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di Marco D’Eramo

[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’intervento di Marco D’Eramo è uscito il 30 marzo 2012].

I ragazzi accanto a me discutono della nuova trasmissione della Bbc, VoiceUK, che partirà sabato sera per fare concorrenza all’ormai famosissimo Britain’s Got Talent della Itv. Nelle parole tra gli sbuffi di sigarette si coglie un misto di invidia, il serpeggiare sotto sotto di un’ambizione impossibile, come se partecipare a queste emissioni talent scout fosse l’unica porta aperta sul futuro. Una speranza irrealizzabile certo, ma non più improbabile che trovare un lavoro fisso, per quanto «noioso» (Monti dixit).

Non dimentichiamo che in Gran Bretagna questa è la generazione dei Neets, sigla dal suono delicato che rinvia a «bisogni» (needs), ma che è un acronimo per designare i giovani tra i 16 e i 24 anni Not in Education, Employment or Training, cioè «né a scuola, né al lavoro, né in addestramento», quindi a spasso: gli emarginati di oggi e di domani. È di pochi giorni fa la notizia che i Neets hanno superato quota un milione nel Regno Unito, il 16% della loro fascia di età. Viene da chiedersi quanti di questi Neets sfilavano nel novembre 2010 a Trafalgar Square e si scontravano con la polizia davanti a Whitehall per protestare contro la riforma della scuola secondaria varata dalla coalizione di conservatori e liberaldemocratici (Libdem), salita al potere nel maggio precedente dopo 13 anni di governo laburista.

Sono questi Neets che nel fantastico mondo delle sigle anglosassoni il più delle volte diventano spaventevoli Chavs. Secondo una diffusa ma discussa etimologia, Chav significa Council Housed Angry Violent, «inquilino degli Iacp incazzato violento». Sono stati i Chavs che nell’immaginario diffuso dai tabloids di tutto il mondo l’agosto scorso hanno messo a ferro e fuoco interi quartieri di Londra, da Hackney a Croydon, e poi Birmingham, Manchester.

Ma oggi a Londra stranamente tutto tace, non protestano i Neets né i Chavs. Fa impressione l’apatia collettiva. Colpisce che non susciti nessuna reazione la più drastica, feroce controrivoluzione dal secondo dopoguerra, al cui paragone Margareth Thatcher pare una pericolosa socialista. Sul continente (come si dice qui) ognuno è preso dalle sue gatte da pelare. In Italia abbiamo Monti e l’articolo 18, in Francia la campagna presidenziale e l’antisemitismo, in Spagna e Portogallo la flessibilità e mobilità selvaggia e disoccupazione dilagante. E così nessuno presta attenzione alla macelleria sociale attuata dal governo di David Cameron (conservatore) e Nick Clegg (Libdem). Va bene che è l’Inghilterra ad avere inventato il roast-beaf, ma qui la solidarietà sociale è davvero fatta a fette.

Basta mettere in fila le notizie e otteniamo un film dell’orrore: la prima è che nel 2011 il governo ha tagliato ben 270.000 posti del settore pubblico, di cui 71.000 dalla pubblica istruzione e 31.000 dalla sanità. In Gran Bretagna il settore pubblico (compresi impiegati comunali e degli enti locali) contava 6 milioni 264.000 addetti, e quindi questi tagli rappresentano una riduzione del 7%. In Gran Bretagna intere metropoli come Manchester e Liverpool si mantengono solo grazie agli impieghi pubblici perché il primo datore di lavoro è di solito l’istruzione (compresa l’università), il secondo è la sanità, il terzo il comune, il quarto la polizia. Non basta: il governo ha messo in cantiere un piano per istituire le gabbie salariali nel pubblico impiego, cioè per pagare di meno i dipendenti pubblici che vivono in aree in cui il costo della vita è minore.

