di Hans Joas
[Presentiamo un estratto di Come nascono i valori, un saggio di Hans Joas uscito ieri per Quodlibet, a cura di Matteo Santarelli].
Da Nietzsche al postmoderno
In questo libro abbiamo tentato di rispondere a una questione che oggi è cogente a livello teorico e pratico: come nascono i valori? In particolare, abbiamo cercato di articolare una risposta alla luce di un discorso che va da Nietzsche a Dewey. Un discorso talmente caduto nel dimenticatoio negli scorsi anni, che gli autori contemporanei anche quando affrontano la questione in modo più o meno esplicito tendono a non considerare le risposte successive a Nietzsche. Nel nostro percorso abbiamo incontrato direzioni teoretiche molto differenti e una varietà di fenomeni di genesi dei valori. Nell’opera di Nietzsche la questione che ci interessa è stata posta per la prima volta in modo chiaro. Nella sua risposta, c’è una diretta contrapposizione tra l’affermazione per cui i valori (giudaico-cristiani) di giustizia e amore nascono dal risentimento, e la prospettiva di un individuo sovrano che pone i propri valori. In James, una formulazione analogamente radicale della questione trova una risposta più fruttuosa, che tenta di dare giustizia della varietà delle esperienze religiose. Dalla sua indagine su questo tipo di esperienze, soprattutto sulla conversione e sulla preghiera, si possono ricavare affermazioni la cui validità si estende alla genesi di tutti gli impegni al valore. Émile Durkheim si collega alla fondazione jamesiana della teoria della religione a partire da un’interpretazione delle esperienze, ma oppone all’individualismo di James un collettivismo altrettanto unilaterale. In tal modo, soprattutto con l’indagine sul rituale e sull’estasi collettiva, si apre un vasto campo per la ricerca sociologica sulla religione.
Eppure alcuni problemi essenziali rimangono oscuri e irrisolti tanto in James, quanto in Durkheim: la mancata spiegazione del rapporto tra individualità, intersoggettività e collettività; la mancata comprensione del bisogno di interpretazione e dell’apertura interpretativa di ogni esperienza; e infine, la questione del rapporto tra agire quotidiano ed esperienza extra-ordinaria. Nel tentativo di risolvere questi problemi, ci siamo occupati della teoria della religione di Georg Simmel. A dispetto di alcune idee promettenti, è emerso come questa teoria nella sua interezza non renda possibile un reale progresso nella nostra indagine. La terminologia della Lebensphilosophie non offre le distinzioni necessarie a rispondere alla nostra domanda. I contributi più importanti di Simmel in tal senso sono individuabili solo ampliando il campo di indagine oltre l’ambito paradigmatico della religione. A livello fenomenologico, questo campo include in primo luogo l’esperienza della guerra e dell’entusiasmo di una nazione improvvisamente unita: in un preciso momento storico, sembrava così rivelarsi un equivalente moderno dell’integrazione sociale prodotta dalla religione. Dopo aver ritirato con rassegnazione questa tesi, Simmel ha presentato delle idee in parte già elaborate in precedenza, soprattutto nelle sue riflessioni sulla morte e l’immortalità, che ci permettono di progredire nella nostra questione. Vengono così introdotte la relazione costitutiva del soggetto con i valori e l’idea di una personalità che diviene consapevole della sua finitudine, due elementi necessari nella risposta alla questione della genesi dei valori.
