di Riccardo Frolloni

 

[E’ uscito da qualche giorno il libro di esordio di Riccardo Frolloni, Corpo striato, edito da Industria&Letteratura nella collana Poetica a cura di Gabriel Del Sarto e Niccolò Scaffai. Pubblichiamo una selezione di poesie e un estratto della Prefazione di Stefano Colangelo].

 

sogni I

 

Era lungo la scarpata e i massi e la merda delle vacche
e procedeva bene, a passo svelto, diritto di schiena, nell’aria
leggera della montagna, ognuno attento ai propri piedi
col sudore sotto la camicia e il fiatone, il mal di gola,
nel sonno devo aver perduto la coperta, slabbrato il pigiama
o dimenticato una finestra aperta, così uno spiffero,
un rumore dal fondo delle campagne s’intrufola,
diventa subito un fischio, mio padre già in cima
del primo promontorio, ce ne sarà poi un altro
e un altro ancora, ma neanche una parola, aveva il volto
sereno, da uomo, mi ammoniva di salire, di darmi
un tono, ma io arrancavo, passavo da altre parti, lo perdevo,
lentamente gli altri scomparivano nelle nuvole
o dietro ai sassi, io pure mi facevo più bianco con la pelle
fredda di sudore, mi dicevo non svenire ora, resta sveglio, svegliati.

 

*

 

movimenti I

Ci fecero uscire tutti dopo l’ultimo sguardo,
non avevo mai visto il giardino così, la gente

 

stava in piedi dappertutto, guardavano noi
mezzi scemi, rimbambiti dal piangere, allora

 

davvero qualcosa era accaduto: prima
la macchia, il cielo, i pioppi intorno, gli stessi.

 

C’era mia sorella ad aspettarmi e con un respiro
raccolsi tutta l’aria di casa, ed era ancora casa.

 

*

 

materiali II

 

Chi riconosce l’aria della neve
porta guanti di cuoio alle mani
e si passa legna dietro casa,

 

non ci si dice molto perché
non c’è molto da dire, ogni volta
è come se ci inseguisse qualcosa

 

le macchine passano per strada
ma più veloci, più sole, trasparenti,
subito rientriamo, odore di polenta,

 

ci precede un vento che sappiamo
ha il sapore ferroso delle ferite, perché
senza dircelo lo aspettiamo.

 

*

 

 

sogni III

 

Subito il rumore, la frattura dei rami, delle spine, l’erba che si schiaccia, quel
soffocarsi o colpo al cuore perché per primo giunge, poi senti le gambe, jeans e giubbotto
che sfrega e le sterpaglie che si arpionano dappertutto, ed eccole le mani,
l’accendino in tasca, sono nel bosco, è notte, ma la luna ti fa vedere bene
o non vedere niente, e il freddo di casa, la voce della sibilla da ogni tana o volo
di pipistrello, sono svegli e fanno tutto il cielo, io cammino

 

almanaccando qualcosa, pensieri vasti ma più spesso
parole a vanvera di chi sogna o è in preda all’ansia, ma anche semplicemente corre
su foglie secche a scaldare i piedi, le ascelle strette a farsi piccolo, ricordo bene quei sentieri
ci portavano in posti dove serpenti o pneumatici, rifiuti vari apparivano, ma noi
eravamo lì solo per passeggiare, per fare un po’ di moto e respirare l’aria buona,
mai li avevo percorsi di notte, mai da solo, non mi spiegavo di che correvo, di quale freddo

 

soffrivo, più facile capire che non sarebbe finito,
                                                                       che il bosco non è un bosco ma
un torcersi di lenzuola, e il bianco della luna quando poi parli della vita o solo.

 

*

 

movimenti IX

 

Visto al centro della stanza pensai noi ci muoviamo,
qualcuno sussurrava qualcosa, piangeva, ma tutti erano soffio

 

il corpo invece diventa subito corpo estraneo, immondo, zia Bruna
senza pensieri aveva pulito tutto, sistemato tutto, senza pensieri,

 

semplici le persone uscendo dicono ci vediamo e si voltano, salutano,
era movimento quello che mancava a mio padre, ingranaggio,

 

mi tormentavano micro pulsazioni, lampi, imprevisti,
e di questi soprattutto le mani, ora stringono un crocifisso

 

ora le mie mani sono impronta delle sue, le cerco nei sogni
le sento ogni volta che le richiamo, quelle bianche non erano

 

più quelle di forza e coraggio, scelgo così di accarezzargli i capelli
cortissimi, come voleva fossero i miei, ma c’era troppo bene poi.

