di Enrico Redaelli
[È uscito in questi giorni il volume Clinica delle organizzazioni. Prospettive teoriche e pratiche tra Lacan, Deleuze e Foucault, a cura di Federico Leoni, Andrea Nicolini, Riccardo Panattoni (editore Mimesis). Il volume raccoglie gli interventi dei docenti del “Master in Clinica filosofica delle istituzioni e delle organizzazioni” svoltosi nel 2019-2020 presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona e volto a formare all’analisi teorica e all’intervento pratico nelle istituzioni e nelle organizzazioni. Pubblichiamo un estratto dal saggio di Enrico Redaelli Da dove si origina la sessualità? Sesso e istituzione: un nodo]
Lo scandalo del sesso
Il più grande scandalo nella teoria freudiana della sessualità è, per dirla con un paradosso, che il sesso in origine non ha nulla a che vedere col sesso. Ovvero, che il sesso (la sessualità) ha un’esistenza autonoma e indipendente dal sesso (gli organi genitali): si sviluppa prima di loro e pervade il corpo prima che questi giungano a maturazione (Freud 1905). Il vero scandalo, dunque, non consiste nello scoprire che vi è una sessualità infantile; nemmeno nel constatare che questa è «perversa polimorfa» e si muove in una terra di nessuno, non trovando fondamento né nella natura (gli organi sessuali non sono ancora all’altezza della loro funzione) né nella cultura (i bambini non hanno strumenti per dare senso a quello che accade loro sessualmente, la loro sessualità non è «simbolizzata», ritualizzata, istituzionalizzata). Il vero scandalo consiste piuttosto nello scoprire che la sessualità adulta non è molto diversa: anch’essa, in ultima analisi, si muove nella medesima terra di nessuno (ogni composizione delle pulsioni parziali e loro subordinazione al primato dei genitali è destinata al fallimento e, con essa, ogni tentativo di dare un senso alla nostra sessualità e istituzionalizzarla in via definitiva)[1].
Dunque, da dove si origina la sessualità e quale ne sarebbe il senso?
Se lo scandalo freudiano è che tale origine non è facilmente collocabile né nella natura né nella cultura, nel medesimo paradosso si imbatte Lévi-Strauss quando analizza il fondamento delle istituzioni nelle Strutture elementari della parentela. E la parola che usa è proprio «scandalo», riferita a quel principio di regolamentazione della sessualità umana che sta alla base di ogni civiltà: la proibizione dell’incesto (il corrispettivo in antropologia della «castrazione simbolica» in psicoanalisi). Rispetto alla tradizionale dicotomia natura/cultura (ogni cultura con le sue regole è sempre particolare, solo le leggi di natura sono universali) la proibizione dell’incesto costituisce uno scandalo, occupando una posizione impossibile e contraddittoria: regola culturale ma con la stessa universalità delle leggi naturali, sembra doversi collocare sul crinale tra natura e cultura, o nel punto di conversione dell’una nell’altra (Lévi-Strauss 1949, p. 47).
Uno dei motivi per cui il passaggio dalla natura alla cultura avviene «proprio sul terreno della vita sessuale» (p. 51), osserva poi Lévi-Strauss, è perché il sesso è alla base della società: l’istituzionalizzazione degli istinti, ovvero la conversione della natura nella cultura, non poteva che muovere da lì, dall’istinto più «sociale» (nel regno animale, quello sessuale è l’unico istinto «che, per definirsi, ha bisogno dello stimolo altrui» [p. 51], ossia di un altro soggetto della stessa specie). Sembra così delinearsi una sorta di chiasmo tra la vita sessuale (naturale) e la sua regolamentazione istituzionale (culturale): «Se la regolamentazione dei rapporti tra i sessi costituisce un’invasione della cultura nel campo della natura, d’altro canto la vita sessuale è un embrione di vita sociale nel seno della natura» (p. 51). Come a dire: qualcosa della natura (l’istinto sessuale) risiede nella cultura (ogni civiltà si fonda sulla proibizione dell’incesto, dunque sulla regolamentazione dell’istinto sessuale), così come qualcosa di «culturale» abita da sempre il sesso (come direbbe la psicoanalisi, il corpo umano è tagliato e attraversato dalla castrazione simbolica, la sua sessualità è già da sempre iscritta nell’Altro, l’istinto [Istinkt] è già da sempre pulsione snaturata [Trieb]).
