di Luca Lenzini

 

E nell’orror della secreta notte

La ginestra, v. 280

 

I.

Nel capitolo sedicesimo del Libro diciannovesimo delle Memorie d’oltretomba Chateaubriand racconta la «Campagna di Siria» di Napoleone (1799). Nella descrizione della ritirata dei francesi dalla Siria in Egitto una pagina indelebile è dedicata alla morte di un soldato colpito dalla peste, che in preda al terrore di essere abbandonato, barcollando e cadendo a più riprese cerca di raggiungere le truppe in marcia, per giacere infine «nel punto che il destino gli aveva assegnato come tomba.[1]» Di seguito annota Chateaubriand:

 

Quando i nostri soldati, diventati impassibili, vedevano uno dei loro disgraziati compagni seguirli come un uomo ebbro, inciampando, cadendo, rialzandosi e ricadendo per sempre, dicevano: «Si è acquartierato[2]».

 

Nell’originale la frase finale è Il a pris ses quartier, che appartiene al gergo militare e condensa con rude efficacia l’atteggiamento del soldato che, diventato «impassibile» per la consuetudine con la morte, così designa, a mo’ di epitaffio, quel prender dimora di chi rimane indietro e finalmente si arresta, mentre l’armata prosegue nel suo cammino. Più avanti Chateaubriand cita un brano dai Mémoires di Bourrienne, il Segretario di Napoleone:

 

… Eravamo circondati solo da moribondi, da predoni e da incendiari. Dei moribondi accasciati sul ciglio della strada dicevano con voce fievole: Non sono un appestato, sono solo ferito; e, per convincere i passanti, se ne vedevano alcuni aprirsi le ferite o farsene delle nuove. Nessuno ci credeva; si diceva: È spacciato; si passava oltre, ci si tastava e tutto era dimenticato[3].

 

Come in tanti hanno osservato, c’è stato un momento, nella fase iniziale e più devastante dell’epidemia Covid, che nel susseguirsi dei bollettini giornalieri dei decessi – death tolls, secondo l’espressione inglese – nelle immagini della sfilata notturna dei camion militari con le bare dei morti nelle strade di Bergamo ha d’un tratto trovato la sintesi che fino ad allora le parole non erano state capaci di esprimere. Un profondo shock ha scosso allora la coscienza collettiva, tale da non poter essere riassorbito neanche dalla straordinaria e strafottente capacità, propria dei media, di produrre dimenticanza attraverso l’accumulo indifferenziato e incessante di immagini seducenti o efferate, di allarmi sedativi e raffiche di vuote o finte “notizie” – la macchina, in altre parole, che Josif Brodski una volta definì le «ruspe» della società di massa, capaci di tutto metabolizzare e di nulla far comprendere. Ma forse proprio il carattere di massa e anonimo della tragedia conferiva a quella sfilata notturna un’aura inedita e perturbante, pregnante e non domabile: sottratte com’erano ai consueti rituali di addomesticamento della morte, e perciò capaci di risvegliare qualcosa che era insieme “moderno” e “arcaico”, le immagini di quel corteo funesto, riprese da un interno anch’esso anonimo, apparvero doppiamente spettrali, con il loro inquietante e indefinito appello a strati rimossi dell’esperienza, ad alcunché di catastrofico e di eccedente la parola, di cui lo scenario militare era parte integrante.

 

Come mai prima, il richiamo alla comunità nazionale  cominciò allora a risuonare dappertutto, evocando uno stringersi e farsi forza riuniti sotto uno stesso vessillo, la vecchia bandiera che si affacciava dai balconi soltanto per Olimpiadi e Mondiali di calcio. In un batter d’occhio i plotoni  dei pubblicitari si appropriarono, per i loro spot, di quello sventolìo patriottico: à la guerre comme à la guerre, dopo tutto era quello il motto che da sempre la campagna neoliberista aveva preso a insegna per inoculare il darwinismo sociale fin nelle cellule degli individui, eternizzando l’homo homini lupus (il cui corollario suona, com’è noto, mors tua, vita mea). Intanto però, dall’inconscio collettivo, laddove la storia di tutti e le storie singolari e familiari si mescolano provocando imprevedibili alchimie, riecheggiarono altre sfilate di mezzi militari e altre povere vittime, insinuando l’angoscioso e indicibile sospetto che il futuro potesse assomigliare al passato, risalendo lungo la trafila dei lutti fino all’Isonzo. Le immagini di Caporetto, la disfatta che nell’album nazionale è stampata nelle prime pagine del secolo, proprio all’ingresso della Modernità, indugiarono sulla soglia della coscienza; ed era come se ora, nelle notti più dure dal ’45, la guerra avesse riportato nelle case i fantasmi implacati dei militi ignoti.

