di Timothy Morton

 

[Il testo che segue è tratto da Ecologia oscura di T.B. Morton, pubblicato da Luiss University Press nella collana Intempo, nella traduzione di Vincenzo Santarcangelo (che ha già pubblicato Collasso, di Nick Land: https://luissuniversitypress.it/collana/intempo/). In questo libro Morton critica l’etica dell’ambiente standard, impegnata a giustificare il valore intrinseco della natura incontaminata, intesa come sfera del tutto separata, e propone un ambientalismo diverso, fondato sulla consapevolezza della continuità fra umano e non umano, fra vita e non-vita e sull’accettazione del turbamento che tale consapevolezza ci può provocare. Nel passo, Morton difende la nozione di Antropocene da alcune critiche e la inserisce in una visione metafisica più ampia, nota come object oriented ontology (OOO), in cui le differenze fra soggetto e oggetto, fra umani, animali e cose vengono attenuate molto, se non annullate del tutto. Per Morton, l’OOO è la giustificazione migliore per una nuova alleanza fra umani, animali, piante ed ecosistemi, la cornice più adatta per un nuovo ecologismo (Gianfranco Pellegrino)

Morton ha dichiarato la sua identità non binaria, segnalando che gradisce la propria indicazione di genere con il pronome di terza persona plurale they. Scegliamo di sostenere questa scelta utilizzando perifrasi senza genere e un uso simbolico dello scevà (ǝ) dove riferito alla sua persona.]

  

Uno scomodo Antropocene. Non tutti sono pronti a sentirsi sufficientemente spaventati. Negli ultimi tempi, non passa giorno senza che alcuni studiosi di scienze umanistiche si arrovellino almeno un po’ sul termine Antropocene, che è stato proposto in un periodo molto scomodo. L’Antropocene potrebbe sembrare, agli occhi dei postumanisti, un segno antropocentrico di un’epoca sclerotizzata. Altri potrebbero facilmente pensare alla chiusa de Le parole e le cose di Foucault, secondo cui “l’uomo” è come un volto di sabbia sull’orlo del mare, infine cancellato dalle correnti oceaniche.[1] Un’immagine stranamente lungimirante rispetto al tema del riscaldamento globale, se si pensa a una delle sue conseguenze: l’innalzamento dei mari con tanto di incontri di governo in sottomarino.[2] Quanto è ironico tutto questo – com’è strana-mente in loop! Ce ne stavamo lì, felici di timbrare i nostri cartellini nella fabbrica della distruzione, quando l’Antropocene ha fatto capolino. L’umano si riposiziona a un livello geologico molto più profondo della sabbia. Date un attimo di respiro al postumanista! Si tratta di una verità scomoda anche per chi è convinto che qualsiasi accenno alla realtà puzzi di fantasia reaziona-ria o di prepotenza – il calcio dato a un ciottolo da chi non sa nulla.

 

La sesta estinzione di massa: causata dall’Antropocene, a sua volta causato dagli esseri umani, non certo da meduse, delfini o coralli. Il panico sembra un po’ più che insincero, considerato tutto ciò che sappiamo sul riscaldamento globale e quello che noi studiosi di scienze umanistiche pensiamo ci piaccia dire sul ruolo che gli uomini hanno avuto nel crearlo – diversamente da un Robertson o dai membri dell’UKIP (il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito). Fredric Jameson si farebbe una mesta risata di fronte al di-battito degli studiosi che si rifiutano di accettare il concetto stesso di realtà e altre big pictures, mentre le grandi multinazionali continuano a fatturare sotto i nostri occhi.

 

Lo schermo argentato dell’oceano. Il problema del riscaldamento globale è che non si può semplicemente scaricare la responsabilità su un particolare gruppo di umani, né insistere sul fatto che la sesta estinzione di massa è solo l’ennesimo costrutto culturale. La filosofia ha sostenuto più volte, con Foucault, con Heidegger o con Nietzsche, con Marx, con Hegel, con Kant, che non ci sono cose accessibili in sé, ma solo il porsi della cosa o l’essere-cosa del Dasein o le grandi narrazioni, oppure cose poste dalla storia dello Spirito o, ancora, la Volontà o le relazioni economiche (umane): cose, cioè, che esistono nella misura in cui sono correlate a una qualche variante di soggetto (umano) – è per questo che si parla di correlazionismo.[3] Ma lo schermo su cui sono proiettate tali correlazioni non è affatto bianco: è popolato di entità singolari e discrete dotate di “vita” propria, e poco importa se un soggetto (umano) ha aperto la porta del frigorifero epistemologico per controllare se esistessero davvero. Alcune di queste entità, brutalmente trattate come schermi bianchi, stanno sopraffacendo l’essere umano, poiché quelli che il gergo assicurativo chiama atti di Dio sono in realtà comportamenti di esseri umani che agiscono in quanto forza geofisica.