Lo scandalo di Lévi-Strauss è dunque il medesimo di Freud ma visto nel suo rovescio (dal lato della cultura, anziché da quello della natura): se, come mostra la psicanalisi, la sessualità umana, supposta naturale, fa eccezione rispetto alla natura (all’istinto), d’altra parte, come mostra l’antropologia, la regolamentazione della sessualità umana, supposta culturale, fa eccezione rispetto alla cultura (alle altre istituzioni). Entrambe – sessualità e proibizione dell’incesto o castrazione simbolica – abitano la stessa soglia, il punto di conversione tra natura e cultura, ma sembrano muovere dai due opposti versanti di quella soglia in direzione reciproca e inversa per annodarsi l’una sull’altra, costituendosi come tali solo nel loro intreccio. In questo chiasmo si radica lo scandalo, ossia la pietra di inciampo che impedisce alla natura di essere del tutto natura e alla cultura di essere del tutto cultura, in quanto reciprocamente implicate in una «esclusione inclusiva». Ed è proprio tale inciampo a impedire che il nodo tra sesso e istituzione riposi in sé stesso, non finendo mai di annodarsi e di doversi riannodare.
L’anello di Cucufa: sesso e potere
Dunque, da dove si origina la sessualità e quale ne sarebbe il senso?
Di fronte a tale enigma, Michel Foucault si colloca di sbieco con sguardo sospettoso. La domanda non è innocente, avvisa l’autore della Storia della sessualità. Il quale si chiede piuttosto, da buon genealogista, quale sia l’origine della domanda stessa. «Perché questa grande caccia alla verità del sesso, alla verità nel sesso?» (Foucault 1976, p. 71).
Limitandosi a chiedere quale sia la verità del sesso si resta infatti giocati dal dispositivo di sessualità, la forma di potere che nelle società occidentali moderne si è imposta sul precedente dispositivo di alleanza (la proibizione dell’incesto, quale regola di distribuzione delle donne, e la struttura patriarcale che ne consegue). Il passaggio dall’antico dispositivo di alleanza al moderno dispositivo di sessualità potrebbe trovare icastica raffigurazione in due diversi anelli magici, quello di Gige e quello di Cucufa, le cui storie, entrambe tessute sull’intreccio di sesso e potere, sono raccontate l’una dall’«antico» Platone e l’altra dal «moderno» Diderot. L’anello di Gige, una volta giratone il castone, rende invisibile il pastore che lo ha indossato, permettendogli di entrare non visto nelle camere della regina, sedurla e uccidere il re prendendone il posto. L’anello di Cucufa, giratone il castone, permette invece al sultano che lo ha avuto in dono di far parlare gli organi genitali che incontra. Se il primo è uno strumento per impossessarsi del sesso (la donna) e, tramite questo, del potere, il secondo è un dispositivo per impossessarsi del sapere sul sesso e, solo così, esercitare indirettamente un potere.
La modernità, suggerisce La volontà di sapere, sembra prediligere il secondo anello: a partire dal XVIII secolo la società occidentale ha esteso la tecnica della confessione, di origine cristiana, adattandola alle regole del discorso scientifico, medicalizzandola e trasformandola in «ascolto clinico», e ha così prodotto «un’incitazione politica, economica, tecnica a parlare del sesso» sotto forma «di analisi, di contabilità, di classificazione e di specificazione, sotto forma di ricerche quantitative o causali» (p. 25). Non bisogna dunque chiedersi da dove si origina la sessualità e quale ne è il senso o la verità, restando sotto l’incanto dell’anello di Cucufa, bensì come funziona tale anello nella moderna scientia sexualis, con la sua «volontà di sapere», e «al dito di quale padrone è stato messo» (p. 71).