 

A un certo punto, dopo il periodo del lockdown più stretto, e quando ormai tutti avevano inteso quali atroci disastri hanno causato le amministrazioni regionali – riciclati avamposti territoriali nella grande campagna neoliberista – nonché lo spietato e  diligente approccio alla sanità pubblica dei grandi managers lottizzati[4], ci fu anche chi, pensando di dare una lezione di coraggio (o magari per meritare un’intervista) dichiarò solennemente: «Non abbiamo più paura di morire.» Ma non era davvero coraggio, e nemmeno la reazione da ultima spiaggia di chi si lancia all’attacco per salvare l’onore, la patria o l’imperatore; era invece l’affiorare alla superficie di una cognizione più aspra ed a lungo rimossa, non avere la vita, in fondo, più valore – l’unico valore corrente essendo il Profitto -, sicché non c’era poi da farla tanto lunga, se la morte ogni tanto intensificava l’agenda delle mietiture. Era già successo, nei secoli; ed uno con le idee chiare, Boris Johnson, non l’aveva detto da subito? E non è la nostra la «società del rischio»? Così l’Economia tornava al primo punto dell’ordine del giorno, anzi era proprio lei a dettarlo; i soliti figuranti riprendevano i loro posti nei talk-show, ora insieme a virologi ed epidemiologi; e da allora, giorno dopo giorno, i bollettini continuano a fornire le cifre dei morti, i grafici ne rappresentano l’andamento, per età, per regione e provincia (non per ceto: meglio glissare su questo): trentamila, cinquantamila, settantamila, centomila morti.

 

La morte massificata delle statistiche ormai non ha più presa; lo smalto della novità è andato smarrito, sbiaditi e sfibrati i vecchi vessilli sulle terrazze. L’assuefazione alla morte era da tempo nell’aria: le  ruspe lo sapevano, lo spettacolo non può fermarsi[5]. E così, senza più eccedenze né memorie di lungo corso, confinata nei numeri delle newsbar insieme ai sondaggi, alle previsioni del Pil, ai report di Wall Street e Piazza Affari, la morte normalizzata e mortificata di ogni giorno si accompagna all’indifferenza. Finalmente siamo tutti impassibili. Come diceva dell’appestato il soldato di Napoleone, «Son affaire est faite»? On passait, on se tâtait, et tout était oublié[6].

 

II.

 

Tutto comincia con la conta dei morti. Alla propria morte, ciascuno dovrebbe diventare unico come Dio. Un morto e un altro morto non sono due morti. Più agevole sarebbe la conta dei vivi, e quanto funeste sono già simili addizioni.

Intere città e intere contrade possono essere in lutto, come se tutti i loro uomini fossero caduti, tutti i figli e tutti i padri. Ma finché a cadere saranno 11.370, costoro cercheranno in eterno di arrivare alla cifra tonda di un milione[7].

 

Così scriveva uno che alla morte ha dato battaglia lungo tutta l’esistenza, Elias Canetti. La citazione è dall’incipit di un libro interamente dedicato alla morte, più precisamente il suo «libro contro la morte», il cui progetto egli inseguì per oltre cinquant’anni e che è stato poi ricomposto, postumo, raccogliendo i pensieri affidati alle pagine dei diari pubblicati in vita. Tra questi pensieri e aforismi, risale al 1942 una ferma delibera[8]: «Non morire (il primo comandamento).» Come ci ricorda Massimo Cappitti, infatti,

 

Canetti non smette mai di protestare contro la morte e di contrastare radicalmente ogni cedimento nei suoi confronti, convinto della necessità che essa debba perdere il suo “prestigio” e apparire, al di là di ogni consolazione, per quello che essa è veramente, ovvero “inutile e malvagia”. Egli non ammette alcun compromesso poiché da essa non può provenire salvezza a meno di ribaltare, come le religioni tradizionali hanno fatto, la gerarchia dei valori, per cui tocca alla vita essere disprezzata[9].

 

Nessun compromesso, nessuna tregua tra Canetti e la morte. In chiave autoriflessiva, un altro frammento, del 1985: «È intrinseco alla mia natura rifiutare e odiare ogni morte[10].»; e ancora, sulla stessa tonalità:

Lo stesso stupore per chiunque muoia, la stessa incredulità, non riuscirai mai a fartene una ragione, non vuoi fartene una ragione, la tua unica immutabile esperienza primigenia[11].