Al fine di eludere le limitazioni di un’ottica centrata sulla moralità intesa come sentimento di obbligazione ed esperienza del dovere – rinvenibile in Simmel così come in tutti gli autori ancora orientati a Kant (Nietzsche incluso) – la discussione si è poi indirizzata verso l’opera di Max Scheler. In essa troviamo una ricca fenomenologia dei sentimenti morali e dell’esperienza dei valori nella loro forza attrattiva. Ciò è parte dell’audace progetto di un’etica moderna dei valori e di un superamento dell’etica degli imperativi a partire dallo spirito di un’idea cristiana di amore, che l’autore sostiene con passione. Scheler carica però le sue analisi dell’esperienza dei valori con una tesi insostenibile almeno in questa forma, e che più o meno ritratterà nel corso del suo percorso intellettuale. Secondo questa tesi, l’esperienza certa e affettivamente connotata dei valori è indice del fatto che i valori esistono indipendentemente dall’esperienza. In opposizione a questa idea, si può percorrere il sentiero tra relativismo e oggettivismo aperto da John Dewey. Ma non è tanto questo cammino, che passa per la concretizzazione situata e la definizione dei singoli valori, quanto piuttosto la teoria della religione deweyana a offrire una risposta produttiva alla nostra questione, nonostante i suoi obiettivi siano molto legati al contesto dell’epoca e la sua prospettiva storica sia implausibile. Dewey collega una comprensione intersoggettiva della costituzione dell’identità al ruolo dell’immaginazione e della creatività nella genesi dei valori o degli ideali. La sua attenzione si dirige soprattutto verso l’idealizzazione di possibilità contingenti e il riferimento immaginario a un Sé olistico. Il pensiero di Dewey è guidato in questa direzione dall’esperienza del linguaggio e della comunicazione, oppure dall’esperienza in cui siamo scossi dalla relazione con l’altro, sebbene quest’ultima via venga percorsa in modo più timido.
Cinquant’anni dopo, e senza ricollegarsi a tali predecessori, Charles Taylor sviluppa delle riflessioni simili. La connessione tra filosofia del valore e teoria della costituzione dell’identità in questo caso è più consapevole di quanto non fosse in Dewey. Come in Scheler, l’argomentazione fa ricorso a una fenomenologia dei sentimenti morali – in questo caso, non pienamente sviluppata – e il pensiero intersoggettivo è un elemento in comune con Dewey e Mead. Taylor tuttavia tratta il rapporto tra esperienza e interpretazione in modo molto più sfaccettato, mettendo in luce l’esistenza di un circolo ermeneutico irriducibile tra questi due poli. Interpretazione ed esperienza non sono né indipendenti, né riducibili l’una all’altra. Anche rispetto al rapporto tra azione quotidiana ed esperienza extra-ordinaria, la sua teoria del bene costitutivo prevede quanto meno un posto per il rapporto tra esperienza quotidiana ed esperienza extra-ordinaria, sebbene a tal riguardo rimangano aperte alcune questioni. Su questo punto, così come sul rapporto tra esperienza del valore ed esperienza del dovere, la risposta di Taylor non è la parola definitiva sulla questione che ci interessa. Nell’affrontare la sfida postmoderna ai concetti di identità e valore rappresentata ad esempio da Rorty, la questione della contingenza posta all’inizio della nostra indagine è stata ulteriormente radicalizzata. Nella riflessione sulla contingenza emerge infatti la necessità di intrecciare in modo più accurato le dimensioni dialogiche e quelle “esclusive” della costituzione dell’identità, rispetto a quanto non avvenga solitamente nella tradizione delle scienze sociali. Nel fondare la solidarietà sull’evitamento della crudeltà e nella sua sensibilità verso l’umiliazione in quanto forma specificamente umana di crudeltà, proprio mentre siamo al fondo della critica postmoderna Rorty ci fa sbattere ancora una volta sulla dimensione dei sentimenti morali e della coerenza del Sé di fronte alla contingenza. Tramite questo percorso di confronto con differenti autori e linee di pensiero, l’idea da cui siamo partiti è diventata più concisa, e ha mostrato di resistere alla sua messa in discussione radicale. Possiamo così affermare che i valori nascono da esperienze di formazione del Sé e di auto-trascendenza.
Arrivati a questo punto, dobbiamo dare conto di tre possibili fraintendimenti rispetto al carattere preciso di queste idee.