Il dispositivo di sessualità trova infatti la propria ragion d’essere nel «penetrare i corpi in modo sempre più minuzioso» e nel «controllare le popolazioni in modo sempre più globale» (p. 95), collocandosi al punto di incrocio tra i due assi del potere disciplinare e della biopolitica (micro e macrofisica del potere moderno che hanno, l’una nel corpo, l’altra nella popolazione, i propri ambiti di dominio).
Con questa mossa, il primo volume della Storia della sessualità mette preventivamente fuori gioco ogni discorso sulla natura (sull’origine e la natura del sesso come su un’eventuale sessualità naturale). Restano così fuori dalla porta tutte le riflessioni sulla liberazione sessuale volte a cogliere una sessualità originaria che il potere avrebbe represso, da quelle freudo-marxiste di Wilhelm Reich ed Herbert Marcuse, a quelle di filosofe femministe come Luce Irigaray (per la quale vi è un’essenza ontologica della sessualità femminile che il «fallogocentrismo» reprime impedendone l’accesso al simbolico: Irigaray 1974) e di attivisti gay come Mario Mieli (per il quale l’«educastrazione» reprime una transessualità originaria: Mieli 1977).
Per Foucault, infatti, il potere non agisce in negativo, celando o reprimendo, ma in positivo, istituendo regimi di positività, ad esempio nuove dimensioni del visibile e del dicibile, e producendo la sessualità come proprio oggetto di sapere-potere. Non solo. Più radicalmente, La volontà di sapere accende un faro sull’inestricabile nesso tra potere e sessualità, ordine simbolico e pulsione, azione del linguaggio sul corpo e piaceri dei sensi, suggerendo la figura di una spirale (Foucault 1976, p. 44-45).
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Piacere e potere – o, in termini lacaniani, godimento e ordine simbolico – formano dunque una spirale, un nodo in cui non si fronteggiano uno contro l’altro da posizioni avverse, ma «s’inseguono, si accavallano e si rilanciano. Si connettono secondo meccanismi complessi e positivi di eccitazione e d’incitazione» (p. 48). Siamo insomma ancora dalle parti di quell’inestricabile intreccio tra natura e cultura ravvisato dalla psicoanalisi e dall’antropologia: sessualità, pulsione, piacere, da una parte, e, dall’altra, castrazione, ordine simbolico, regolamentazione istituzionale sono effettivamente tali solo nel nodo che li annoda, non prima né al di fuori di questo. Con in più l’avvertimento foucaultiano che ogni volontà di verità in merito, ossia ogni tentativo di venire a capo di questo nodo (alla base di ogni civiltà e istituzione), portandolo al sapere, è già un esercizio di potere (un tentativo di modellare la civiltà e le sue istituzioni). Ogni tentativo di scioglierlo è un modo di riannodarlo.
Non è allora proprio lo scandalo in cui si sono imbattuti Freud e Lévi-Strauss, l’impossibilità di sciogliere il nodo tra sesso e istituzione, ciò che produce una volontà di sapere, quel gran parlare (e far parlare) del nodo che è anche un modo di metterci mano? Non è proprio la pietra d’inciampo, ossia un’impasse nel sapere, a generare il desiderio di sapere? Ciò che fa scandalo, fa parlare di sé.
E se, foucaultianamente, ogni sapere è già da sempre potere, si potrebbe riformulare la questione così: non è proprio un’impasse nel sapere-potere (l’inciampo della cultura, per cui essa non è mai del tutto se stessa, non potendo emanciparsi da ogni riferimento, sia pur in negativo, alla natura) ad attrarre e chiamare a sé sempre nuove strategie di sapere-potere (nuove forme di cultura, nuove norme e istituzioni, come se la civiltà tentasse di tappare da se stessa e con se stessa un buco che la abita costitutivamente sin dall’origine)?