 

Tra le note del 1992, le ultime, un monito pro memoria, o meglio una prescrizione: «Tanto duro è uccidere, altrettanto duro dovrà restare il rifiuto della morte[12]

Non è un caso che Canetti abbia iniziato a scrivere i suoi frammenti contro la morte negli anni più cupi del Novecento, tra il genocidio nazista e i bombardamenti a tappeto delle città, tra Auschwitz e Hiroshima. «Qualsiasi cosa tu abbia pensato a proposito della morte, oggi non è più valida. Con un enorme balzo, essa ha raggiunto un potere di contagio quale mai ebbe prima. Oggi è realmente onnipotente, oggi è veramente Dio[13].»: è una annotazione del ’45. E se per lo stile degli aforismi si possono richiamare nobilissimi antenati, da Lichtenberg a Hebbel fino a Kraus, la radicalità del pensiero e la forza dell’utopia che innervano l’opera di Canetti hanno con ogni evidenza le proprie coordinate in quella mappa tragica e irrevocabile: un dato che non è riducibile ad una reazione momentanea, comodamente storicizzabile, ma sta a indicare una bussola permanente, che continua a interrogare il presente, il nostro tempo luttuoso e immemore.

 

Ma non solo per questo ci è vicino, come non mai, Canetti. Neanche è un caso, infatti, che nel Libro contro la morte si parli anche di potere: o meglio, non anche di potere, ma esattamente e coerentemente del nesso tra morte e potere. Sempre Cappitti osserva, sulla scorta di Massa e potere, che per Canetti «Il momento inaugurale di fondazione del potere prende avvio dall’oscena soddisfazione del vivo di fronte al morto, ossia dalla conversione dell’iniziale terrore di fronte al cadavere nella gioia arrogante di chi, eretto, contempla con piacere chi giace irrimediabilmente[14].» C’è insomma una sorta di patto tra il potere e la morte; così come c’è o deve esserci, per chi voglia intendere il significato del lascito di Elias Canetti, un’alleanza utopica contro la morte: quell’alleanza che ogni volta viene rimossa e negata per la conservazione dell’esistente, di quel che è così e non potrebbe essere altrimenti, come in ogni momento ci spiegano le ruspe. Complice del racket dell’indifferenza e della rassegnazione, nella pulsione di morte è il nucleo segreto e il motore perpetuo della dimenticanza. Proprio per questo «lo sforzo più grande della vita è di non abituarsi alla morte[15]», scrive Canetti. Nell’assuefazione alla morte è ribadita una intimazione di obbedienza, contro la quale è necessario fare appello a quella «debole forza messianica» consegnata, secondo Walter Benjamin, ad ogni generazione, e alla quale «il passato ha diritto[16]

 

In un’altra pagina del Libro contro la morte, questa del 1980, campeggia luminosa una citazione da Iperione di Hölderlin: «E dal consorzio degli esseri umani svanisce la morte[17].» Per la limpida radice utopica essa può essere accostata alla visione di un altro frammento, la cui oltranza recita così: «Le lacrime di gioia dei morti per il primo che non muore più[18]

 

 

[1] François René De Chateaubriand, Memorie d’oltretomba, I, progetto editoriale e introduzione di Cesare Garboli, a cura di Ivanna Rosi, Torino, Einaudi, 1995, p. 706.

[2] Ivi, p. 707.

[3] Ibidem.

[4] Chi rammenta più le battaglie di Mario Pirani, a inizio millennio, contro tali maneggi rigorosamente bi-partisan? Non basta certo una pandemia per rimettere in discussione assetti di potere e ideologie condivise così a fondo; e l’oblio fa sempre comodo.

[5] Vedi Zygmunt Bauman, Il teatro dell’immortalità, Bologna, Il Mulino, 1992.

[6] Ibid. Cfr. Mémoires de M. de Bourrienne, Ministre d’État, sur Napoléon, le directoire, le Consulat, l’Empire et la Restauration, Paris, 1829-1831.

[7] Elias Canetti, Il libro contro la morte, con una Prefazione di Peter von Matt, a cura di Ada Vigliani, Milano, Adelphi, 2017, p. 11.

[8] Ivi, p. 24.

[9] Massimo Cappitti, Pensare dal limite. Contributi di teoria critica, Arezzo, Zona, 2013, p. 73. Si veda anche la Postfazione di Peter von Matt a E. Canetti, Il libro contro la morte cit., pp. 363-382.

[10] E. Canetti, Il libro contro la morte cit., p. 113.

[11] Ivi, p. 263.

[12] Ivi, p. 314.

[13] Ivi, p. 44.

[14] M. Cappitti, Pensare dal limite… cit., p. 73. Sul tema vedi anche Davide D’Alessandro, Potere & Morte. Le matite di Canetti, Perugia, Morlacchi, 2018.

[15] E. Canetti, Il libro contro la morte cit., p. 134.

[16] Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p. 23.

[17] Ivi, p. 205.

[18]  Ivi, p. 35.

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