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Due possibili fraintendimenti
Un secondo fraintendimento risulta dall’equivocità della parola “nascere”. Ci sono quattro modi in cui può essere compreso il modo in cui “nascono” i valori. Il primo senso riguarda la prima emanazione storica di un valore. Il secondo senso è quello del sostegno a tale valore da parte di un piccolo gruppo crescente di discepoli. Il terzo significato consiste nell’emergere di un nuovo impegno verso valori che non sono in nessun modo storicamente nuovi – ad esempio tramite la conversione. Infine, la “nascita” può essere intesa nel senso della resurrezione di valori che avevano perso il loro impulso o che erano caduti nel dimenticatoio. Per una sociologia storica della genesi e della diffusione o del mutamento dei valori, questa distinzione ovviamente è decisiva. Tale disciplina dovrà soprattutto fare chiarezza sul tipo specifico di genesi dei valori verso cui si dirige la ricerca. Nel presente contesto, tuttavia, questa distinzione può essere ignorata. I valori non emergono sempre nella forma eruttiva in cui dei visionari carismatici ne fanno esperienza e li annunciano. Ad esempio, essi possono ricevere senso e direzione dal delicato equilibrio tra esperienza, articolazione e il deposito culturale di interpretazioni disponibili. Eppure, in nessun caso si può fare a meno delle esperienze di formazione e trascendenza del Sé. Anche le forme ritualmente irrigidite attraverso le quali i valori vengono periodicamente rivitalizzati sono un tentativo di rendere possibili queste esperienze, o comunque di evocarle. In questo senso, la tesi qui sostenuta si trova a un livello precedente rispetto a una sociologia storica dei valori. In questi ambiti tematici saranno in ogni caso fatte assunzioni, implicite o esplicite, sulla genesi dei valori, che si trovano allo stesso livello logico rispetto alle idee difese in questa sede.
Il terzo fraintendimento delle presenti argomentazioni, probabilmente il più pericoloso, consiste nel leggere nell’accentuazione della contingenza della genesi dei valori una requisitoria contro le pretese di una morale universalistica, ossia un impeto quantomeno relativistico, e forse persino antimorale. Ciò sarebbe in aperto contrasto con le mie intenzioni. Pertanto, su questo punto è necessario un chiarimento. La questione del rapporto tra il carattere attrattivo dei valori e il carattere obbligatorio delle norme ha percorso sottotraccia la discussione di tutti i singoli contributi alla genesi dei valori, senza mai prendere il centro della scena. Nelle prossime pagine, questo aspetto andrà recuperato.
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I valori sono necessariamente particolaristi?
Non solo il singolo agente, ma anche soggetti collettivi, intere società e culture si trovano in situazioni pratiche. Nel parlare di attori collettivi e aggregazioni di azioni, mettiamo da parte i concetti filosofici di “bene” e “giusto”, per riprendere il gergo sociologico dei “valori” e delle “norme”. Come nel caso dei singoli agenti, anche qui emerge una tensione tra i sistemi particolari di valori, emersi in modo contingente, e il potenziale di una morale che spinge verso l’universalità. Alcune strutture della moralità universalmente diffuse possono essere accertate empiricamente. Ad esempio, i bambini possono individuare norme fondamentali di correttezza semplicemente concentrandosi sull’esigenza interna di regolazione della cooperazione. Queste norme, che arrivano fino alla formulazione riflessiva della “regola aurea”, sono conosciute in tutte le culture. Questi fenomeni mettono in difficoltà chi enfatizza la contingenza dei valori in senso relativistico. All’inverso, la tradizione morale universalistico-deontologica ha trovato ulteriori certezze in questi fenomeni. Questo rimando alla diffusione universale di norme fondamentali va integrato tuttavia con una clausola restrittiva: ogni cultura delimita la morale potenzialmente universale, definendone gli ambiti e le condizioni di applicazione. Quali esseri umani o esseri viventi e quali situazioni possono essere dispensati da questa morale? La risposta a tale questione è materia di interpretazione, e di conseguenza varia culturalmente e storicamente. L’esclusione di esseri umani appartenenti ad altri stati, etnie, razze, religioni, generi, età, mentalità e moralità richiede che venga fornita una giustificazione. Senza tale giustificazione, il giusto diventerebbe un esplosivo per ogni cultura.
Eppure sarebbe di nuovo un errore, come nel caso del singolo agente, farsi trasportare dall’adesione a una morale universalistica, e non comprendere che nessuna cultura può fare a meno di un determinato sistema particolare di valori e di una determinata interpretazione particolare del mondo. “Particolare” ovviamente non significa qui “particolaristico”: la specificità culturale non comporta l’incapacità di considerare punti di vista universalistici. Al contrario, le domande che si pongono sono: a quali specifiche tradizioni ci si può riallacciare in modo più diretto dal punto di vista dell’universalità del giusto? In che modo tradizioni culturali differenti possono essere portate avanti e riplasmate da questo punto di vista?