Maschio/femmina: sesso fluttuante
Da dove si origina la sessualità e quale ne sarebbe il senso? Se questa domanda non è innocente, se ogni discorso sulla sessualità è già un’azione politica, una performance di sapere-potere, sembra non vi sia strada per un sapere «neutro» sul sesso: la verità sul sesso, sul suo senso e sulla sua origine è una via sbarrata. O forse la stessa via sbarrata è anche la via d’uscita. Così pare pensare Judith Butler: se il senso del sesso è sempre una questione di performance politica, che performance politica sia! Fatta propria la lezione foucaultiana e radicalizzata sino a mettere in questione la distinzione tra sesso e genere (che era stata centrale nel femminismo ispirato a Simone De Beauvoir), l’autrice di Questioni di genere mira a fare della via sbarrata, e della stessa barra che divide maschio/femmina, una barricata.
Non vi è alcuna «essenza» o «nocciolo ontologico» dell’essere uomo e dell’essere donna: nulla pre-esiste alla performatività, cioè a quella pratica, o insieme di pratiche, che dà forma alla realtà (anche sessuale) e alle sue supposte essenze. Rifacendosi alle riflessioni sulla ripetibilità, elaborate da Derrida in risposta alla teorizzazione degli atti linguistici di John Searle e J. L. Austin, Butler non si riferisce a un gesto performativo che crea una nuova realtà immediatamente nell’atto stesso della performance (come nell’enunciazione performativa «vi dichiaro marito e moglie»), ma a un processo in cui le costruzioni socio-simboliche, a forza di ripetersi e reiterarsi, diventano natura. Sicché ogni supposta natura (a partire dalla distinzione uomo/donna) è sempre il risultato di un processo culturale.
La cultura produce (come sapere) e nello stesso tempo regola (come potere) ciò che chiamiamo «natura», la quale non è che un effetto sedimentato delle sue ripetizioni. Ma se la reiterazione è la modalità in cui agisce il sapere-potere, è anche, contemporaneamente, ciò che permette – sfruttando gli intervalli della reiterazione, le sue fessure e instabilità – il sorgere di un contro-potere in grado di rimodellare le costruzioni socio-simboliche (e dunque, nel tempo, la «natura» stessa in quanto loro sedimento): «Come effetto sedimentato di una pratica ripetitiva o rituale, il sesso acquista il suo carattere naturalizzato, e, tuttavia, è anche in virtù della ripetizione che si aprono varchi e fessure, instabilità costitutive delle costruzioni» (Butler 1993, p. 10). E queste instabilità permettono alle sessualità erranti e improduttive (la freudiana sessualità «perversa polimorfa» rivisitata in versione queer) di destabilizzare dall’interno il processo stesso della ripetizione, mettendo in crisi il consolidamento delle norme sessuali.
Costruttivismo? Non proprio. Con Corpi che contano Butler tenta di procedere oltre i paradigmi dell’essenzialismo (sessualità innata) e del costruttivismo (sessualità socialmente costruita), adottando piuttosto un’ottica decostruzionista che sembrerebbe fare della differenza sessuale la différance di Derrida. Contro il costruttivismo, l’autrice sottolinea che «esiste un “esterno” a quanto è costruito dal discorso», ma, aggiunge subito dopo, «non si tratta di un “fuori” assoluto, un luogo ontologico che eccede o contrasta i confini del discorso» (p. 8).
Questo «fuori» non è la materia, giacché, osserva Butler con toni hegeliani, «porre una materialità all’esterno della lingua significa, comunque, porre quella materialità». Non è nemmeno il corpo, visto che «non esiste rimando a un corpo puro che non sia allo stesso tempo un’ulteriore formazione di quel corpo». Di che si tratta, dunque? E che ne è, infine, del corpo e della sua anatomia?