La seconda notizia è che il governo sta contemplando di privatizzare la polizia. Sì, non avete capito male: anche io non ci volevo credere quando l’ho letto sul Guardian. Poi ho pensato che sarebbe stato un appalto parziale, come quello che affida le multe a un’agenzia privata. Già da tempo nel Regno Unito (come negli Usa) era stato parzialmente privatizzato il settore carcerario, chiamato pudicamente Correction Industry, d’altronde con un successo limitato: non si capisce infatti perché i secondini privati dovrebbero costare di meno di quelli pubblici, a meno di arrotondare lo stipendio con lo spaccio (come infatti è stato scoperto in vari scandali). Ma no, per la polizia non è un appalto parziale: qui si parla di privatizzare le indagini e le inchieste criminali.

Anche in questo caso, a stupire è l’indifferenza con cui questa privatizzazione è accolta. Quando cerco di comunicare che qui è in gioco il fondamento teorico dello stato moderno, il suo «detenere il monopolio della violenza legittima» secondo la classica formulazione di Max Weber, sia la fondatrice di Red Pepper, Hilary Wainwright in una cena a casa sua, sia la direttrice della “New Left Review” Susan Watkins nel suo ufficio a Soho mi guardano con aria interrogativa come a dirmi «Di che ti stupisci? In fondo non cambia niente. La polizia era già di classe, faceva già gli interessi dei padroni, era già corrotta come si vede nello scandalo delle intercettazioni del settimanale News of the World dell’impero editoriale di Rupert Murdoch». Io obietto che cambia molto se a indagare sulle intercettazioni di Murdoch è una polizia di cui magari lo stesso Murdoch è azionista. O se a reprimere i Chavs di Hackney è una polizia pubblica o invece è un corpo di vigilantes privati. Pare proprio che anche nella sinistra inglese più estrema, siano un po’ tutti mitridatizzati, assuefatti a privatizzazioni inoculate in dosi via via crescenti.

Chi non sembra assuefatta per niente è Allyson Pollock, professoressa di Sistemi sanitari e Salute pubblica alla Queen Mary, Università di Londra, che si è battuta fino allo stremo contro la riforma del Servizio sanitario nazionale (National Health Service, Nhs), riforma che è stata definitivamente approvata martedì. «Ma noi continueremo a batterci, perché questa riforma significa lo smantellamento del servizio sanitario come era stato introdotto dopo la seconda guerra mondiale». Il suo collega David Pierce rincara: «Si è voluta a tutti i costi una legge proprio per delegittimare l’idea che è alla base del Nhs, e cioè che la salute è un diritto e che i cittadini hanno accesso alle cure in base alle loro necessità e non in base alla loro disponibilità di denaro». La solfa del governo conservatore è sempre la stessa che sentiamo dai liberisti di tutto il mondo, e cioè che la competizione rende più efficiente il servizio. Ma in realtà l’Nhs era finora uno dei sistemi più efficienti al mondo, se efficienza vuol dire rapporto tra servizio fornito e suo costo. La sanità pubblica inglese è molto meno dispendiosa pro capite di quella privata statunitense. Ma non importa, su tutto primeggia l’affermazione ideologica di esaltazione del privato. «Ma continueremo a lottare – dice Price – per rendere pubblici gli effetti devastanti di questa riforma. La combattività è altissima. Succedono cose impensabili, per esempio si cantano nuove canzoni di lotta come era da tanto che non capitava».

Ma intanto la riforma è passata: ormai solo a sentire la parola «riforma» vengono i brividi. E infatti un’altra riforma che ha provocato scioperi e manifestazioni (finora perdenti) è quella delle pensioni degli insegnanti. Però sono miniscioperi a singhiozzo, inefficaci e che rendono solo impopolare lo strumento dello sciopero. Secondo il nuovo regime, gli insegnanti dovranno aumentare i propri contributi per la pensione e dovranno lavorare più a lungo. Già oggi un maestro o un professore che ha meno di 34 anni sa che non potrà andare in pensione prima dei 68 anni.

Ciliegina sulla torta, il bilancio 2012 approvato mercoledì riduce le tasse ai ricchi e alle corporations mentre taglia le pensioni e i sussidi per i bambini. In dettaglio. La Corporation tax che era stata già ridotta dal 28 al 26% passerà al 24% ad aprile e calerà al 22% nel 2014. A queste riduzioni si sommeranno le detrazioni per gli investimenti in Ricerca & Sviluppo. Poi la misura più controversa: nel 2009 il governo laburista di Gordon Brown aveva aumentato dal 40% al 50% la tassa sui redditi superiori alle 150.000 sterline (180.000 euro). Ora il governo Cameron la riporta al 45 % per – così afferma – evitare la fuga dall’Inghilterra dei grandi capitalisti.

