di Alberto Fraccacreta
Il filosofo francese Jean-François Lyotard ci ha insegnato, in La condizione postmoderna (1979), che la nostra epoca coincide con la «crisi delle grandi narrazioni» (récits): nel guazzo vanno annoverati i sistemi filosofici di ampio respiro, le ideologie, il dominio della tecnica. Nel corso del Novecento e persino nella letteratura di oggi è possibile ravvisare l’envers du décor di tale crisi grazie alle tessere mancanti di un mosaico, di uno sfondo variopinto e vacante, entro cui scrittori e poeti hanno voluto incastonare i loro scritti, fornendo coordinate ‘spirituali’ se non precise, almeno indicative. Ha fatto scuola il «metodo mitico» di Eliot e Joyce: commistione, mixed up confusion di presente e passato, realtà e mito appunto, alternanza dei piani temporali, immersione ed emersione di un telaio intertestuale nell’«indistinto coassiale» del narrato (citazione tratta da tutt’altro contesto ma abbastanza calzante). I libri che sono stati stampati dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, strano a dirsi, non si discostano molto da quella strategia di scrittura che mantiene a livello subconscio un proscenio, una passerella capace di supplire alla mancanza di un contenuto semantico condiviso. Una strategia che, non trovando altro terreno stabile su cui improntare la propria impalcatura psicologica, rivela l’esigenza inestinguibile di «metanarrazione» contro la «nebulosa» di caosmos (Joyce, Finnegans Wake) degli elementi linguistici e diegetici: perduti (?) i «grandi peripli» e i «grandi fini», bisogna setacciare la mirandoliana architettura delle cose in sé (nel sé), dentro il proprio mito.
A distanza di settantaquattro anni, si possono leggere sotto questa lente i Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, ripubblicati nell’edizione Adelphi (introduzione di Giulio Guidorizzi, con una conversazione tra Carlo Ginzburg e Giulia Boringhieri, pp. 226, € 18) e nell’edizione Feltrinelli (a cura di Salvatore Ritrovato, pp. 240, € 18). Se Ritrovato sottolinea come la mitologia classica, penetrando «il segreto formulario delle nostre inquietudini», offra «una risposta più lungimirante a quel senso di sgomento che attraversa molti ambienti intellettuali dell’epoca» (i Dialoghi appaiono per la prima volta nel ’47), Guidorizzi mette in rilievo il rapporto con Frazer e i grandi antropologi: «Se il mito porta con sé un’ondata narrativa, a Pavese non interessava la cresta spumeggiante delle antiche storie che si avventano su chi le ascolta, ma il suono cupo della risacca che porta con sé i sassi smossi dall’onda. Il mito — così pensava — è essenzialmente un dialogo con sé stessi». I ventisette colloqui (antifrastici, epirrematici) hanno dunque una valenza esistenziale difficilmente ignorabile, che non prova a circoscrive il campo del favoloso in un’inquadratura stilistica, ma sottende l’idea, la possibilità che quella visione del mondo — linguaggio e figure mitiche — posseggano una verticalità capace di parlare all’uomo tout court, soprattutto se calato in un equoreo orizzonte politico. Non sarebbe sorprendente interpretare i Dialoghi come atteggiamento religioso o addirittura professione di fede del loro autore: una religione e una fede kafkianamente rivolte a un «Dio personale» («Demetra Sta’ a sentire. Verrà il giorno che ci penseranno da soli. E lo faranno senza noi, con un racconto. Parleranno di uomini che hanno vinta la morte»).
Si rimane nelle immediate adiacenze concettuali quando, sfogliando la bella introduzione di Fabio Scotto a Nell’inganno della soglia (1975) di Yves Bonnefoy (a cura di Fabio Scotto, il Saggiatore, pp. 184, € 23) si legge: «Il poeta nomina Dio, ne associa il nome a un moto litanico-anaforico simile alla preghiera». Nelle liriche-fiume dell’autore francese Dio è un sentimento diffuso — un sentire naturaliter — ed emerge dal tentativo di «varcare una soglia, quella dell’indicibile, scontrarsi a una porta coriacea, ingannevole, chiusa». Bonnefoy, distante e prossimo a Pavese, non desidera ‘formalizzare’ il mito, acquisirne la tematicità, ma fornire alla sua dizione un andamento che sia coerente con la presenza nel mondo rivolta a un esistere primigenio. Che esso collimi poi con la ricerca dell’heideggeriana Eigentlichkeit, la cosiddetta autenticità in essenza, pare indubbio: «Mi chino su di te, raccolgo, in ginocchio/ Fiamma che vai,/ L’impazienza, l’ardore, il lutto, la solitudine/ Nel tuo fumo./ Mi chino su di te, alba, prendo/ Tra le mani il tuo viso. Che bel tempo/ Sul nostro letto deserto! Sacrifico/ E sei la resurrezione di quel che brucio». La parola (mythos) è sorgente fisica-fisiologica in virtù del suo primo emettere suono (si noti la radice dal sanscrito mi-mâ-ti, muggire, belare). Il Dio di Bonnefoy è infatti il «bambino» e la parola che salva («E per queste poche parole che ho salvato») avviene «per una bocca infante», a indicare così l’originario atto d’essere.