Laddove la psicoanalisi volesse distinguere tre diverse fasi nel processo di sessuazione – come fa Geneviève Morel (2000), scandendo anatomia, discorso dell’Altro e scelta soggettiva del sesso – Butler avrebbe buon gioco a mostrare che le prime due sono una. È vero che, nella prima fase, le macchine della scienza possono rilevare ancor prima dell’apparizione del corpo sessuato il sesso del neonato. Ma le macchine che ci fanno lì, se non incarnare l’ennesima versione dell’anello di Cucufa? Esse sono parte del discorso dell’Altro e della sua «volontà di sapere», da tale discorso nascono e al suo servizio operano (a che servirebbero le macchine se non appunto a definire il corpo incasellandolo negli schemi dell’ordine simbolico che preesiste loro e di cui esse sono un’estensione?). Così come ciò che mangiamo non è naturale ma culturale (nei termini di Lévi-Strauss, non è crudo ma cotto), allo stesso modo nel nominare l’organo sessuale o nel rilevarlo tecnologicamente non vi è nulla di naturale[2], essendo il nominato/rilevato già passato nella griglia del simbolico (mai cruda biologia, l’anatomia umana è sempre «alla griglia»[3]). Se, parafrasando Hegel con Lévi-Strauss, il simbolo cucina la cosa, le macchine che rilevano il sesso sono le stesse con cui lo si prepara, lo si cuoce e lo si mostra bello e pronto agli occhi sapienti del ginecologo. Tolte le macchine, il discorso dell’Altro, i significanti, quel che resterebbe (il gesto dell’ostetrica che, impossibilitata a parlare, indica i genitali del neonato) non sarebbe un’ostensione della differenza sessuale («c’è questo anziché quello») ma un’ineffabile epifania (un puro «c’è»).
Dunque, più che di «fluidità di genere», si direbbe questione di «sesso fluttuante». Questo «fuori» o puro «c’è» è infatti il sesso in quanto elemento instabile e referente fluttuante del discorso, che il discorso stesso denota ma dal quale è anche sempre deragliato:
«Le categorie linguistiche che dovrebbero “denotare” la materialità del corpo sono esse stesse turbate da un referente che non è mai completamente o permanentemente risolto o contenuto da nessun significato dato. Al contrario quel referente persiste solo come una specie di assenza o di perdita. La lingua non riesce a catturarlo, ed esso incita ripetutamente la lingua a tentare quella cattura, quella delimitazione – e a fallire» (Butler 1993, p. 61).
Non sta qui Butler dicendo a modo suo quanto da noi sottolineato in precedenza in merito a un’impasse del sapere che genera la stessa volontà di sapere? Il referente che persiste come assenza o perdita è la pietra d’inciampo della lingua (della cultura) che incita la stessa lingua (la cultura) a tentare di catturarlo[4]. Di nuovo, ciò che fa scandalo, fa parlare di sé. L’anello di Cucufa, sembra qui dire Butler, è da sempre iscritto nel linguaggio. Va inoltre ricordato, con Foucault, che in tutto questo parlare (quale effetto dell’inciampo), non si tratta solo di sapere, ma anche, e già da sempre, di potere, ossia, diremmo noi, della cultura nel senso più ampio del termine (linguaggio, ordine simbolico, istituzioni, norme) come ciò che distingue l’uomo dall’animale. Vi è cioè un’impasse in ogni istituzione (a partire dalla lingua, prima e originaria istituzione dell’essere umano secondo De Saussure) che invoca un’incessante rinnovamento dell’istituzione stessa, giacché non si finisce mai di riannodarne il nodo. L’inciampo dell’istituzione è allora la sua stessa istanza istituente: la via che conduce all’impasse è anche la via d’uscita.
Sesso? Senza panna
Un tizio entra in un ristorante e dice al cameriere: «Un caffè senza panna, per favore». E il cameriere risponde: «Mi dispiace, ma abbiamo finito la panna. Va bene anche senza latte?». Questa barzelletta, tratta dal film Ninotchka di Lubitsch e molto in voga nella scuola di Lubiana (Zupančič 2008, pp. 59-60; Žižek 2012, p. 298; Zupančič 2017, p. 74; Žižek 2018, p. 79), esemplifica il funzionamento della struttura significante nell’ultimo Lacan. Da dove si origina la sessualità? Secondo Alenka Zupančič proprio lì, nel fatto che la struttura significante compare sin dall’inizio con un significante in meno (con-senza qualcosa). Di nuovo, un’impasse nel sapere (o, foucaultianamente, nel sapere-potere), ma con un significativo slittamento rispetto a Judith Butler.