Ma mentre la fiscalità sui ricchi è alleggerita, lo stato va giù pesante con i meno abbienti, in particolare i pensionati: il bilancio prevede risparmi per 5 miliardi di sterline (6 miliardi di euro) congelando le pensioni di anzianità per metà dei pensionati inglesi e innalzando l’età della pensione in funzione dell’allungamento della vita media. Inutile aggiungere che il governo attinge all’inevitabile rincaro delle sigarette, alla tassa sulle scommesse on line e sulle slot-machine.

Inutile dire che tutte queste misure sono state approvate con i voti dei Libdem che nel 2010 si erano presentati come un’alternativa libertaria e progressista ai laburisti e che erano stati votati da esponenti di sinistra. E il leader dei Libdem ha la faccia di bronzo di definire la legge di bilancio 2012 una «finanziaria Robin Hood».

[Questo articolo è uscito sul «Manifesto»]

[Immagine: Sex Pistols, Anarchy in the UK (1976) (gm)].

13 thoughts on “La società fatta a pezzi: l’estremismo neoliberale in Gran Bretagna

  1. Per favore, chiedete a Marco D’Eramo di scrivere sugli stessi temi e con la stessa chiarezza e concisione sulla “società fatta a pezzi” in Italia dal governo Monti.

  2. Articolo molto interessante, soprattutto perché rompe un’immagine falsata dell’Inghilterra come superpotenza economica e luogo di civiltà da imitare – primo fra tutti il suo sistema educativo, su cui è difficile non essere quanto meno scettici; ma la lista sarebbe lunga – così diffuso sui media italiani e nel senso comune. Pochi sanno che l’Inghilterra è il paese più indebitato d’Europa, altro che la Grecia (debito pubblico 83% del PIL; ma debito privato al 970% (!!!!!) del PIL: il debito complessivo inglese è di 1153% del PIL – l’Italia se si somma quello pubblico 120% a quello privato 268 % raggiunge 388%; quello complessivo greco è di 312%). Se uno pensa agli articoli pseudorazzistici dell’Economist sullo stato dell’economia italiana di qualche mese fa, beh vien quasi da ridere, se non ci fosse da piangere. Concordo con Abate: D’Eramo scriva sull’Italia con la stessa chiarezza.

  3. In fondo non è proprio questo che si vuole? Frantumare, frammentare, atomizzare la società, cosicché ciò che pensava la Thatcher – che la società come soggetto e oggetto non esiste – si materializzi una volta per tutte. Il liberismo – una delle ideologie più devastanti del XIX secolo: altro che “il nuovo che avanza” – questo persegue: privatizzare tutto, perché tutto è mercato, e quindi acquistabile: lavoro, cultura, conoscenza, salute, sicurezza, benessere; se non puoi permettertelo, sorry! trovati un santo protettore o rivolgiti all’Esercito della Salvezza! La frammentazione della società – e dei rapporti sociali – è un ingrediente fondamentale di questo progetto: da cittadini con dei diritti a consumatori con dei bisogni (i bisogni di consumo sono sempre individuali); da stato secondo il modello weberiano a erogatore di servizi “a pagamento”. È l’irriducibile solitudine dell’individuo perennemente sotto schiaffo, continuamente ricattabile. E della supposta efficienza della “mano invisibile” in realtà non importa niente a nessuno, per la semplice ragione che non esiste, è un altro costrutto ideologico.
    Viene da chiedersi quando i nostri liberal-liberisti di centro-sinistra si accorgeranno delle madornali castronerie che vanno predicando, apostoli come sono della macelleria sociale. Viene da chiedersi come è possibile che per vent’anni (e ancora adesso) gente mediamente intelligente e che si dice di sinistra abbia potuto gioiosamente abbandonarsi al credo economicista dell’efficienza del privato rispetto al pubblico (nonostante palesi evidenze del contrario, come dice l’articolo). In Inghilterra i 13 anni di governo laburista si possono raccontare proprio come la favola (in tutti i sensi) del liberismo di “sinistra”.
    Liberista dovrebbe essere un insulto – come era una volta fascista – parafrasando un po’ il titolo del libro di Emilio Carnevali e Pierfranco Pellizzetti “Liberista sarà lei! L’imbroglio dei liberisti di sinistra”.