 

L’immagine del volto di sabbia di Foucault descrive bene il regime del potere-sapere inaugurato nel 1800, l’ennesimo colpo di scena nella storia. Il diciottesimo secolo è il secolo del motore a vapore, il motore dell’Antropocene. Il diciottesimo secolo è anche il secolo di Hume e di Kant, che inaugurarono l’epoca del correlazionismo. Hume sosteneva che causa ed effetto fossero costrutti mentali basati sull’interpretazione di dati, una posizione da cui derivano i metodi statistici della scienza contemporanea. È per questo che i negazionisti e le compagnie del tabacco possono affermare, con una bella faccia tosta, “non è mai stato provato” che a causare il riscaldamento globale siano stati gli esseri umani o che il fumo provochi il cancro.

 

Allo stesso modo, seguendo una logica post-humeana, non potrò mai affermare che un proiettile che sta per colpirmi alla testa mi ucciderà. Al più, potrò dire che è probabile al 99,99% – il che sarebbe effettivamente più accurato, poiché potrei affermare che mi baso solo su dati e non su fattoidi metafisici derivanti da ragionamenti aristotelici sulle cause finali. Così, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (l’IPCC), sebbene renda sempre più evidente il fatto che gli esseri umani abbiano causato il riscaldamento globale, è costretto a farlo servendosi di dati statistici: nel momento in cui scrivo è certo al 97%,[4] e questo lascia ovviamente un margine ai conservatori e ai negazionisti, che alla prima nevicata esclamano: “Ehi! Guarda qui, una palla di neve! E c’è chi parla ancora di riscaldamento globale!”. Ma oltre a negare il riscaldamento globale, questi atteggiamenti sconfessano le uniche teorie sulla causalità a mio avviso ancora dotate di senso.

 

Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la parola “Antropocene”. Passiamo in rassegna i modi in cui l’Antropocene viene confutato. In primo luogo, analizziamo la tesi del colonialismo: l’Antropocene è il prodotto degli esseri umani occidentali, soprattutto americani. Sarebbe ingiusto fare di tutta l’erba un fascio, accusando l’intera razza umana.

Anche se il desiderio è emerso per la prima volta in America, mi risulta che tutti, al giorno d’oggi, esigano l’aria condizionata. Su questo sono d’accordo con Dipesh Chakrabarty, che ha avuto il coraggio di fare riferimento al concetto di specie, dal quale fa dipendere quello di Antropocene.[5] Allo stesso modo, l’obesità non è un problema semplicemente americano. Gli americani non sono l’aspartame che rovina la naturale dolcezza degli altri esseri umani. La ragione profonda di questa verità risiede nel fatto che in nessun momento della storia gli esseri umani hanno semplicemente avuto bisogno di qualcosa. Da un punto di vista logico, il desiderio è prioritario rispetto a qualsiasi cosa si intenda per “bisogno”, nonostante tutte le storie del consumismo continuino a raccontarci di una Caduta in parte legata alla (inutile) modalità standard di concepire l’ecologia: “Prima avevamo bisogno di cose, poi, a un certo punto x, abbiamo iniziato a volerle: questo ci ha fatto precipitare in un circolo vizioso, un loop perverso”. Pensiamo che i loop siano intrinsecamente legati al peccato. Ma, in realtà, i loop non sono peccaminosi. Non c’è stata alcuna Caduta, a meno che tu non aderisca alla logica mesopotamica che, per inciso, ha portato all’insorgere del riscaldamento globale. Non c’è stata alcuna transizione dall’“avere bisogno” al “volere”: gli uomini di Neanderthal avrebbero adorato la Coca-Cola Zero.[6]

 

Passiamo ora alla tesi del razzismo. Chi fa riferimento al concetto di Antropocene sta affermando che gli umani sono responsabili in quanto razza e, laddove questo dovrebbe significare gli esseri umani bianchi, i bianchi restano invece impuniti.