Il sesso in origine non ha nulla a che vedere col sesso: piuttosto che negli organi genitali, è nel linguaggio e nella sua struttura significante che va ricercata l’origine della sessualità nell’essere umano (sia filogeneticamente sia ontogeneticamente). Per la psicoanalisi lacaniana è infatti l’avvento della parola a fare del corpo umano un corpo sessuale. Ma come si entra nel mondo della parola? In genere si pensa che il linguaggio sia semplicemente composto di significanti e che i significanti ne siano la condizione: il bambino, investito dalla struttura significante, imparerebbe un po’ alla volta ad abitarla e a maneggiarla entrando nel suo gioco di rimandi. In Che cosa È il sesso? Zupančič ricostruisce diversamente la «scena originaria» (nella consapevolezza che, parlando di origine, parliamo sempre di un mito, ma anche che ogni mito dell’origine è un segnavia, un indirizzo d’azione, una riconfigurazione del sapere-potere, una performance). La storia umana comincia non con la comparsa del significante (come direbbe il primo Lacan), ma con un significante che cade e si perde (il riferimento è all’ultimo Lacan): un gap che appare insieme all’ordine significante in quanto interno a esso (la celebre «casella vuota» di cui parla lo strutturalismo: Deleuze 1976). A rigore, non di vera e propria perdita si tratta (non ci riferiamo cioè a una semplice mancanza o negatività), giacché sin dall’inizio la struttura compare non senza ma piuttosto con-senza un significante: come lascia intendere la risposta del cameriere nella barzelletta, «senza» qualcosa significa «con la mancanza di qualcosa» (rispetto alla semplice mancanza vi è in più un’entità spettrale e paradossale che abita la dimensione della negatività).
È con questo con-senza che la struttura significante investe il corpo dell’essere umano, che inizia così a parlare (i significanti cominciano a correre e a riferirsi gli uni agli altri attorno a questo gap) nonché a godere (il godimento compare nel luogo del gap e, per suo tramite, si lega all’ordine significante). La sessualità emerge, cioè, nel luogo di questa mancanza: è un tentativo, confuso e precario, di ricucitura del gap.
Qui allora la differenza, apparentemente sottile, ma invero enorme, con Judith Butler. C’è un’impasse nel sapere non perché vi sia un referente pre-discorsivo (ciò che in precedenza abbiamo chiamato «sesso fluttuante») che non è mai completamente o permanentemente risolto nell’ordine simbolico (da cui le sessualità erranti che eccedono le norme simboliche). Semmai, c’è un’impasse nel sapere perché la struttura significante si dà, sin dall’inizio, con una casella vuota che ha la forma di una contraddizione interna (il «con-senza»). E la sessualità è questa stessa impasse, il tentativo sempre precario di venire a capo della contraddizione. Nelle parole di Zupančič: «La sessualità non è un essere che esiste oltre il simbolico: “esiste” soltanto come contraddizione dello spazio simbolico che appare per via del significante costitutivamente mancante e di quello che appare al suo posto (godimento)» (Zupančič 2017, p. 66, corsivo dell’autrice).
Detto altrimenti, il sesso è reale: non è un costrutto simbolico e nemmeno un referente extra-simbolico, ma ciò che segna il limite irriducibile (contraddizione) dell’ordine simbolico, il punto in cui il simbolico incappa nella propria mancanza d’identità.
