

 

La sensazione che serpeggia tra noi[1] la spiega benissimo Don DeLillo nel suo folgorante The Silence, racconto breve pubblicato da Einaudi quest’anno e cronaca esatta di un momento collettivo di disperato altrove. Nell’opera una non meglio precisata catastrofe, forse il rovesciamento dei poli magnetici del pianeta, precipita il mondo in uno spaventoso black out (colpendo chi si trova in aereo, chi in casa di amici a guardare la partita). Il silenzio, appunto.

Ne segue una serie disordinata di domande senza risposta, teorie del complotto e altro chiacchiericcio, sul cui sfondo «tutti camminano, guardano, si interrogano, donne e uomini, drappelli casuali di adolescenti, tutti che si accompagnano vicendevolmente mentre attraversano l’insonnia di massa di questo tempo inaudito»[2]. Le similitudini col nostro tempo, come è ovvio, si sprecano.

 

Il termine Antropocene è stato proposto per la prima volta da Paul Crutzen, diventando nel tempo uno slogan, una battuta imparata a memoria e a memoria ripetuta. Nella sua prima teorizzazione il termine aveva dei connotati ben chiari: «il nostro presente è l’Antropocene; questo è il nostro tempo. Ma tale presente si rivela essere un presente senza avvenire, un presente passivo, portatore di un karma geofisico che non abbiamo assolutamente potere di annullare»[3]. Un presente, ci sentiamo di aggiungere, in cui il rapporto di forze tra uomo e fenomeni naturali, dopo duecento anni, torna ad essere paurosamente sbilanciato, in cui il mondo, insomma, torna a spaventarci. Antropocene è diventato nel tempo lemma polisemico, se ne parla in geologia, per riferirsi alle microplastiche presenti nei mari e negli ammassi rocciosi; in letteratura e filosofia; in zoologia, perfino, con un allungamento degli animali selvatici verso gli habitat umani. L’astrofisico Martin Rees, nel suo “Il Secolo finale” mette in luce alcuni dei problemi legati alla costruzione e alla manipolazione dei virus in laboratorio, in questo tempo, l’autore parla di «nanomacchine» e «organismi onnivori che possano prosperare ovunque»[4] e arriva a preconizzare una possibile catastrofe su scala mondiale a partire proprio da un agente patogeno, naturale o artificiale. Ma ciò che da Rees è stato solo ipotizzato, è stato puntualmente predetto da David Quanmen, diventato celeberrimo nel 2020 grazie soprattutto al suo Spillover: «è ipotizzabile che la prossima Grande Epidemia (il famigerato Big One) quando arriverà si conformerà al modello perverso dell’influenza, con alta infettività prima dell’insorgere dei sintomi. In questo caso si sposterà da una città all’altra sulle ali degli aerei, come un angelo della morte»[5]. Nel testo, il saggista statunitense cita la possibilità concreta che questo arrivi direttamente dai pipistrelli.

 

Quanti pericoli, quanti ostacoli, porta con sé questo nostro tempo, «è curioso – a questo proposito – notare che rispetto alle tre grandi idee trascendentali di Kant» affermano Danowski e Viveiros de Castro in “Esiste un mondo a venire?”, stiamo assistendo al crollo dell’ultima, «visto che Dio è morto tra il XVIII e il XIX secolo, l’anima poco più tardi, lasciando così il Mondo come ultimo e vacillante bastione della metafisica»[6]. Ne segue un ripiegamento pauroso su se stesso dello slancio futuristico cavalcato orgogliosamente dall’uomo nel secolo scorso, conquista della luna, parità dei diritti, terzomondismo: «ci credevamo destinati al vasto oceano siderale, ed eccoci di nuovo respinti al porto da cui siamo partiti»[7]. Perché è successo? Perché siamo caduti? Esisteva il futuro, prima?