Certo, l’umanità esiste. Ma l’umano non deve essere concepito come qualcosa di onticamente dato: non possiamo vederlo, toccarlo o descriverlo come presente in un determinato modo (come bianchezza o non-nerezza, e così via). Non esiste un contenuto positivo ovvio e costantemente dato nell’essere umano. Dunque, il concetto di Antropocene non è razzista. Il razzismo entra in gioco quando si colma il divario tra ciò che è possibile vedere (tutti gli esseri umani che fanno partire le loro macchine e iniziano a spalare carbone) e ciò che l’umano è: l’umano considerato come specie, ovvero come iperoggetto, un’entità fisica ampiamente distribuita di cui io sono e non sono membro allo stesso tempo. (Vedremo che esistono motivi di tipo darwiniano, fenomenologico e logico che ci permettono di violare il “principio” di non contraddizione). Il razzista estingue in maniera efficace il divario, reagendo implicitamente agli effetti che le filosofie di Hume e di Kant hanno avuto sulla realtà. A partire da questi due filosofi, abbiamo iniziato a pensare che fosse ragionevole presupporre una sorta di frattura irriducibile tra ciò che una cosa è e il modo in cui essa appare, sì che possiamo sostenere agevolmente che la scienza ha a che fare solo con dati, non certo con cose reali.

 

Copyright Control. Io stessǝ sono correlazionista, ovvero accetto la tesi fondamentale di Kant per cui, quando cerco la cosa in sé, lungi dal trovarla, finisco per trovare solo dati. E li afferro in modo tale che una cosa (per me) non esiste (significativamente) a prescindere dal modo in cui io correlo i dati (o la storia, o le relazioni economiche, o la volontà o il Dasein). Credo che una drastica finitudine limiti il mio accesso alle cose in sé. La finitudine è drastica perché irriducibile. Non posso passarci attraverso. L’enfasi posta su questo punto ha segnato la differenza tra alcuni realisti speculativi, che pensano di poter squarciare la finitudine ed entrare così in un mondo ad accesso diretto – per esempio attraverso la scienza – e altri che la pensano diversamente, come i sostenitori dell’ontologia orientati agli oggetti.

 

L’ontologia orientata agli oggetti, anche detta OOO, nasce a partire da una profonda riflessione sulle implicazioni nascoste nell’interpretazione di Martin Heidegger del correlazionismo kantiano. Queste implicazioni sarebbero sembrate bizzarre agli stessi Kant e Heidegger, i quali, seppure in modi diversi (idealismo trascendentale e fascismo), hanno cercato di contenere il potenziale esplosivo del loro pensiero. L’ontologia non dice esattamente che cosa esiste, ma in che modo esistono le cose. Se le cose esistono, esistono in questo piuttosto che in quel modo. L’ontologia orientata agli oggetti sostiene che le cose esistano in quanto drasticamente “ritratte”: non possono essere dischiuse e afferrate totalmente da niente, nemmeno da sé stesse. Non puoi conoscere completamente una cosa pensandola o mangiandola o misurandola o dipingendola… Ciò significa che il modo in cui le cose si influenzano a vicenda (la causalità) non può essere diretto (meccanico), ma indiretto o vicario: la causalità è un fatto estetico. Per quanto strano possa sembrare, l’idea che la causalità sia un fatto estetico è coerente con le più potenti teorie sulla causalità (humeane) e le più efficaci teorie fisiche relative al concetto di causa: la relatività e (in misura ancora maggiore) la teoria quantistica. Con una mossa che differisce profondamente dalle demistificazioni più alla moda presenti nelle attuali narrazioni culturali, politiche e filosofiche (e così via), l’OOO crede che la realtà sia misteriosa e magica perché gli esseri si ritraggono e si influenzano reciprocamente su un piano estetico, ovvero a distanza.[7]

 

Se la cultura e la politica ecologica riguardano “il reincantamento del mondo”, come si usa dire, allora ci pare che la posizione dell’OOO sia quella più attraente. In particolare, mi sembra davvero prezioso il modo in cui l’OOO non rinuncia alla scienza e alla filosofia contemporanee, ma piuttosto parte da esse e così, per loro tramite, recupera l’aspetto magico della realtà. In Ecologia oscura ci muoveremo attraverso le implicazioni ecologiche dell’OOO.