 

*

 

preghiera II

 

Madre, ti vedo in lontananza e ho pena
di non esserti abbastanza uomo, noi due

 

ci scambiamo negli specchi, mentre scivolo
dietro, ti prendo la busta della spesa, apro

 

la porta di casa, e mi invento tante parole
e nemmeno una che sia vera, che dica qualcosa,

 

hai un libro che ti ho prestato, lo leggi
due pagine alla volta, l’hai iniziato

 

con il letto ancora piccolo, ora invece
sembra tutto più grande, l’aria la vedi

 

pesare dai soffitti, soffia dalle camere di sotto,
io per questo di notte cammino scalzo,

 

farmi parte di questo niente, per paura
che ti possa sembrare qualcuno.

 

*

 

Prefazione di Stefano Colangelo

 

L’ultima parola che il lettore incontrerà nella nota di chiusura di questo libro, prima di chiuderlo e di rimeditarlo come si deve, è «crisma». Una parola che posso legare facilmente a Riccardo Frolloni, perché l’ho letta per la prima volta nel titolo della sua tesi di laurea, dedicata al Magma di Mario Luzi: La parola come crisma. Una parola che avevo sempre sentito lontana, come in un tema separatamente enunciato, come in una bolla sottratta alla traiettoria materiale del mio tempo. Una parola che qui sembra riassumere, invece, due idee di fondo: prima, l’idea dell’olio profumato, dell’unguento, del balsamo di cura, conservato in un vetro fragilissimo di fronte alla violenza di un mondo di fango. Poi, anche l’idea dell’unzione, del gesto ultimativo, del viatico: tu, ora che hai intrapreso quel viaggio che ti stacca definitivamente da noi, ti ricongiungi a quella tua strana prossimità irraggiungibile, che nessuno avrebbe potuto intuire in te vivo; e così torni – prima di tanti di noi, e molto prima del tempo che ci aspettavamo – nel posto da dove non sei mai veramente partito. E noi restiamo a desiderare, come scrisse Philip Larkin in un verso per suo padre, «il dono del tuo coraggio e della tua indifferenza». Queste poesie, che adesso separano ancora il lettore da quell’ultima parola, e che tra poco lo condurranno fino a quel punto, sono il percorso che perde più volte – e poi riconquista – una direzione, un orientamento, come in una camminata fatta senza coordinate, per istinto, nell’inganno feroce della sua storia. E con lui, i primi a perdere l’orientamento – a pensarci, che strano esercizio deve fare il cervello mentre dormiamo: una specie di ginnastica, come per dimostrare al tempo che può ancora farcela, che può sconfiggerlo – i primi, dicevo, siamo noi stessi, personaggi dei nostri sogni. A me, si licet, capita spesso di perdere contatto con mio padre mentre lo rincorro nei pressi di labirintiche stazioni, sempre con un senso di fretta angosciosa, sapendo che sicuramente partiranno treni che non possiamo perdere, e di cui nessuno sa il binario; allora ci si divide, così almeno uno ce la farà, e invece il salire dell’angoscia è troppo ripido, il sogno evapora all’improvviso, e io non saprò mai se mio padre, perso un attimo prima, ce l’avrà fatta. L’«io» di queste poesie invece, arrampicato su per un numero infinito di colline stratificate, rincorre in sogno il padre nella forma di un agile e sorridente camminatore che si sposta sempre in avanti, guardando, quasi anticipando il suo paesaggio: quel «padre morto», detto così brutalmente, in questa fattualità di roccia, in questo urlo sommesso, che corre velocissimo dalla fase dell’aria a quella della pietra, fino a diventare una voce muta, incastrata nello sterno, inamovibile, replicata per sempre in ogni spigolo di quelle lunghe salite. Questa è la serie dei sogni, che affiorano a intervalli per segmentare il libro. […]

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