 

Tutta la cultura occidentale moderna si è fondata su una credenza fondamentale quanto fallace, si pensava che il futuro fosse promesso «come una specie di redenzione laica, di messianesimo ateo. Ma questa promessa non è stata mantenuta. Ecco perché la crisi attuale è diversa dalle altre a cui l’Occidente ha saputo adattarsi: si tratta di una crisi dei fondamenti stessi della nostra civiltà»[8]. Come scrivono gli psicologi Benasayag e Schmit, «si sta ormai affermando l’idea che l’uomo non possa fare altro che subire le forze irrazionali della storia»[9] e che questo comporti naturalmente tutta una serie di contraccolpi psichici in una specie che, mentre affonda nel fiume, rimane convinta di possedere la tecnologia per guadarlo.

 

In questo quadro il virus è andato a intaccare problemi che gli preesistevano, acuendoli spesso in modo drammatico. La tecnologia, ripetiamo sempre, ci è venuta in aiuto: le scuole hanno continuato ad andare avanti con la didattica a distanza, la politica ha cercato di dare risposte (opposte da Paese a Paese anche all’interno della stessa Unione Europea), tramite smartphone siamo rimasti vicini ad amici e parenti lontani anche migliaia di chilometri. Ci crediamo, la nostra fede nella tecnologia rimane ben salda perché anche se «ogni giorno siamo letteralmente bombardati da informazioni apocalittiche su ciò che avviene nel mondo […], a poco a poco, anche se continua a costituire una minaccia, la catastrofe smette di essere un’”attualità”, […] è così che le nuove minacce vengono accettate, diventando parte integrante dell’orizzonte normale, o perlomeno normalizzato della nostra quotidianità»[10]. È davvero così? Ripensiamo ai telegiornali durante i primi giorni di pandemia. Ai primi morti, quelli che hanno avuto il privilegio di un nome, di una famiglia, di una storia. Il caso di Vo’, quello di Codogno. Da lì in poi più o meno cinquecento morti al giorno, nel silenzio nazionale, mentre mangiamo l’affettato, la sera.

 

Bisogna concentrarsi, per capire la situazione, sul carattere iperoggettivo che assume la questione Covid sulla percezione. Iperoggetto è, secondo il suo teorizzatore, Timothy Morton, un fenomeno che mette in discussione la nostra percezione del tempo e dello spazio, perché la sua distribuzione geografica non consente la nostra immediata comprensione e perché i suoi effetti durano più della nostra vita. L’aumento dei contagi in Francia? Iperoggetto; l’aumento dei contagi in Lombardia? Per i liguri è un iperoggetto; Nembro e Codogno? Per un cittadino milanese sono stati un iperoggetto. Il proprio nonno che muore di Covid a Milano è un fatto.

 

Negli scorsi mesi è diventato virale sui social un video che mostra Khing Hnin Wai, insegnante di aerobica, che tiene il proprio corso online con un completino fluo, mentre alle sue spalle si sta consumando il colpo di Stato in Myanmar. Dietro la ragazza si intravedono uomini e veicoli dell’esercito correre per le strade della capitale Naypyitaw. Molti utenti hanno messo in dubbio l’autenticità della clip, facendo notare per esempio come l’ombra della donna subisca dei tagli, ricada male. Ma in un articolo il The Guardian prova che il video è reale, la stessa donna ha infatti replicato tramite il suo profilo Facebook pubblicando molte altre foto che la immortalano nello stesso posto durante le sue lezioni, sempre con vestiti diversi.

 

Spiegare le azioni di quella donna è ovviamente compito arduo: spiegare perché quella donna rivolga le spalle alla storia per guardare un piccolo schermo che la riflette è difficilissimo se non entriamo nelle categoria della contemporaneità per le quali «lo smartphone è un oggetto devozionale di natura digitale, anzi è per eccellenza l’oggetto devozionale del digitale»[11]. Tradotto: noi siamo noi perché un sistema digitale ci riconosce, per ottenere questo riconoscimento dobbiamo esercitare la nostra cittadinanza digitale postando, condividendo, likeando. Siamo noi perché il nostro avatar ha una serie di follower che lo certificano come vivente e come operante (ristoratore, modella, blogger, scrittore, istruttore di fitness). Ma questo io che si riflette nello specchio finisce per forza di cose per coincidere lacanianamente con lo specchio nel quale si riflette causando nell’individuo una dipendenza narcisistica e nella società un vuoto politico.