Finitudine è il termine che descrive un mondo in cui le entità “si ritraggono” dall’accesso diretto. Ogni tipo di accesso – un filosofo che pensa a una pietra, uno scienziato che frantuma una particella, un contadino che innaffia un albero – è profondamente limitato e incompleto. E lo stesso vale per le modalità di accesso non umane – un tordo che spacca un guscio di lumaca su una pietra, un elettrone che interagisce con un fotone, un albero che assorbe acqua. Kant è stato il filosofo che per primo ha concepito questa finitudine, almeno fin quando si è trattato di riflettere su come gli esseri umani accedono alle cose. Non credo che presupporre la finitudine relativa alla correlazione uomomondo sia errato: la finitudine non può essere squarciata, nemmeno con uno strumento apparentemente affilato come la matematica[8]. Quando matematizzo una cosa, eccomi, la rendo oggetto matematico, misurandola, per esempio. Se questa è una forma di accesso tanto diversa dal mangiarla o dall’usarla per tappezzare la mia stanza è cosa assai dubbia. Il divario tra l’umano e tutto il resto non può essere colmato come pretende di fare il razzismo.

 

Potremmo adottare una strategia profondamente coerente con la politica ecologica. Kant ha formalizzato le argomentazioni di Hume nei giudizi sintetici a priori di un soggetto trascendentale (che non è il “piccolo me” che posso vedere e toccare): solo un correlatore come un soggetto (umano) può rendere reale la realtà. Il momento esatto in cui la filosofia afferma che non è possibile accedere direttamente al reale ha sorpreso gli esseri umani intenti a trapanarla sempre più in profondità: i due fenomeni sono indistricabilmente intrecciati. Il correlazionismo ha un fondamento, ma diventa disastroso se viene limitato agli esseri umani. Se c’è un disastro peggiore del trattare le cose come semplici grumi è trattarle come grumi inerti che possiamo modellare a nostro piacimento. Come procedere allora? Dovremmo semplicemente abbandonare l’idea che l’Antropocene detenga il copyright sul correlazionismo, concedendo anche ai non umani, ai pesci per esempio (e forse anche alle forchette da pesce), il divertimento di non poter accedere alla cosa in sé.

 

In questo senso, che la cosa in sé divenga cibo per pesci o cibo per umani, o che divenga qualcosa che un essere umano può misurare, rimane comunque al di là di queste forme di accesso, e non vi è alcuna intrinseca egemonia nel modo in cui gli umani possono accedere a essa. Questa è la premessa di base dell’ontologia orientata agli oggetti: Kant aveva ragione, ma il suo antropocentrismo gli ha impedito di cogliere gli aspetti più interessanti della sua teoria. Vedremo che questi aspetti potrebbero avere una profonda influenza sul modo in cui configuriamo la logica della coesistenza futura.

Molto bene, ribatte l’umanista indeciso. Forse l’Antropocene non è un concetto colonialista, e nemmeno razzista, ma di certo deve essere un esempio lampante di specismo. Non si sta forse affermando che gli esseri umani sono speciali, diversi, in un certo senso unici, proprio perché hanno creato una nuova èra geologica?

 

Sono stati gli uomini, e non certo i delfini, a inventare la macchina a vapore e a trivellare il suolo in cerca di petrolio. Ma questo non è un motivo sufficiente per reputarli speciali. Con buona pace dell’etimologia, specie (species) ed essere speciale (specialness) sono due concetti estremamente differenti. Basta chiedere a Darwin. Sfortunatamente lo scienziato inglese non poteva ricorrere alle emoticon, perché se il titolo del suo capolavoro fosse terminato con quella che fa l’occhiolino, avrebbe potuto dirlo in modo succinto: non esistono specie, eppure esistono! E non hanno nessuna origine, eppure ce l’hanno! Un essere umano è fatto di componenti non umane ed è direttamente connesso ai non umani. I polmoni si sono evoluti dalle vesciche natatorie – eppure un umano non è un pesce.[9] Una vescica natatoria, da cui derivano i polmoni, non è un polmone in lista di attesa. Non c’è nulla, in essa, che assomigli anche solo lontanamente a un polmone.[10] Per non parlare del mio microbioma batterico: ci sono più batteri, “in me”, che componenti “umane”. Una forma di vita è quello che Derrida chiamava l’arrivant e che io ho definito lo straniero estraneo: un essere che, in modo davvero inquietante, è sé stesso e non è sé stesso al contempo.[11] La scienza contemporanea ci permette di pensare alle specie non come a entità inesistenti, ma come entità fluttuanti e spettrali mai chiaramente e costantemente presenti. Spettrale è per certi versi affine a specie.

