di Pierluigi Pellini

 

[E’ uscito da poco in libreria, per i tipi di Sellerio e nella nuova traduzione di Francesco Monciatti, Pierrette, breve romanzo di Balzac che racconta le tristi vicissitudini di un’adolescente. Pubblichiamo alcune pagine della postfazione di Pierluigi Pellini, Fantasmi del melodramma].

 

Come molti luoghi comuni  storiografici, non è privo di fondamento (ma può a volte rivelarsi unilaterale) quello che individua nel romanzo realista un genere per statuto ‘serio’: una rappresentazione delle vicende modeste della vita quotidiana borghese, cui finalmente, a inizio Ottocento, la letteratura riconosce dignità drammatica. Il grande mosaico critico di Erich Auerbach, Mimesis (1946), riprende questa tesi dai più acuti interpreti ottocenteschi (su tutti, Henry James) e la trasmette a molti studi recenti: così, Franco Moretti può addirittura definire l’Ottocento Il secolo serio. Eppure, il capolavoro indiscusso del realismo ottocentesco si presenta nel suo complesso come Comédie; e in non pochi episodi (in Pierrette più che altrove, ma non solo in Pierrette) fa abbondante ricorso all’iperbole negativa, alle similitudini bestiali, alla sistematica deformazione delle fisionomie; dà insomma carta bianca all’aggressività, espressionista avant la lettre, di un narratore che indugia di preferenza sugli «spettacoli grotteschi».

 

La zitella Sylvie Rogron, all’incipit, apre le persiane «con un gesto da pipistrello»; verso la fine del libro, aggredisce Pierrette con «dita adunche»; nel suo ritratto, ricorrono i paragoni animali – per esempio: «La iena si trasformava in gatta». Sulla (presunta) rappresentazione dal vivo, fa quasi sempre aggio lo stereotipo culturale: Sylvie ha «l’aria minacciosa che i pittori conferiscono alle streghe». Suo fratello, Jérôme-Denis, resta, lungo tutto il romanzo, «il proprietario idiota», prima della merceria parigina, poi della casa di Provins: «Senza la sorella, questo cretino sarebbe andato in rovina». L’abile e spregiudicato Vinet, misero azzeccagarbugli dell’opposizione liberale, destinato dopo la Rivoluzione di Luglio a una folgorante carriera in magistratura e in politica, anima nera del salotto Rogron, dove ha il ruolo del burattinaio, unico personaggio capace di farsi motore delle vicende narrate (in questo preciso senso, è lui il vero protagonista, il vero eroe negativo), ha un «muso» affilato e movenze volpine. Gli esempi si potrebbero moltiplicare.

 

Ma quella di Pierrette, anche nelle sue pointes potenzialmente più esilaranti, anche quando l’esplicita ironia si fa gioco linguistico o trovata fantaisiste (i fratelli Rogron sono «automi surrettiziamente battezzati»), è sempre una comicità amara, bloccata. Non c’è la risata liberatoria, perché il cattivo gusto dei provinciali, le ipocrisie della politica, gli spudorati egoismi risultano agli occhi del lettore, esattamente come l’iperbolica bruttezza di Sylvie, un fenomeno «troppo ripugnante perché se ne rida». In una delle più graziose cittadine della provincia francese, celebre per le sue rose e per le sue acque termali, Balzac ambienta un racconto che a buon diritto può ambire a un posto di rilievo nella genealogia del disgusto, della nausea, appunto della ripugnanza: sentimenti estetici per eccellenza moderni, anzi modernisti, che complicano (assai più di quanto avvenga nel comico) i meccanismi di una possibile, paradossale identificazione; e soprattutto escludono (al contrario del comico) ogni redenzione dialettica, ogni catarsi letteraria.

 

C’è, a dire il vero, in Pierrette, un personaggio che ride, e che cerca costantemente di mettre les rieurs de son côté, cioè di stabilire con gli altri personaggi (e con il lettore) un’intesa, una complicità, una connivenza, basata su quel senso di superiorità intellettuale che accomuna chi pronuncia e chi apprezza una battuta di spirito efficace. È la bella Madame Tiphaine: moglie del Presidente del tribunale, e deputato filo-governativo, si atteggia a arbitra delle eleganze cittadine ed è adulata dai salotti borbonici di Provins per la verve tagliente dei suoi giudizi – insomma, una duchessa de Guermantes in sedicesimo. Non c’è dubbio: la sua spassosa descrizione del lusso pacchiano di casa Rogron («Tutto è lucente, pulito, nuovo, dai colori chiassosi») è in perfetta sintonia con quanto dice il narratore di un’abitazione appena restaurata, in cui tutto è ostentatamente «nuovo»; di una facciata «il cui sfarzo recente contrastava con i vecchi esterni di tutte le altre», rivelando a un primo sguardo «le idee meschine e il perfetto compiacimento del piccolo commerciante a riposo». Certo, fra il lusso vero, di buon gusto, che fa sobria mostra di sé nelle case delle famiglie più cospicue di Provins (i Garceland, i Julliard, appunto i Tiphaine), dove la patina del tempo – lungi dallo sciuparli – conferisce agli ambienti, ai mobili, agli oggetti d’arredo un prestigio non monetizzabile, e naturalmente incomprensibile per il rozzo economicismo degli ex merciai («quella buona vecchia sala da pranzo, dalla boiserie grigia e un po’ tarlata, ma che […] si accompagna alla rustica argenteria di famiglia, alla porcellana antica»), fra questa eleganza discreta, nobilitata dal tempo, e la maldestra, sbrilluccicante imitazione di casa Rogron, c’è un abisso. Del resto, è un topos del realismo ottocentesco, magistralmente studiato da Francesco Orlando nel grande libro sugli Oggetti desueti. Ma la distanza si riduce, fino a annullarsi, se si distoglie lo sguardo dallo spazio fisico delle abitazioni, e dai fasti dell’estetica, per osservare il comportamento dei personaggi, i motivi delle loro azioni, la logica inconfessata delle loro scelte, insomma lo spazio dell’etica.