Dal punto di vista della costruzione delle teorie nelle scienze sociali, ciò significa che integrazione culturale e integrazione sociale vanno distinte chiaramente, e che tuttavia anche al livello dell’integrazione sociale va dato conto dell’universalità potenziale delle norme. La regolazione normativa dell’integrazione sociale risulta in parte dai valori culturali, ma non è semplicemente derivata da questi ultimi. Essa risulta piuttosto dall’equilibrio riflessivo tra la riflessione degli attori sociali cooperanti sul loro agire da un lato, e le interpretazioni culturali dall’altro. Parsons vedeva le norme come specificazioni dei valori nelle situazioni, e in questo aspetto il suo pensiero cadeva nell’erronea riduzione idealistica del sociale al culturale. La rivendicazione del sociale, tuttavia, non può avvenire a discapito della potenziale universalità. Sarebbe sbagliato ridurre la dimensione del sociale a meri conflitti tra interessi e lotte per la distribuzione, senza tenere in conto del potenziale normativo costituito dalla cooperazione antagonistica. Questo significherebbe sostituire la fallacia culturalistico-idealista con una fallacia utilitaristico-materialista. L’analisi del gioco di scambi tra integrazione culturale e sociale, tra valori e norme deve tener conto del fatto che differenti sistemi di valori sono più o meno distanti dalle norme che risultano dalle strutture universali della cooperazione. Nei sistemi di valori particolari delle società democratiche, troviamo delle regole che possono essere interpretate come traduzioni di regole morali universali in istituzioni politiche particolari. Esse rimangono nondimeno inevitabilmente particolari, e in ogni traslazione in un’altra cultura deve essere verificato se la loro particolarità è particolaristica. L’idea secondo la quale il superamento del particolarismo richiede la scomparsa della particolarità manca il carattere necessariamente contingente dei valori. Inoltre, essa è condannata a rimanere una forma di mera moralità che, restando separata dal carattere attrattivo dei valori, afferma la possibilità di una motivazione a partire esclusivamente dalla morale.
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Parlare di valori
Lo scopo di queste argomentazioni che mettono a confronto l’etica pragmatista da un lato, e la teoria del discorso negli ambiti della morale, del diritto e dello stato di diritto dall’altro, può dirsi raggiunto se esse riescono a impedire una polarizzazione non necessaria tra la giustificazione di azioni e istituzioni da punti di vista universalistici, e i tentativi di chiarire le condizioni della genesi e della trasmissione di valori democratici. Questa falsa polarizzazione la troviamo nelle controversie su liberalismo e comunitarismo. Lo scopo di tale controversia non può ridursi a una contrapposizione non dialettica tra l’universalismo della tradizione liberale e un mero particolarismo, tra il focus sui valori della giustizia e l’enfatizzazione di impegni particolari, tra l’orientamento alla morale e al diritto e l’invocazione dei valori e della società. La critica comunitarista al liberalismo ha una chance solo se può dimostrare di essere la versione più ragionevole dell’universalismo, se produce la comprensione più appropriata del posto che la giustizia occupa nell’azione, e se sviluppa una critica equilibrata dei rights talk e dei values talk. Con queste affermazioni non si richiede né una polarizzazione della controversia, né che questa si esaurisca, quanto piuttosto l’integrazione dei punti di vista. I liberali e i comunitaristi condividono in realtà la stessa problematica: quale è la misura di rispetto che l’individuo deve tributare a un ordine sociale, dal quale si aspetta una garanzia dei suoi diritti individuali?
Dal punto di vista politico, tale questione liquida immediatamente il “comandamento al silenzio” (Martin Seel) che singole correnti del liberalismo impongono alle questioni valoriali. In tal modo, si riapre uno spazio per la discussione sociale sui valori. Uno spazio che non va ridotto all’argomentazione morale o legale, né deve deteriorarsi nella forma del confitto e nella lotta distributiva tra identità fisse Dal punto di vista etico, solo l’inclusione della dimensione dei valori richiesta da tale questione disinnesca la persistente minaccia della riduzione della giustizia alla mera reciprocità utilitaristica. Dal punto di vista empirico e delle scienze sociali, tale questione rimanda alle condizioni particolari entro le quali nascono e possono essere mantenuti i valori presupposti per la continuità della collettività democratica. In tutti e tre gli ambiti, i pensieri sulla genesi dei valori presentati in questa sede andranno messi alla prova.