  4. Non immaginavo minimamente che il debito complessivo inglese fosse così spaventoso. Non è strano che l’Inghilterra conservi ancora la tripla AAA nelle valutazioni di rating? O forse proprio questa anomalia rivela qualcosa di interessante? Non sarà forse questa una delle piste per comprendere la ragione dello spostamento del fuoco speculativo dal debito privato a quello pubblico, visto che Londra- insieme a New York – è la nave ammiraglia delle azioni di della finanza internazionale?

  5. Il punto è se esiste un liberismo come dottrina distinta e separata rispetto al liberalismo.
    A me non pare, non è che esistano principi liberistici, esistono solo i principi liberali che, se portati alle conseguenze estreme, danno luogo al liberismo. Il liberismo insomma come una forma coerente di liberalismo.
    Per questa ragione, sono convinto che qualsiasi ipotesi realmente democratica deve necessariamente fare i conti con i principi sacri del liberalismo, e che finchè non si affronterà di petto la questione principe del liberalismo e delle sue radici illuministiche, non si arriverà da nessuna parte, si finirà inevitabilmnente per aprire le porte alle manifestazioni apparentemente patologiche, in realtà solo estreme del liberismo e quindi del capitalismo più selvaggio.

  6. PROPONGO ALLA DISCUSSIONE UN PO’ D’ANALISI D’ANTAN E SENZA PELI SULLA LINGUA
    StralciO da uno scritto di Gianfranco La Grassa

    Approfittando della crisi mondiale iniziata nel 2008 – di cui ancora si nasconde il carattere e la portata, fingendo che sia sostanzialmente d’origine finanziaria e dovuta a cattive manovre bancarie – si è fatto strepito soprattutto in Italia sul debito pubblico e altri problemi connessi (tipico il tormentone dello spread rispetto ai bund tedeschi) per spaventare la gente, anche con riferimento alla pesante condizione della Grecia, pur essa in buona parte condizionata dal comportamento della UE. Si è “convinto” Berlusconi ad andarsene (con la sua netta predisposizione ad essere convinto) per lasciare il campo, appoggiandolo poi in modo sempre più scoperto e laido, a questo finto “governo neutrale” di stampo solo tecnico, un imbroglio che non mi sembra la popolazione abbia compreso, fra l’altro appunto per il timore in essa instillato.