 

Il concetto darwiniano di specie è proprio l’opposto di quello aristotelico: grazie a quest’ultimo, si poteva parlare di specie in termini teleologici – le anatre servono per nuotare, i greci per schiavizzare i barbari… Dato che la specie, in questo senso, non coincide con me – un essere umano contrapposto a una matita o un’anatra – il concetto di specie non implica lo specismo. Come il razzista, lo specista colma il divario tra fenomeno e cosa con una pasta speciale: la fantasia di un contenuto facile da identificare. È proprio questo contenuto che non siamo capaci di vedere: eppure esistono anatre e spatole, che di certo non sono esseri umani.

 

Il concetto di specie, apparentemente anacronistico, sicuramente pericoloso, sembra a tutta prima facile da immaginare: il programma per bambini Sesamo Apriti lo spiega bene (We Are All Earthlings).[12] È attraverso il ragionamento stesso con cui discerniamo il divario trascendentale tra i dati e le cose che si disvela l’essere che manifesta questo ragionamento – il che potrebbe assomigliare a uno strano serpente che si mangia la coda. È un paradosso profondo: ciò che sembra essere più vicino – la mia esistenza in quanto entità reale, la scorciatoia che mi porta all’umano – è fenomenologicamente la cosa più lontana da me. Il buco nero supermassiccio situato nel Sagittarius A, al centro della Via Lattea, è molto più vicino al mio pensiero di quanto lo sia il mio essere-umano. I Muppets, effettivamente, inibiscono il pensiero ecologico: rendono straordinariamente evidente che ogni volta che giro la chiave della mia auto sto contribuendo al riscaldamento globale e tuttavia sto compiendo azioni statisticamente irrilevanti. Quando mi considero un membro della specie umana, smarrisco il visibile, tangibile “piccolo me”; eppure non sono state le tartarughe a causare il riscaldamento globale.

 

In quarto luogo, alcuni di noi si preoccupano del fatto che quello di Antropocene sia un concetto tracotante, poiché pone su un piedistallo la specie umana, presumendo che abbia poteri divini tali da permettergli di forgiare il pianeta. È un atteggiamento che dovrebbe far infuriare – ma sfortunatamente questo non avviene con tutti gli studiosi di scienze umanistiche, abituati come sono a sospettare di qualsiasi espressione abbia al suo interno la parola “umano” (in particolare l’etimo greco del termine, anthropos) e di qualsiasi cosa venga espressa in uno stile diretto, come quando si usa il “noi” in una conferenza perché si pensa che ciò faccia sentire partecipi le persone (anche se…). Pensa a quanto questa strategia assomigli in realtà a una semplice alzata di spalle. Supponiamo che abbia causato un incidente d’auto che ha ucciso i tuoi genitori e il tuo migliore amico: in tribunale sostengo che dare la colpa a me sarebbe chiaramente un atto tracotante. Non sono stato io, è stato il mio braccio destro, è stata la parte peggiore del mio carattere, è stata la mia macchina. Alzata di spalle e perfetto isomorfismo con una delle forme più reazionarie di negazionismo: come osiamo pretendere di avere un così grande potere sulla natura! Ora immagina di rappresentare la specie umana in un tribunale in cui molte forme di vita stanno decidendo chi ha causato il riscaldamento globale. Immaginate la difesa “tracotante”: «Sarebbe un atto di tracotanza nei miei confronti assumermi interamente la responsabilità – dopo tutto, la colpa è solo di questo mio brutto aspetto, è stato solo un incidente, non l’avrei fatto se avessi usato la bicicletta invece che la macchina…”. Dire che l’analogia non funziona perché io sono un individuo significa solo che ancora non riesci, come la maggior parte di noi, a pensare il concetto di specie – e questo è il vero problema.