La fisica della poesia si estrinseca con termini non troppo differenti anche in due opere lontane per sensibilità, gusto ed esecuzione: un radio play del 1953, Milk Wood di Dylan Thomas, tradotto da Enrico Testa (Einaudi, pp. 94, € 12), e le Ballate oscure del poeta neogreco Nasos Vaghenàs (a cura di Filippomaria Pontani, Crocetti, pp. 144, € 14), pubblicate nel 2001. Essendo un testo teatrale pensato per la radio che recupera la tradizione gallese del cynghannedd, ossia la «ripetizione nella seconda parte di una sequenza frasale delle stesse consonanti della prima», Milk Wood con un «montaggio di stampo indubbiamente modernista» — come evidenzia Testa — è un boccalibro che consta di sessanta personaggi circa (da Capitan Gatto a Willy Nilly, da Mrs Pugh a Ocky il Lattaio) e s’industria nel compiangere verbalmente l’innocenza perduta, nutrendo una forte «pietà per gli umani» (termini quasi pavesiani) che è poi la «prima virtù dei veri poeti». Se Thomas ha per modello più o meno dichiarato l’Ulysses, Vaghenàs per effetto della «crisi del verso libero» — estendibile alla più ampia disarticolazione delle forme espressive — recupera le gabbie tradizionali «riconsacrando» la poesia con un’inflessibile riesumazione della rima. Invertendo l’ordine degli addendi il risultato non cambia: Thomas è impegnato nella creazione di nomi-maschere iconiche, personaggi che effigiano un’idea o una condizione ontologica, irripetibile e cosmica; Vaghenàs in maniera più scoperta adopera il mito greco e la tradizione giudaico-cristiana per stigmatizzare, come nota Pontani, «la definitiva e ineluttabile caduta del soggetto dall’universo del sostanziale e del continuo in quella della corruzione e della corruttibilità terrena» («Ogni poesia è un fiore molto esile,/ nutrito dalla cònsona tristezza./ L’ira, quando è troppa, lo spezza»).
Ma non si può utilizzare una simile esegesi per scoprire anche il vaso di Pandora che c’è dietro al poemetto di Marina Cvetaeva, La principessa guerriera (a cura di Marilena Rea, postfazione di Monica Guerritore, Sandro Teti Editore, pp. 283, € 22)? Questa fiaba in versi, legata intimamente al folclorico-epico russo, ha il deliberato proposito di «salvare dall’oblio quell’autentica cultura moscovita che, con tanto orgoglio, Cvetaeva aveva regalato a Osip Mandel’štam durante il soggiorno a Mosca nel 1916». La principessa guerriera, un po’ santa un po’ amazzone, altri non è che la tensione stessa del femminino a una sua compiutezza nella storia e nell’umano. Il mito diviene così incarnazione dell’ideale, concludenza e terminazione di tutte le esperienze nell’automa à la Vaucanson che presenta all’interno dei suoi complessi ingranaggi le substrutture e i gangli della coscienza moderna.
Concludiamo questa breve disamina sulla persistenza della metanarrazione del mito con il poeta tedesco Durs Grünbein. In Schiuma di quanti (traduzione di Anna Maria Carpi, Einaudi, pp. 208, € 14), che riunisce le ultime tre sillogi — Colosso nella nebbia (2012), Aroma. Un album romano (2010), Candele d’accensione (2017) — e un cospicuo numero di inediti, l’immagine, assediata da riflessioni quantistiche e neurologiche che divengono loro stesse ‘mito’ (in senso kuhniano), è il contorno di spazio letterario da cui trarre l’inefficienza, la non piena pregnanza della parola poetica: com’è detto in Trasparenza in azzurro, «Comincia subito a far esercizio. Esercitati/ nell’assenza. A questo mondo fisico/ nulla mancherà finché sino all’ultimo atomo/ l’aria attesta ciò che sei sempre stato: aria». Forse in un autore così sapidamente connesso alla Weltliteratur di Goethe appare ancora più evidente che la ragnatela di senso, la pellicola fondativa con la quale il mito avvolge la letteratura contemporanea non è composta soltanto da sostanze puramente nominali («l’abisso Calipso») o narrativo-sintattiche o legate all’emissione della parola («verbi bianchi»), come si è visto; è un modo di concepire gli oggetti e la realtà circostante, mitizzandoli appunto, laddove — excusatio non petita — si avverte la mancanza del referente di un’intelaiatura che le sappia leggere (reggere) univocamente. Il mito, classico o meno, diviene così la spia di un’esigenza di significato che non può essere elusa. Non meraviglia allora che a Grünbein «ogni mandorlo» sembri «una schiuma di quanti»: «Non solo le cose in sé, il come appaiono,/ anche i significati che da un pezzo/ hanno possono volgersi/ all’irrappresentabile». Quell’irrappresentabile, un po’ come il dhvani (la «risonanza» dello «specifico poetico» additata da Ānandavardhana nel Dhvanyāloka), è descritto dal mito. O forse, ancor di più, è assimilabile al «portico del mistero della seconda virtù» à la Péguy: speranza e soglia di rappresentazione. Ciononostante, la modalità espressiva non riesce a conchiudere il tutto e la poesia rimane sospesa «in controluce, in controsguardo».
[Immagine: Gregorio Lazzarini, Orfeo massacrato dalle Menadi, Musei Civici Veneziani].