    2. E’ bene essere chiari. I tecnici e professori al governo sono ultra-mediocri e sopravvalutati mediaticamente per scopi ovvii. Napolitano è un politico di lungo corso, ma aduso alle “giravolte” e al “buon adattamento”. Tuttavia, simili personaggi si rendono probabilmente conto che le manovre intraprese non porteranno ad alcuna uscita dalla crisi, per null’affatto finanziaria nei suoi aspetti più micidiali e di almeno medio periodo (almeno una decina d’anni, come affermato, in un momento di sincerità subito criticata dai suoi “compagni di merenda”, dalla Merkel). Perché allora hanno compiuto simili passi ed altri ormai ne promettono, minacciando altrimenti di andarsene? Non darei per scontata una risposta univoca e sicura. Si possono fare solo alcune ipotesi.
    Intanto si tratta di provare la resistenza della popolazione italiana ad una serie di forti tosature che comunque ci pioveranno addosso anche “oggettivamente”, nella misura in cui liquideremo i nostri settori strategici e ci faremo servitori a tempo pieno degli Usa nella loro nuova strategia (“del pantano”, già da me spiegata qualche tempo fa); sia chiaro che non esiste servilismo se non con la complicità di una sorta di “borghesia compradora” (s’intenda il termine cum grano salis, dato che non esiste oggi l’imperialismo nel senso di prevalente colonialismo vecchio stampo). Come sostenuto più volte, è indispensabile la complementarietà tra il sistema economico-industriale del paese predominante e quelli dei paesi dipendenti. In Italia, i ceti di servizio, i subdominanti, allignano appunto nell’industria delle vecchie fasi dell’industrializzazione e in una finanza posta alle dipendenze del centro preminente.
    A questo motivo di indubbia rilevanza se ne aggiunge un secondo non meno importante, data la forma istituzionale detta “democratica” che esige la turlupinatura della popolazione votante. La lunga storia italiana del dopoguerra, con i vari compromessi raggiunti e gli specifici caratteri assunti da quelle forze che s’ispiravano al presunto “socialismo” (comunque antagonista del capitalismo nella sua forma occidentale dei funzionari del capitale), ha condotto al “normale” (e storicamente generale) indebolimento della sedicente “classe operaia” (non più soggetto rivoluzionario in alcun senso) e al rafforzamento dei cosiddetti ceti medi, anche nella forma della diffusione della piccolo-media imprenditoria; in settori certo non strategici ma di rilevanza fondamentale per il supposto “equilibrio” sociale (in quanto somma molteplice di contrastanti squilibri conflittuali). Il problema è certo da studiare più attentamente, ma ad una prima considerazione d’intuito, il disegno è di sfruttare maggiormente tali ceti; nel senso di appropriarsi di quote crescenti della ricchezza da essi accumulata, giacché ormai i lavoratori salariati a reddito non elevato (salvo quindi i dirigenti di medio-alto livello, non sufficientemente numerosi) sono stati pelati quasi al massimo.
    Occorre impedire il crescere del malumore sociale fino ad eventuali esplosioni (non occasionali, localistiche e povere di contenuto, come i vari no-qualche cosa). In un sistema “democratico” del tipo considerato, è importante sconvolgere i legami tra base elettorale e dati gruppi finto-politici. Il governo dei sedicenti tecnici ha il compito di far entrare in dissoluzione e rimescolamento gli schieramenti per vent’anni creduti la destra e la sinistra (o centro-destra e centro-sinistra, tanto si tratta di semplici nomi privi di cosa designata). Si spera così di arrivare a quello che ho chiamato “pateracchio”, cioè un raggruppamento pasticciato con dentro pezzi vari degli pseudopartiti ancora esistenti, da far passare come “centro”, come unione di salvezza nazionale (nel caso sia necessario spaventare ulteriormente i cittadini con crisi finanziarie, spread e altre piacevolezze varie) o qualsiasi altra etichetta si riuscisse ad inventare per convincere che il recipiente ha nuovi contenuti, meno velenosi degli attuali (anzi addirittura salvifici).
    E’ un compito per nulla facile poiché non vi sono personaggi nuovi. Quei pochi giovani che hanno cercato di salire alla ribalta (pensiamo, soltanto come esempio, al sindaco di Firenze o ad una ragazza, di nome Deborah, di una improntitudine rara a trovarsi) sono ormai stati travolti da un “destino cinico e baro”. Vedere ancora Alfano, Bersani e Casini (l’abc del politicantismo d’accatto dell’inesistente “seconda Repubblica”), mentre stanno “inciuciando” per un accordo elettorale teso a mettere in difficoltà i partiti “più piccoli” (mentre loro sarebbero i “grandi”), solleva ondate di ilarità e disprezzo insieme. Tuttavia, non scioglierei al momento il dubbio “atroce”: non si sa proprio chi altro trovare o vi è una sottile intenzione di far marcire la situazione secondo un’applicazione in salsa italiana della “strategia del pantano”? In entrambi i casi, è ovvio che siamo in presenza di un tentativo di prendere tempo poiché altri tentativi sono ormai falliti; l’incessante lite pro o contro Berlusconi non ha condotto in nessuna direzione, mentre sempre più batte alle porte una crisi che non si riuscirà in eterno a far passare per finanziaria, ma sarà estremamente reale e creerà disagi sociali pericolosi.
    In ogni caso, i “tecnici” proseguono a singhiozzo, annunciano riforme che poi risultano attuate a metà (e anche meno) o rinviate di fatto nel tempo; essi sono soltanto incensati dalla stampa della classe non dirigente e soprattutto da organismi europei (e dal Fmi), puri tentacoli degli Usa tesi ad allontanare ogni reale possibilità di sbocchi “ad est” della politica estera dei paesi europei, ormai in stato di (ineluttabile?) dipendenza; e di cui l’Italia, lo ripeto, è un tassello importante. I “professori”, della cui non aurea mediocrità il premier è eclatante rappresentazione visiva (e persino teatrale), sanno comunque che le misure prese, sia pure con contorcimenti e incertezze varie (consapevolmente oppure no? Lasciamo la risposta in sospeso), conducono verso un aggravarsi della crisi reale. Trovano compiacenti cretini (o mascalzoni), perfino fra i “critici critici”, per giustificarle in nome della crisi finanziaria, dell’eccessivo debito pubblico italiano, del “default” come “spada di Damocle” tenuta costantemente sulle nostre teste. Tuttavia, sanno che simili misure condurranno verso sbocchi di accrescimento delle difficoltà economiche di gran parte della popolazione.
    Tuttavia, si osservi bene come sono congegnate queste misure, dalla tassazione ossessiva alla fissazione sull’art. 18 (una mossa che non può spostare di una virgola l’incombenza della reale crisi), ecc. E’ tutto un tentativo di mettere i ceti sociali gli uni contro gli altri: lavoro salariato contro l’autonomo, quello dei settori privati contro i cosiddetti “fannulloni” del pubblico, quelli del posto “fisso” (e sempre più a rischio) contro quelli precari, e via dicendo. Appurata l’incapacità ventennale di forze dette politiche – e che tali non sono mai state, tanto che ad un certo punto si è cominciato a blaterare sulle “meraviglie” della politica negli Usa dove conterebbe la personalità del leader – di aggregare blocchi sociali, di rappresentare cioè gli interessi non dei soli gruppi subdominanti industrial-finanziari, ma nel contempo (sia pure in via subordinata) di determinati ceti, si sta scegliendo la strada del tutti contro tutti; appunto il “pantano”, lo stesso che gli Usa di Obama hanno scelto nel mondo, vista l’impossibilità di stabilire precise aree di predominio in determinate parti del mondo.

