di Paolo Febbraro
Adesso che è morta, la poesia va a gonfie vele. Poche vele, in verità: poiché la maggior parte delle attività umane, compresa la scrittura, va a motore. Così, quelle vele sono gonfie di venti, i navigli scivolano sull’acqua fra il tiraggio del sartiame e lo sbattere dei teli, vecchi stridori e cigolii, tanfo di stiva e brezza d’alto mare.
Adesso che la poesia la scrivono tutti, chi partecipa ai premi e i giurati dei premi, i cantautori e i narratori, gli astrofisici e persino le astute ragazze ai giuramenti dei presidenti, la poesia è salva, perché i poeti sono liberi di scriverla e – molto più volentieri – di non scriverla affatto, risparmiandosi per i pochi momenti di vera ispirazione, e vera croce.
Insomma, adesso che la poesia – al solo primo comparire del termine “poesia” nella prima riga di questo scritto – è inflazionisticamente evitata dai lettori e affollatamente desertica, ecco che si può far finta che abbia un futuro, ovvero che possa – fra cinquanta o cent’anni – rappresentare il passato. E questa finzione, in certi episodi che appaiono per intervalla insaniae, è talmente plausibile da invitarci a un realismo di ritorno.
Di libro in libro, sempre più chiaramente, sempre più fortemente Edoardo Zuccato appare come un poeta raro e autentico. Del suo recente Tèrman e Ricord (Elliot; in italiano pietre di confine e ricordi), fra i tanti passi che ho sottolineato, versi strofe poesie intere, mi ha colpito la consueta imponenza paesaggistico-onirica della lüna, che in un poeta come Zuccato, così poco romantico (in senso storico-letterario), sarebbe davvero curiosa, se non fosse che la lüna è qui trascorrimento, pallore ghiacciato, alterità, e insieme compagnia, testimonianza della continuità di ciò che trascolora. È insomma termine e ricordo, pietra silicea e morbidezza che svuota la testa. Se poi penso anche alla folta presenza solare, soprattutto nelle prime sezioni del libro, mi viene in mente che la lengua altomilanese è per Zuccato come una meridiana, un orologio arcaico che da fermo denuncia il tempo, lo mostra e in parte lo neutralizza, lo riavvolge.
Poi c’è il tema del sonno: numerosamente sono presenti sulla pagina le parole cüéta (tranquilla; in un caso, posta in rima con puéta), indurment (addormentato) e pâs (pace). Il paese natio, la campagna europea, con le loro pianure speculari, quella verde e quella celeste, sono come la mente/memoria, sconfinate e locali, come una parlata ispessita dal tempo. Le poesie di Zuccato rendono benissimo questa enorme, potenziale limitatezza: il cimitero che rasenta e chiude il paese, i vecc e fiulett, il sonno come palpebra chiusa, reinfetamento. Sono suggestivi questi andirivieni dell’immaginazione, questa vastità dei particolari. La lengua va ad estinguersi perché vale pochi centesimi, le figure dei padri sbiadiscono, il figlio non è mai nato, ma resta l’alito di una frescura quasi impossibile in estate, da ricatturare, un vent da far schioccare ancora nei monosillabi del milanese, che pesta gli accenti nel mortaio.
Tuttavia, anche in questo libro dei cinquant’anni (e dell’avere cinquanta e più anni in questo XXI secolo travolgente) la quiete, la lirica, lo sguardo e il sonno si affiancano a tanti altri ordini architettonici, come in musica il Largo si affianca al Presto. Alla fine, nella Serenad polisemica, i versi brevi e chiusi da rime pungenti richiamano la satura del libro precedente, in italiano, Gli incubi di Menippo, del 2017. C’è una strofa, in particolare, di entusiasmante causticità:
Semm d’acord, l’è un bel nagótt
un corp vöj da sentiment;
ma ‘l sentì par cöntu sò
al riéss no nanch a vèss gnent.
Siamo d’accordo, non è niente
un corpo privo di sentimento;
ma da solo il sentire
non riesce neanche a essere niente.