 

Il fatto che gli umani siano diventati una forza geofisica su scala planetaria non sembra impedire agli spiriti ansiosi di tacciare il termine Antropocene di tracotanza. Cavillare sulla terminologia è un triste segnale degli eccessi verso cui si è spinto il correlazionismo. Si riducono le cose agli effetti della storia o del discorso, o a qualunque cosa si sia cristallizzata in un’etichetta, così che, se usi il termine Antropocene, sarai accusato di non aver scelto il giusto tipo di riduzionismo. Ma cosa succede se non accetti la sfida del riduzionismo? Gli scienziati sarebbero assolutamente felici di chiamare Eustacia o Ramen l’èra che chiamiamo Antropocene, purché ci si metta d’accordo sul fatto che gli umani sono diventati una forza geologica su scala planetaria. Non ti piace la parola Antropocene? Poco male. Non ti piace l’idea che gli umani siano una forza geofisica? Molto male. Ma le due cose si confondono nelle critiche che fanno leva sull’“anthropos dell’Antropocene”. Eppure, il termine ingloba il concetto di specie come un elemento inconscio, mai completamente esplicitato. Nessuno, nel 1790, ha deciso scientemente di distruggere il pianeta emettendo anidride carbonica e altri gas. Inoltre, ciò che chiamiamo umano è più simile a un insieme o a un assemblaggio di cose che non sono strettamente umane (prive di DNA umano per esempio) e cose che lo sono (cose dotate di DNA umano). L’Antropocene è stato creato dagli umani, non certo da meduse o computer. Ma gli umani si sono serviti dell’aiuto di esseri che hanno trattato alla stregua di protesi: entità non umane come motori, fabbriche, mucche e computer – per non parlare di idee virali sull’agrilogistica che abitano le menti senza nemmeno pagare l’affitto. La riduzione di intere forme di vita a protesi e la macchinazione dell’agrilogistica sono l’apice della hybris, e la tragedia (da cui deriva il termine hybris) è la prima modalità attraverso cui perveniamo alla consapevolezza ecologica: ma questo non significa che siamo arroganti.

 

L’Antropocene riguarda gli esseri umani – un coacervo di polmoni, microbiomi batterici, antenati non umani e così via – e, allo stesso tempo, agenti come mucche, fabbriche e pensieri, agenti che non possono essere ridotti al loro uso puramente umano o al loro valore di scambio. L’irriducibilità è il motivo per cui questi assemblaggi possono interrompere d’improvviso l’uso e il valore di scambio in modo del tutto inaspettato (inconscio): non si può mangiare un limone californiano in tempo di siccità. Per tornare alla questione della tracotanza e delle intenzioni: siamo stati “noi” a farlo, ma inconsciamente. Diventare una forza geofisica su scala planetaria significa che, indipendentemente da ciò che pensi, indipendentemente dal fatto che tu ne sia consapevole o meno, eccoti qui, lo sei. A chi reagisce contro il termine sfugge qualcosa di questa distinzione. Non si può essere tracotanti nei confronti del proprio battito cardiaco o del proprio sistema nervoso.

Il fatto che il termine non pecchi di hybris è anche il motivo per cui gli ingegneri climatici sbagliano nel pensare che dire Antropocene dia loro carta bianca per posizionare ovunque giganteschi specchi o inondare l’oceano di limature di ferro. L’argomento principale dell’ingegneria climatica procede grossomodo così: “Abbiamo sempre contribuito alla terraformazione, d’ora in poi lo faremo scientemente”.[13] Esplicitare qualcosa non la rende perciò automaticamente più bella. Abbiamo sempre commesso omicidi: perché mai l’omicidio deliberato dovrebbe essere meno disdicevole? Gli psicopatici sono perfettamente consapevoli della sofferenza che infliggono consapevolmente. In relazione alle forme di vita e ai sistemi terrestri, gli umani si sono spesso trovati nella posizione del tricheco rispetto alle ostriche, in Attraverso lo specchio:

 

“Per voi piango,” fé il Tricheco,

con parole assai commosse.