  7. Alcune considerazioni sullo scritto riportato da Abate.
    Innanzitutto, malgrado non vi sia dubbio alcuno che l’origine della crisi sta nel totale dell’economia ed è da lì che è stata esportata nel campo finanziario, oggi tuttavia esista una specificità negli aspetti finanziari della crisi.
    La specificità di cui parlo non è cosa che si possa mettere sotto il tappeto, qui c’è l’intero sistema bancario globale tecnicamente fallito sin dal 2008, emantenuto in piedi alla meno peggio dagli interventi statali di cui il prestito/regalo da parte della BCE alle banche europee di mille miliardi di euro, una cifra così grossa da essere difficile immaginare cosa significhi, risulta una delle ulktime e più importanti tappe (la Federal Reserve ha fatto ben di più e da ben più tempo, e così pure proporzionalmente la Banca centrale del Regnio Unito).
    Il punto è che l’unico metodo che gli stati hanno di permettere alle banche di continuare ad operare, seppure nella forma stentata che vediamo, è quella di concedere la liquidità che renda esigibile il mare di titoli emessi in gran parte dalle banche sotto forma dei cosiddetti derivati: in altre parole, riversare sul denaro l’inflazione di titoli gettati sul mercato.
    Così, da una parte l’ammontare dei titoli deve continuare a crescere (ed è quello che è avvenuto anche dopo il 2008, questa crescita non si è mai interrotta), e dall’altra, visto che ciò non basta, bisogna stampare denaro. Naturalmente, tutto questo denaro che non finisce nel settore produttivo ma rimane all’interno del circuito finanziario, finirà presto per subire il contagio: questione di anni, e lo stesso denaro sarà carta straccia come il mare di titoli che girano per il mondo, e mi chiedo cosa mai avverrà a quel punto.
    Ora, queste cose le devono necessariamente sapere, visto che sono arcinote, sia i governi che i grandi capitalisti mondiali,ed uno si potrebbe chiedere perchè non fanno nulla che possa somigliare ad una soluzione del problema, ma anzi tutte le iniziative sembrano andare nella direzione opposta di aggravarli.
    La risposta che io do è che essi non sanno cosa fare, non hanno la forza anche morale di prendere atto del fatto che a tutta questa economia di carta non corrisponde alcun valore reale, e quindi hannom l’unico obiettivo di prendere tempo, di continuare cioè ad operare anche a livello personale come hanno fatto in quest’ultimo decennio, rassegnati al big bang che metterà fine improvvisamente e di colpo a questa situazione. La mia paura è che a quel punto intervengano tali confliti interstatali da trasformarsi presto in veri e propri conflitti armati.
    Siamo insomma vittime di un ceto dominante mondiale codardo ed incapace ed in definitiva irresponsabile, e tutto ciò che si va facendo nel mondo a partire dal governo Monti/Napolitano in Italia è quello gesti sostanzialmente disperati (nel senso che essi sanno che non sono risollutivi di alcunchè) e volti a raggranellare tutto ciò che si può dalla gente comune per prolungare nel tempo i propri meschini privilegi.
    LA SPECIFICITà DI CUI PARLO NON è COSA CHE SI POSSA METTERE SOTTO IL TAPPETO, QUI C’è L’INTERO SISTEMA BANCARIO GLOBALE TECNICAMENTE FALLITO