Nel quarto verso domina la triplice negazione, quasi foscoliana. È il tema del vöj (vuoto), altra forte presenza dell’assenza; come anche nella bellissima Büs dul Magnón (Buco del Magnoni), un capolavoro di ricchezza e stratificazione semantica, ispirato, come si dice in nota, agli scavi del 1868 nel Perigord, che «portarono alla luce alcuni reperti ossei di quello che fu poi chiamato uomo di Cro-Magnon, dal nome della grotta localmente così denominata. […] Magnon, che esiste identico in Lombardia, era il cognome del proprietario del terreno: dunque, buco o crotto del Sig. Magnon». Eccone le strofe finali:
Ul tempu l’è ’n dialett
ca parlum tütt e quanti
e femm mostra da savé no,
andà ben nanca lü, Sciur Magnón,
né l’uperari che in dul büs l’ha truâ pü
ul crucifìss gh’é burlâ dentar.
Il tempo è un dialetto
che parliamo tutti
e facciamo finta di non sapere,
probabilmente neanche Lei, Sciur Magnón,
né l’operaio che nel buco non ha più trovato
il crocifisso che gli è caduto dentro.
Il buco in cui cadono il crocifisso e le povere (ma brevi) certezze del padre curato dimostra che è «l’è ‘n pericul scavà in pruéncia» (è un pericolo scavare in provincia), quindi il dialetto è uno strumento rivelatore, implacabile, che fa riemergere testimonianze di tempi remotissimi, assai scomode per le sistemazioni e le contabilità bibliche, o idealizzate. Ancora una volta, e qui con una congruità magnifica, Zuccato riesce a far riflettere la lengua mentre la mastica. Proprio il riflettere dello specchio, posto sulla tomba, ritrae infine il viso di tutti sopra il sepolcro anonimo e universale: sigla finale di eccezionale efficacia. Il dialetto è davvero il tempo, nel momento in cui cerchiamo di dimenticarcene.
Vincoli, di Paolo Maccari, è stato stampato nel febbraio 2021 da Origini edizioni in 100 copie numerate e firmate, su carta vergata Fabriano da 120 grammi, con fascetta e disegni di Ruben. I quattordici componimenti confermano che la compresenza di versi e prosa (che in Maccari è storia fin dall’esordio di Ospiti, nel 2000) spesso funziona a meraviglia. La prosa più lunga del libro, l’ospedaliera Corsie, è articolata in tre lasse ed è magistrale. Vi si muovono «Due donne sulla quarantina e un trentenne», infermieri soccorrevoli e fatalmente distratti («poi tutto dipende da chi hanno davanti») ed esprime le ordinarie agonie di un osservatore, al tempo stesso spettatore e teatrante, troppo sensibile per chiamarsi fuori del mondo e troppo addolorato per smettere di considerarlo con serietà:
Il trio pratica una danza rituale. Inizia la bassa che quando caldamente accoglie termina le quattro chiacchiere dispensate a ogni paziente con una stretta delicata e incoraggiante della sua bella mano sul braccio del paziente, poco sotto la spalla. Non fa in tempo a sedersi, il paziente, che il trentenne lo saluta, un po’ più frizzante della collega, e cerca la vena sempre parlando. La danza di quella alta è incessante. Si sposta da una poltrona all’altra, sorride, domanda se è tutto a posto.
In quella danza degli infermieri c’è qualcosa di ipnotico, cioè di denudante:
L’uomo che da non molto frequenta quella sala è ancora troppo disperato (ha figli piccoli) per lasciarsi distrarre più di tanto dalla danza. Non si appassiona alla vita potenziale delle due donne e del giovane dalla bandana: per mancanza di magnanimità oppure perché gli sembra che sia facile divinarla e priva di interesse. Forse gli è successo tante volte di favoleggiare in quel modo e conosce lo stupore tra il sollevato e il deluso di appurare la non eccezionalità di ogni vita.