 

Da più generazioni avvezzi alle buone maniere, cioè all’ipocrita dissimulazione, i rappresentanti del partito borbonico non mancano mai di richiamarsi pubblicamente agli alti ideali, politici e religiosi, che fondano l’ethos della Restaurazione. Ma in concreto non muovono un dito per sottrarre Pierrette alle grinfie dei cugini Rogron – non muove un dito nemmeno il dottor Martener, che pure nel finale cura la ragazza con devota abnegazione. Unanimi e diciamo pure omertosi, ignorano il destino della ragazza tutti i ricchi proprietari di quelle case della città alta che pure l’avevano accolta con apparente amicizia – in realtà, con l’unico scopo di umiliare i Rogron. La buona società di Provins agisce sempre e solo per interesse, mai per simpatia umana o per fedeltà a un ideale. E infatti, quando nel 1830 scoppia la Rivoluzione di Luglio, i vari Tiphaine non esitano un momento a allinearsi al nuovo regime, a stringere alleanze con gli avversari di un tempo, a diventare «pappa e ciccia» con il turpe Vinet.

 

Per questo, di là dalle più superficiali apparenze, di là dal breve sorriso suscitato da qualche descrizione iperbolica, o da qualche uscita brillante e impertinente di Madame Tiphaine, Pierrette non può essere a rigore considerato – come tende a fare, sia pure con accenti diversi, gran parte della critica – né un testo comico, né un romanzo melodrammatico. D’accordo: è una satira feroce che si appunta contro la stupidità di un celibe, contro la deformità e la cattiveria di una nubile, contro l’interessata disonestà del partito democratico, dell’opposizione liberale; ed è la storia lacrimevole di una fanciulla ingiustamente perseguitata (per una volta, non dal desiderio violento di un maschio sadico, ma dall’insensata grettezza di parenti annoiati). Ma il comico presuppone che sia vigente, nel testo, un sistema di valori autentici e accreditati, al cui paragone siano con ogni evidenza screditati, e dunque risibili, i disvalori dei personaggi negativi; presuppone un’ipotesi praticabile di armonia, in grado di accomunare il narratore e il lettore, alle spalle di chi ne ignora le regole. E il modo melodrammatico, fondato sull’estremismo dei sentimenti e sull’opposizione manichea di buoni e cattivi, postula per l’appunto l’esistenza, nettamente distinguibile, non solo del bene e del male (su questo, Balzac non sembra nutrire dubbi: idealizza l’ancien régime, demonizza l’economicismo liberale e la grettezza della società di provincia), ma anche di personaggi che del bene e del male siano concreta incarnazione.

 

Se i rieurs condividono in realtà gli stessi inconfessabili disvalori che mettono alla berlina nelle loro vittime; se i monarchici praticano lo stesso meschino utilitarismo, lo stesso economicismo senza idealità, lo stesso arrivismo individualista degli odiati liberali, e sono pronti a accordarsi con loro appena il potere passa di mano (del resto, il partito governativo, a Provins, ha ben poco di aristocratico – anche dal punto di vista sociale, il sostrato è comune: bottegaio); se la difesa dell’ancien régime è pura e semplice propaganda, buona a coprire il tornaconto personale finché reggono i Borboni, allora il salotto dei Tiphaine non è più nobile di quello dei Rogron. Anzi, se possibile, è ancora più spregevole: perché l’orribile Vinet ha almeno il fascino torbido dell’intelligenza. Se i conservatori non custodiscono più uno straccio d’ideale, da opporre alle turpi macchinazioni dell’avvocato, hanno, alla lettera, poco da ridere – della «strega» Sylvie, del «cretino» Jérôme-Denis, dei loro ninnoli sbrilluccicanti. E anche in bocca a noi lettori la risata inacidisce.

 

[Immagine: Caricatura di Balzac, di Benjamin Roubaud].

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