  8. @ Cucinotta

    Appunto. Siamo in un “pantano” o dentro una casa che sta per crollare.
    Per non abbandonarci al panico o partecipare da marionette a un regolamento dei conti con la solita guerra tra i più potenti, distinguiamo ( e non è facile) i veri nemici dai possibili amici e ragioniamo sul CHE FARE.

  9. L’articolo è interessante e di parte. Quello che mi domando è: possibile che le Hilary Wainwright & C. siano solo indifferenti e anestetizzate? Questo è lo stesso presupposto che porterebbe a dire, guardando casa nostra, che solo la Camusso ha capito qualcosa sull’art. 18 e la Bonino (per fare un nome di una persona con capacità e visione politica con pochi pari da noi) no. Mi pare i siano dei rischi in questo approccio che non relativizza la posizione dell’osservatore. Detto questo, il processo di privatizzazione dell’istruzione, all’interno del WTO, fu denunciato da importanti intellettuali in UK diversi anni fa. Molto prima di Cameron e Clegg.

  10. «… la Bonino (per fare un nome di una persona con capacità e visione politica con pochi pari da noi)»? Visto che la Bonino (ed i radicali) ha abbracciato da anni una visione ultra-liberista dell’economia (e della società) non mi sembra proprio il massimo come esempio (es. http://www.europaoggi.it/content/view/2134/1/)

  11. Giuseppe, quello è un pessimo articolo pieno di pregiudizi spacciati come notizie. Ed è pure stato scritto in un preciso momento, a seguito di certe dinamiche interne del PD, non solo laziale. Comunque io non ho una visione economica di sinistra (ex-post- comunista), ma non per questo mi considero ultra-liberista. Una visione un po’ più “americana”, che cerca di conciliare la competizione (competion is competion) con la solidarietà, può esistere? Ha diritto di essere discussa? Non lo so con certezza, ma credo di sì. E lo dico da persona che lavora, come formatore e consulente di orientamento, a fianco dei disoccupati. Dico: discuterne è un dovere.

  12. Mi riconosco in parte nell’ intervento di Cucinotta. Analisi come quelle di La Grassa, tutte di ispirazione piu’ o meno marxista, sono tanto puntuali e retoricamente efficaci quanto di fatto immorali. Il problema non è quello di osservare compiaciuti che il sistema è in un pantano sperando, immagino…, nella rivoluzione prossima ventura quanto quello di escogitare possibili soluzioni politiche e non violente. Secondo me l’ unica soluzione possibile, a livello culturale, consiste nell’ adottare il paradigma della decrescita. Da punto di vista strettamente tecnico finanziario si tratta di creare sì moneta ex nihilo ma di NON regalarla alle istituzioni bancarie, nè di usarla per acquistare titoli di debito, bensì di distribuirla ai cittadini sotto forma di reddito di cittadinanza.

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