 

Hic sunt dracones era scritto nelle carte geografiche latine e alto-medievali, per indicare al navigante, più spesso allo studioso, come lì ci fosse una terra selvaggia, fuori dal limes, abitata da creature bizzarre, da mostri bitorzoluti e da draghi, il cui «carattere polimorfo […] si presta a ogni sorta di rappresentazione, a tutti i possibili contorcimenti, deformazioni, sdoppiamenti e moltiplicazioni»[12]. In quella terra siamo approdati. Il carattere iperoggettivo dei fatti della storia non ci permette di affrontarla né di comprenderla, il virus e la pandemia hanno agito da acceleratori, quei sentimenti di sconfitta si sono fusi nella creazione di una nuova spazialità dentro alla quale gli strumenti stessi della vecchia democrazia (i circoli politici, la scuola, la socialità di piazza, gli scioperi) non trovano spazio. Qui la libertà «del cittadino cede alla passività del consumatore. L’elettore in quanto consumatore non ha oggi alcun interesse reale per la politica, per la costruzione attiva della comunità»[13], per questo non deve stupire, attorno a noi, questa confusione: leader che seguono il consenso non riescono a esprimere, a livello mondiale, risposte convincenti. Assecondando continuamente una domanda resa sclerotica da fake news e disinformazione, difficilissimo è per il politico contemporaneo, stare al passo, impossibile è diventato proporre per primi. Ne viene fuori un cortocircuito di significati che porta sempre nella stessa direzione: il polimorfismo, la “democrazia degli spettatori” dove i leader sono «qualcosa di più simile a bottegai che legislatori, ansiosi di scoprire cosa vogliono i loro clienti per restare a galla»[14].

 

Ci troviamo anche noi dentro l’opera di DeLillo, anche qui qualcosa è successo, ma per contrasto o rovesciamento il silenzio ha avvolto le strade, ripiegando la metafora usata dallo scrittore. Piazze e scuole sono rimaste deserte, la storia ha continuato ad agire, come tutto ciò che è maestoso, dietro le nostre spalle, mentre cantavamo ai balconi, scrivevamo articoli, registravamo una lezione di fitness, tutto sotto l’occhio vigile dei nostri dispositivi elettronici, il drago, appunto, «la creatura più instabile della zoologia dei bestiari»[15].

 

 

[1] Leggasi col “noi” i viventi di lingua italiana (per estensione massima delle possibilità dell’articolo in oggetto) socialmente attivi all’epoca Covid.

[2] Don DeLillo, Il silenzio, Torino, Einaudi, 2021, p.68.

[3] Deborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Milano, Nottetempo, 2017, p. 29.

[4] Martin Rees, Il secolo finale, Milano, Mondadori, 2005, p. 67.

[5] David Quenman, Spillover, Milano, Adelphi, 2014, p. 219.

[6] Deborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, op. cit., p. 36.

[7] Ivi, p. 25.

[8] Miguel Benasayag e Gérrd Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2005, p.39.

[9] Ivi, p. 22

[10] Ivi, p. 49.

[11] Byung Chul Han, Psicopolitica, Milano, Nottetempo, 2016, p. 22.

[12] Michel Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Torino, Einaudi, 2011, p. 255.

[13] Byung Chul Han, Psicopolitica, op. cit., p. 20.

[14] Colin Crouch, Postdemocrazia, Bari, Laterza, 2000, p. 27.

[15] Michel Pastoureau, Bestiari del Medioevo, op. cit., p. 255.

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