Le vite degli altri saranno pure non eccezionali, ma è questo che le rende contagiose, compromettenti, necessarie come l’aria che vortica allegra e pregna di fantasie attorno a esse. Appurare, specie in questo contesto, è un verbo terribile, perché risponde e sigilla a fuoco il favoleggiare precedente. «A volte creature come quelle non si perdono una mossa del mondo che brucia», aveva già scritto Maccari nella prosa Appena un esempio, posta sulla soglia d’ingresso del libro, con la sua sintassi adamantina e unforgiven. E in quella posizione incipitaria, la prosa allude al messaggio che il poeta sta recapitando al lettore.
Fra i versi, per via di un’immaginazione malinconicamente analitica, tradizionalmente maccariana mi sembra Feast of friends, mentre le affettuose Dentro una fotografia e Nozze d’oro riescono ad adagiare fra coltri di lino (ma non di seta) persino le emorragie del tempo e del senso. Maccari è bravo, direi umanamente oltre che artisticamente, a restare nei pressi di ciò che perde sé stesso, perché sbiadisce o dilaga. I suoi “ospiti”, siano finanche un piccione o un cormorano, sopportano l’accanimento della sua violenza intimidita, di una compassione che snida. Quando sembra invocare l’atonia sentimentale alla Sbarbaro, come in Rientro, Maccari lo fa perché lo spegnimento sia rivelatore come un faro. I versi
Com’è difficile, come si soffre
a dar torto a chi ti chiede approvazione
con speranza. Come si smania,
anche se lui ha torto e tu ragione.
mi hanno regalato un’epigrafe perfetta a un mio futuro libro di saggi. Come non deludere una speranza? E come deluderla, invece, fatalmente?
C’è anche l’ironia antiromantica di Dietro la cartolina, che sbugiarda il lusso del gusto:
Gli stranieri impazziscono per queste colline.
Ci danno dentro con le fotografie. […]
Noi italiani non sappiamo,
dicono stranieri e italiani,
la bellezza che ci circonda. […]
Così, un pescatore non avrà mai quiete
bastante a ringraziare dio per la bellezza
di uno specchio d’acqua limpida
se quella limpidezza gli consente
d’indovinare di una carpa grossa
tra le alghe il lento transito regale.
Dove balza agli occhi, dietro la cartolina ma anche dietro il cinismo apparente e ragionevole, l’incantata maestria di Maccari nell’affermare ciò che nega, poiché nel suo «lento transito regale» la carpa succulenta è vista davvero, fuori da ogni cornice o inquadratura o utilità, come splendore assoluto, nella trasparenza vibrante dell’endecasillabo.
Nel breve libro c’è anche il poeta dell’amore coniugale. In Tra noi s’interpone il «millimetro d’indugio che forse / volevi intuissi», micro-intervallo nella confidenza, colto magnificamente anche nella somiglianza/differenza tra le parole indugio e intuissi: le intese possono incrinarsi solo fra chi ha la forza di stabilirle. A volte, il «ritmo afono / di uno smagato rimuginìo», affiora in un eccesso sia verbale sia d’immagine; l’autoanalisi diventa sguardo meduseo, e la denigrazione di sé stesso infoltisce l’andare poetico più che altrove. Forse è ciò che accade anche in Un amico, ultimo componimento in prosa, vertiginoso inseguimento della frantumazione, del sosia, del doppio.
Naturalmente, il prezioso supporto cartaceo rivendica la propria parte di ammirazione, prendendosi tutto l’angolo che gli riserva la nostra catena di smontaggio digitale.
Introducendo le Poesie di Réné Char tradotte da Caproni (recuperate per Einaudi nel 2018), Elisa Donzelli accennava a un saggio di Maurice Blanchot del 1958 in cui, a proposito dell’autore provenzale, il filosofo affermava che «la poesia è “linguaggio del futuro” proprio perché “espone” l’uomo alla prova più violenta che possa augurarsi di rivivere e reduplicare: l’azione della nascita di cui il femminino è eterno protagonista attraverso il legame con l’“origine”». Ho ripensato a quel cenno quando di Elisa Donzelli ho letto l’esordio poetico di album (Nottetempo), improntato allo sguardo obliquo, personalissimo, di chi, nel corso di molti anni, ha ospitato poesia altrui, ha indagato la rifrazione che il tradurre e l’essere tradotto dirama su autori diversi, inaugurando fratellanze difficili e comuni interrogazioni del femminile.