Ne ripete i pianti l’eco,

mentre ei sceglie le più grosse,

e di lagrime un ruscello

va asciugandosi bel bello![14]

 

Si pensi all’analogia di James Lovelock, che vede rispettivamente Jekyll e Hyde associati alla scienza e all’ingegneria, un’assurdità pericolosamente freudiana. Lovelock ci considera la “specie equivalente” dei due personaggi del romanzo di Robert Louis Stevenson. Una parafrasi della sua argomentazione finisce per assomigliare a una fragile parodia: “Solo la grande scienza può salvarci. Negli ultimi due secoli essa ha agito come Mr. Hyde, ma sappiate questo: abbiamo un servizievole Dott. Jekyll interiore. Cerchiamo di essere Jekyll, per favore. Per favore fidatevi di noi, fidatevi”.[15] Ignaro del proprio tono, Lovelock porta avanti un ragionamento che suona esattamente come quello di Mr. Hyde nel romanzo di Stevenson, intento a giustificare le sue sembianze di Jekyll.

 

A meno di ripensare il concetto di specie differentemente, immaginando il genere umano come una totalità planetaria che può fare a meno di quell’universalismo sbiadito e opprimente che spesso comporta l’eliminazione di qualsiasi diversità, avremo ceduto un intero ordine di grandezza – nientemeno che l’ordine di grandezza della biosfera – alla tracotanza della tecnocrazia: un ingranaggio la cui retorica del “lasciaci solo provare” maschera il fatto che quando “provi” qualcosa a un livello sistematico abbastanza generale, non stai solo provando, ma facendo e cambiando irreversibilmente.

Ad ogni modo, non ci si può liberare tanto facilmente dell’inconscio. Si pensi a una frase analoga a “siamo sempre stati terraformanti, quindi adesso continuiamo a esserlo, ma scientemente”: “so di essere un alcolizzato, da adesso berrò pienamente consapevole del fatto che lo sia”. Essere consapevoli di “pregiudizi inconsci” è una contraddizione in termini. E possiamo fare un’osservazione di tipo ecologico ancora più pregnante rispetto all’inconscio. L’ecologia, dopo tutto, è il pensiero degli esseri umani soppesato rispetto a una differente serie di ordini di grandezza, nessuno dei quali ha priorità sull’altro. Riprodotte su quella scala che Douglas Kahn chiama con espressione felice magnitudine terrestre, le mie azioni coscienti rivelano un risvolto inconscio imprevisto.[16] Anche quando sono pienamente consapevole di quello che faccio, io stesso, come membro della specie umana, sto facendo qualcosa che non ho affatto intenzione di fare, né che avrei potuto realizzare da solo, anche avessi voluto.

 

Sono stati gli esseri umani a causare l’Antropocene; sono stati gli esseri umani a ideare tecniche di coltivazione simili a quelle che abbiamo visto all’opera in Tess dei D’Urbervilles, attualmente impiegate su gran parte del suolo terrestre e responsabili di una quantità allarmante di emissioni – per non parlare dell’inquinamento causato dall’agricoltura. Non sono stati certo i batteri o i limoni. Una simile creazione è sicuramente caratterizzata da aspetti inconsci e non intenzionali. A nessuno piace vedere il proprio inconscio smascherato, e la consapevolezza ecologica sta tutta qua: nello smascherare l’inconscio. Come in un’inquietante e letterale conferma della confutazione di Freud – l’inconscio non è certo qualcosa che si trova da qualche parte “al di sotto” o “all’interno” della coscienza – ritroviamo lo stile inconscio di un certo modo di essere umani ad aleggiare su tutto ciò che si colloca al di fuori dell’umano, ossia la biosfera. Questo inconscio è decisamente (geo)fisico. L’idea che esista un esterno non lambito dalle nostre affermazioni coscienti o esplicite su come ci disponiamo intellettualmente o culturalmente è diventata scioccante, o addirittura un tabù, proprio nel momento in cui sarebbe stato opportuno fare tutti insieme uno sforzo per pensare quell’esterno.