Zupančič insiste sul gap come co-originario al darsi della struttura significante. Come però intendere questa mancanza? La si può pensare come un vuoto che si dà accanto a un pieno. Ma, data l’insistenza sul con-senza, sarebbe forse meglio pensare la relazione tra il vuoto e il pieno come una «esclusione inclusiva», ovvero il vuoto come una piega del pieno. Proviamo qui a tradurre la questione in termini di nodi, dandone una raffigurazione in forma solo abbozzata e assai stilizzata. Natura e cultura (o, per dirla con Deleuze, «istinti e istituzioni») non sono due corde che si annodano una sull’altra (dovrebbero altrimenti già esistere in sé separate). C’è solo una corda (la natura) che annodandosi forma la cultura (le istituzioni sono un nodo, lo si chiami pure «legame sociale», o una serie di nodi uno sull’altro). In questo senso la natura (la corda) abita da sempre la cultura (il nodo) e qualcosa della cultura abita da sempre la natura (la corda è potenza di annodarsi). Solo quando si flette, la corda ri-flette su di sé, vedendo la «natura» (mera corda) essendo già «cultura» (nodo). Il gap non è altro che lo spazio che la corda forma annodandosi, quello iato che permette alla corda di essere maggiormente stretta o allentata, che permette lo snodare come il riannodare. Il gap non è cioè un vuoto, né una mancanza, ma una possibilità di scorrimento: impasse del sapere-potere, ossia di ogni istituzione, che non finisce mai di stringersi come di sciogliersi, ma anche passe, punto di passaggio, possibilità di nuovi nodi.
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Riferimenti bibliografici
Butler, J., 1993: Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1996
Cambria, F., 2007: Far danzare l’anatomia. Itinerari del corpo simbolico in Antonin Artaud, ETS, Pisa
Deleuze, G., 1976: Lo strutturalismo, SE, Milano 2004
Foucault, M., 1976: La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1996
Freud, S., 1905: Tre saggi sulla teoria sessuale, BUR, Milano 2015
Irigaray, L., 1874: Speculum. L’altra donna, Feltrinelli, Milano 1975
Lévi-Strauss, C., 1949: Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 2010
Mieli, M., 1977: Elementi di critica omosessuale, Einaudi, Torino
Morel, G., 2000: Ambiguités sexuelles. Sexuation et psychose, Anthropos, Paris
Žižek, S., 2012: Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico. Vol. II, Adriano Salani, Milano 2014
Žižek, S., 2018: Come un ladro in pieno giorno. Il potere all’epoca della postumanità, Adriano Salani, Milano 2019
Zupančič, A., 2008: Why Psychoanalysis: Three Interventions, NSU Press, Uppsala
Zupančič, A., 2017: Che cosa È il sesso?, Adriano Salani, Milano 2018
[1] Con questo paradosso Alenka Zupančič, discutendo alcune tesi di Jean Laplanche, apre il libro Che cosa È il sesso? (2017).
[2] Butler parla in merito di «effetto naturalizzato»: «La matrice delle relazioni di genere è precedente all’apparizione dell’“umano”. Si pensi all’espressione medica che (nonostante la recente comparsa dell’ecografia) fa diventare il generico “bambino” una “bambina”. Nella nominazione la bambina è “fatta bambina”, portata nel campo della lingua e delle parentele attraverso l’appellativo di genere. Ma il “far bambina” non finisce qui. Al contrario, quella attribuzione originaria è ripetuta da diverse autorità e in diverse occasioni per rinforzare o contestare l’effetto naturalizzato. La nominazione è, allo stesso tempo, la definizione di un confine e anche la reiterata affermazione di una norma» (Butler 1993, p. 7).
[3] Nelle parole di Butler: «Non è più possibile considerare l’anatomia un referente stabile che viene, in qualche modo, valorizzato o significato sottoponendolo a uno schema immaginario. Al contrario, l’accessibilità stessa dell’anatomia dipende, in un certo modo, da questo schema e coincide con esso» (Butler 1993, p. 59). Per l’anatomia come arte di tagliare e cucinare il corpo, si vedano anche le riflessioni di Artaud sul «corpo senza organi» (cfr. in particolare F. Cambria 2007), nonché quelle di Deleuze sullo stesso tema.
[4] Si tratta di «un’esigenza all’interno della lingua, un’esigenza di lingua, un “qualcosa” che sollecita e provoca» (corsivo dell’autrice, Butler 1993, p. 60).
[Immagine: Juliana Notari, Diva].