Già i titoli dei singoli componimenti di Donzelli sono suggerimenti, allusioni, diplopie. Fin dalla prima poesia s’impara che «dal basso verso l’alto / il ramo non appare maestro, si fa / curva continua al giardino / in direzione di un altro / paesaggio». E subito dopo gli esercizi di disegno svelano «la punta dei piedi / mai appoggiati / completamente a terra»; anche fare un occhio allineato all’altro è difficile. Ma è quasi una costante di questa poesia: dallo scarto ottico in di fronte a un quadro di Rembrandt al festoso accanimento infantile, in colori, di fronte al microscopio, fra repulsione e dileguamento; fino al tecnigrafo, pochi versi introdotti da un’epigrafe ovidiana, con quell’esercizio di disegno che diventa così naturalmente di distanza:
entro tra le strade ai piedi dell’Aniene
nel quartiere che ho scelto per i miei giri di passi
e potresti essere tu quella che si allunga di spalle
se non è finzione trovarti spedita
di svolta, in ogni figura decisa
purché sia solo esercizio di distanza
ritrarti tra i vivi, incompleta nel viso
a perenne inclinazione.
Quella figura che si allunga sfuggendo all’inseguimento, che elude il desiderio di “ritrarre tra i vivi” e lo incalza, approda a una forma ancora una volta «incompleta nel viso / a perenne inclinazione». Infatti, il tecnigrafo consente angoli e righi sul piano inclinato, e inclinazione è sinonimo di preferenza, sentimento, bisogno.
Tecnigrafo è un vertice del libro, e la piega perenne di chi sparisce mi ha fornito la chiave complessiva, così che sono tornato indietro a rileggere e poi ho proseguito con più cognizioni. Ecco, allora, anche i versi «hai amato di me la differenza ogni forma / irregolare», l’incontro discorde dei due mari in Caprazoppa, i lineamenti meridionali e sefarditi della femmina, persino il modo – appunto – obliquo con cui viene risuonata la prosodia di Caproni nella spatriata. E ancora l’«entrare di lato e aggirare l’evidenza» della poesia su Marta Russo, la «geografia dei nostri strani / posizionamenti» delle due coetanee.
Non si tratta del celebre slant of light, ma di una disposizione spaziale del tempo; Donzelli riesce ad abitare due momenti nello stesso istante, a guardare e a farsi guardare dai diversi vertici delle età. È notevole che questo avvenga a un’autrice di soli quarant’anni. E commovente, perché nella sua ritrattistica non c’è nessun cubismo, nessun taglio razionale, geometrico, o “assoluto” alla Fontana: la deviazione ottica è così ben collocata da far presente l’esperienza nel costante pericolo della sua consunzione, della nostalgia. Lo sguardo di rimbalzo, l’oscillazione (che trovo nella notevole pelle) mira a cogliere senza poter e dover definire. Anche nella scelta dei titoli, come dicevo, non c’è solo il gusto coltissimo della trouvaille, o della contaminazione fra riferimento pop e intensità del vissuto, ma lo scarto fra titolo e testo, l’intervallo da colmare, riandando. L’«occhio binoculare» cui è costretta la donna nel mondo della strutturante sapienza maschile (ad esempio, a Tiziana Volpe, medico di famiglia scopre un’intera prospettiva) unisce i destini dei divisi, anzi delle divise, nella vicinanza coetanea e coessenziale tra femmine, concave e potenti.
C’è tutto questo anche nelle poesie “politiche”: la manovra di attracco femminile è così poco euclidea da risultare sorprendentemente efficace: tocca il mondo perché lo prende di sorpresa, prima che esso si disponga nelle categorie conosciute, tutte lì pronte a confermarci e a deluderci. La tragedia di Marta Russo, quella del camping Le Giare, la scomparsa della sorella più giovane, Anna, rinascono con grazia sobria, con la luminosa capacità di esistere senza minimamente ingombrare.
Il libro di Elisa Donzelli mi ha fatto pensare alla pazienza, ai suoi tempi di esordio, ai suoi lunghi attraversamenti, alla cura e curatela. Nella mia maschile impellenza di esserci, che a volte è anche il cupio dissolvi della depressione e dell’impotenza, ho trovato bello leggere versi aspettati e accoglienti.
Qualche anno fa, Giampiero Neri ha allestito un’Antologia personale intitolata Non ci saremmo più rivisti (Interlinea 2018): ventisei componimenti in tutto. Understatement, professione di aridità, rastremazione ermetica? Macché. Ci sono degli artisti che sanno fare benissimo le cose semplici. In fondo, l’intelligenza dimentica; e si scrive per dimenticare, poiché una volta decantato sulla pagina, un fatto sarà quasi impossibile da ricostruire diversamente a memoria. Prendendo il posto dei fatti, la scrittura ottiene dall’oblio il massimo risultato. Per questo, scorrendo le pagine e i versi, il lettore non deve mai smettere di sospettare, e quel continuo sospetto è la sua gioia, la sua partenza.
Con Giampiero Neri, ci troviamo sempre davanti a un “sufficiente” che non ci basta. Ecco una sua tipica prosa breve, apparsa per la prima volta proprio nella discretissima antologia personale di cui dicevo:
Alla ricerca di uno spazio mentale, di un luogo anche metafisico, ho passato tanto tempo senza mai arrivare a un approdo.
Avevo pensato al paese dove sono nato, ma ho dovuto ricredermi.
Stavo per abbandonare l’impresa quando ho trovato la soluzione, il traghetto di Imbersago.
Credo di averlo visto una volta o due.
Ci si arriva scendendo una valletta, nel paesaggio collinare dell’Adda.
Sul fiume ci accoglie una piattaforma galleggiante il cui moto, semplice quanto ingegnoso, è di un progetto attribuito a Leonardo.
A poca distanza dalla riva, una popolare osteria.
Di qui si arriva e di là è terra di San Marco, terra di libertà.
Da quale secolo ci giunge questo componimento? Dal Seicento ottocentesco dei Promessi sposi? Da un piccolo mondo antico (il paese dove sono nato, la valletta, la popolare osteria), lievitato come nel veneto Fogazzaro da tensioni metafisiche? Quel che è certo è che Neri ammaina le vele dell’albero maestro, perché non cerca il mare e non solca un lago, ma vuole commisurarsi a un approdo mentale limpido, inappariscente. La piattaforma che galleggia sul fiume con un moto semplice e ingegnoso; quel progetto segnato dal sommo genio e che conduce a un’osteria, ovvero alla libertà, sono in trasparenza la poesia stessa, l’arte del guado, cui si giunge scendendo, scivolando su ciò che ci sostiene, l’acqua «utile et humile et pretiosa et casta». Al tempo stesso, però, occorre lasciarsi dietro l’oscurità di un’impresa lungamente impossibile, il duro ricredersi sulla patria, sull’origine e sulla loro retorica.
Questa è la metafisica a bassa frequenza di Giampiero Neri. Leggerlo significa affidarsi a un’onestà lenticolare, al tracciato di una matita indelebile. Recentemente, il poeta ha pubblicato per le Edizioni Ares due piccoli libri, Da un paese vicino (2020) e Piazza Libia (2021), ove il «luogo anche metafisico» prende nomi, si articola in topografie, in ritagliate geografie urbane, in cui convergono e si irraggiano figure esemplari. Sempre, l’estrema precisione del disegno e la ritrosa levità della lingua danno un sentimento straziante di presenza e dileguamento. Nel primo dei due libri, torna più volte l’emblema del “teatro”, una cifra complessiva del Neri naturalista e anatomopatologo. Nel secondo, siamo più dalle parti del “professor Fumagalli”, il quale – con «altre figure» – aveva mosso un libro del 2012; ora è la volta di «un uomo sulla cinquantina, disoccupato in apparenza, di nome Giovanni che vive della benevolenza altrui». E via con i suoi “detti memorabili”, fra Lao-Tse, Didimo Chierico e Filippo Ottonieri. Scopriamo verso la fine che costui, indigente ma non bisognoso, è amareggiato al contrario dalla propria impotenza a soccorrere:
«Questa è la realtà» andava dicendo Giovanni ai suoi amici. «Io non la posso aiutare più di tanto», e che lei si dovesse aiutare in qualche altro modo sembrava necessario per tirare avanti.
Erano arrivati a un punto di chiarezza e disordine insieme, dove non bastavano le parole e nemmeno i sentimenti.
Chiarezza e disordine insieme sono la frontiera a cui la poesia ci chiama e da cui ci spaventa. Lì c’è la sosta.
La maestosa intelligenza critica di Matteo Marchesini rende la lettura dei suoi poèmes en prose particolarmente stimolante. Sembra di poterlo finalmente prendere alle spalle, o di avvicinarsi alla grande, organizzata capitale di Stato che è la sua cultura da un lato meno coperto. Lì, dove le sentinelle sono meno numerose (non dico assenti) si può godere di un panorama sorprendente, di uno scorcio che consente di affondare la prospettiva.
Parlo di poèmes en prose nonostante il sottotitolo dei suoi Miti personali (Voland) sia il rassicurante Sedici racconti. Dal punto di vista merceologico siamo dunque nella narrativa: che però in questo caso ha la sovrana spericolatezza della purissima poesia. Quale maggiore ardimento, infatti, di quello dimostrato nel pubblicare delle prose che parlano o fanno parlare Orfeo, Ettore e Achille, Edipo, Narciso, Giobbe, Atteone, Filottete, Odisseo (o una sua sempre possibile proiezione truffaldina), Immanuel Kant e Giacomo Leopardi, senza arretrare neppure davanti ai due suppliziati più celebri del mondo occidentale, Socrate e Gesù di Nazareth? Certo riscrivere per l’ennesima volta le storie di sempre non è segno di timidezza, tantomeno di classicismo: è anzi il desiderio (dal titolo di una di esse) di mostrarsi Come tutti, laddove «i doni straordinari e le ferite umilianti si tengono in un unico nodo».
L’acqua più cristallina fa vedere chiaramente il torbido del fondale. Ostentare la propria abilità mimetica come impostura, la propria dottrina come circonlocuzione, la propria fuga come velleità sembra il compito che Marchesini ha affidato ai propri miti rivissuti. I suoi personaggi sono colti nel momento della loro suprema debolezza, in un ossimoro che neanche una prosa sinuosa e scardinante riesce a districare. Recentemente, Marchesini ha scritto di amare il celebre saggio di Simone Weil sull’Iliade come poema della forza, forse perché la forza è un’ideologia, una maschera, mentre nel cedimento avviene la confluenza fra la vergogna di sé, l’incomprensione altrui e la verità profonda del nostro esserci. Si comprende, allora, come in queste pagine psicoanalitiche “prima” della psicoanalisi (dunque, correttamente, mitologiche) il tentativo compiuto da ognuno di noi, quello di nascere distinguendosi, venga punito da una moltiplicata forza gravitazionale, da un’affettività centripeta, o possessività filamentosa, ricattatoria. Leopardi non riesce a fuggire dal palazzo recanatese, riattiratovi da una minorità somatica fittamente intrecciata all’amore per la gloria letteraria; dodicenne ispirato, Gesù disquisisce nel tempio attorniato dai dottori, ma crolla quando si accorge che il potere incantatorio delle proprie parole seduce anche i propri genitori, e li sminuisce in un tradimento intollerabile.
Di fatto, Marchesini esibisce il proprio talento attoriale, interpretativo, anzi lo squaderna con imperiale abilità, iniettando sangue freschissimo in quelle che da tempo potrebbero essere considerate tutt’al più “larve guerriere”. Tuttavia, è di questa propria capienza che egli si rimprovera, in quasi tutte le parabole che la esaltano. Narciso e Socrate, Cristo e Filottete, Kant e il facoltoso protagonista del racconto Dio muoiono come precipitando, potendo così smettere la rigida postura dell’identità sovrapposta, che tanta adorazione e tanta maldicenza ha attirato su di loro, intrappolandoli. In particolare, Mente (parola polisemica…) è uno straordinario stream of consciousness in cui la terminale demenza di Kant moltiplica e liquefà la capacità di controllo intellettuale dello stesso Marchesini. Ma ciò che conta è che uno degli assunti più solenni della cultura classica, la morte come liberazione dai mali, torna a suggerirsi come verità, con una dolcezza insidiosissima. Tanto che, se in queste prose emerge un pericolo incombente, e soprattutto privo di nobiltà, è quello della sopravvivenza. Un finto Odisseo torna a Itaca, non ingannando nessuno, nemmeno Penelope, che tuttavia accetta da quel momento di averlo caro, poiché la vanagloria è già l’aspirazione alla gloria; l’evanescente Artemide si esalta per l’annientamento di Atteone, trasformandosi nel grigio idolo di una religione; Giobbe (in un racconto splendido che sembra ispirarsi al Lazzaro di Andreev) non è perito fra le piaghe, anzi è risorto nella «festa tiepida» di una ricchezza virtuale, vasto e insipido orizzonte di obbedienti ectoplasmi. Nel quale, forse, siamo tutti noi a muoverci; visto che Marchesini potrebbe alludere, qui, al mondo odierno popolato di avatar, in una rivisitazione del vertiginoso L’invenzione di Morel, oppure all’arte del benessere, filmato continuo, ricco e insensibile.
Di fatto, fra smorfie di disgusto e apnee, fra vergogna della crescita e onnipotenza dell’“età prima”, Marchesini ha scritto un libro poetico, molto simile al suo riassuntivo Cronaca senza storia (Elliot 2016), poiché alla naturale o naturalistica attitudine mimetica del vero narratore sa agganciare la sonda che ne dubita, immergendola in un tempo grande, esemplare.
[Immagine: Terri Loewenthal, Psychscape 08 (Peach Springs Canyon, AZ)].
L’unico modo progressivo (se progresso interessa, altrimenti va bene tutto: terapia, nostalgia, ammortizzatore sociale, ecc.) rimasto a queste forme, per uscire dal pensierinismo odierno senza tornare nel letteraturismo di dieci anni fa, mi pare quello dei certamen nazionali (per rendere verificabili e comparabili le produzioni di voci isolate o sperse) in forme chiuse (come pratica pedagogica propedeutica, tipo i quaderni di solfeggio). I versi non li legge piu’ nessuno, in quanto a nessuno si riconoscono capacita’ distintive.
Voglio fare un esempio: Moresco e’ uno degli scrittori in prosa fondamentali nel canone della letteratura italiana contemporanea, diciamo fino alla terza parte dei Canti del Caos a livello di linguaggio ed immaginario. L’evoluzione del suo mondo immaginativo lo ha portato nei 2010 verso citta’ dei morti ancora vivi, ecc. Tale mondo psichico ripeteva (di certo, involontariamente) l’impostazione del videogioco Grim Fandango del 1998, senza che quasi nessuno peraltro se ne accorgesse, tranne Gian Marco Griffi a commento di uno sconclusionato peana di Marco Candida su Vibrisse nel 2015, qui: https://vibrisse.wordpress.com/2015/04/01/gli-increati-di-antonio-moresco/
La forma poesia sta vivendo il medesimo diluire del proprio pensiero in immaginari pre-culturali, quando non dichiaratamente a-culturali o pre-puberali. Sta cioe’ diluendosi nel poetico, la mitopoiesi mediatica di massa. Mi permetto allora di citare almeno “Il mondo vivente” di Giulio Mozzi come allargamento proponibile in senso progressivo (un avanzamento marcato rispetto all’esistente pensierinismo, sia in senso relativo che, diranno meglio gli specialisti, in senso canonico rispetto al primo ventennio di secolo) a quanto gia’ suggerito dall’ottimo e dottissimo Febbraro. Grazie dell’attenzione, saluti.