 

Sono state proposte alcune alternative al termine Antropocene. Per esempio, mi è stato consigliato di chiamarlo Omogenocene. Ma si tratta solo di un eufemismo. È vero: gli esseri umani hanno impresso il loro marchio su cose che considerano duttili come cera – anche quando si tratta di cose che piangono. Inoltre, e questo mi preme di più, si tratta di un concetto falso e antropocentrico. Anche i depositi di ferro nella crosta terrestre, prodotti dai batteri, sono omogenei. L’ossigeno, causato da una conseguenza involontaria della respirazione batterica, è una porzione omogenea rispetto all’aria. Gli umani non sono gli unici agenti omogeneizzatori. Allo stesso modo, mi sembra che l’etichetta Capitalocene, suggerita da Haraway e Latour, manchi il bersaglio.[17] Il capitale e il capitalismo sono i sintomi del problema, non le cause dirette. Se la causa fosse il capitalismo, allora le emissioni di carbonio dell’Unione Sovietica e della Cina nulla avrebbero aggiunto al riscaldamento globale. Persino i sostenitori dell’agency distribuita si rifiutano di dire pane al pane e vino al vino. Un concetto di specie aggiornato rispetto alla sua assurda versione metafisico-teleologica non sarebbe affatto antropocentrico. Perché è attraverso questo concetto – aperto, poroso, tremulo, distante da ciò che è dato alla mia percezione – che l’umanità tutta può sradicarsi in maniera definitiva dal suo spazio apparentemente privilegiato, ben distinto da quello di tutti gli altri esseri.[18]

 

Quello di “Antropocene” è il primo concetto pienamente anti-antropocentrico.

 

Note

 

[1] M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1978, p. 414.

[2] Mi riferisco qui alla riunione straordinaria del governo delle Maldive, avvenuta in un sottomarino nel 2009.

[3] Q. Meillassoux, Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 9.

[4] IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), Climate Change 2014: Summary for Policymakers, http://www.ipcc.ch/pdf/assessment-report/ar5/syr/SYR_AR5_SPM.pdf.

[5] Chakrabarty, “The Climate of History: Four Theses”, cit.

[6] Le affinità genetiche tra umani e Neanderthal diventano giorno dopo giorno sempre più evidenti. Vedi C. Zimmer, “Neanderthals Leave Their Marks on Us”, New York Times, 29 gennaio 2014.

[7] T. Morton, Realist Magic: Objects, Ontology, Causality, Open Humanities, Ann Arbor 2013.

[8] Quentin Meillassoux e Ray Brassier sostengono questa tesi.

[9] Ecco spiegato il fascino di un documentario come Your Inner Fish di Neil Shubin (PBS, 2014). Vedi N. Shubin, Il pesce che è in noi. La scoperta del fossile che ha cambiato la storia dell’evoluzione, Rizzoli, Milano 2008.

[10] C. Darwin, L’origine delle specie, Bollati Boringhieri, Torino 2011.

[11] J. Derrida, “Hostipitality”, Angelaki 5, n. 3, dicembre 2000, pp. 3-18; T. Morton, The Ecological Thought, Harvard University Press, Cambridge 2010, pp. 14-15, 17-19, 38-50.

[12] Sesamo Apriti!, We Are All Earthlings, Sony, 1995; Usa for Africa We Are the World, Columbia, 1985.

[13] Vedi, per esempio, K.S. Robinson, Il rosso di Marte, Fanucci, Roma 2016; Il verde di Marte, Fanucci, Roma 2017; Il blu di Marte, Fanucci, Roma 2017.

[14] Carroll, Alice nel paese delle meraviglie – Attraverso lo specchio e quello che Alice vi trovò, cit.

[15] J. Lovelock, La rivolta di Gaia, Rizzo-li, Milano 2006.

[16] D. Kahn, Earth Sound Earth Signal: Energies and Earth Magnitude in the Arts, University of California Press, Berkeley 2013.

[17] B. Latour, Anthropology at the time of the Anthropocene: A Personal View of What is to be Studied, http://www.bru-no-latour.fr/sites/default/files/139-AAA-Washington.pdf.

[18] Questa idea è stata sostenuta da più autori simultaneamente. Vedi, per esempio, C.C. Mann, “State of the Species: Does Success Spell Doom for Homo Sapiens?” Orion, novembre-dicembre 2012, http://www.orionmagazine. org/index.php/articles/article/7146

1 thought on “Ecologia oscura. Logica della coesistenza futura

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *