di Roberto Vetrugno
[Pubblichiamo un racconto inedito di Roberto Vetrugno, già autore di Tripoli].
Non sono mai stato in un carcere per un colloquio con un detenuto e credo che sia stata una fortuna. Essere lontani da un crimine e dai criminali è una condizione privilegiata dell’esistenza e io ho avuto questo privilegio. Per la prima volta mi avvicino a questo mondo e ho un po’ di paura. Ho parcheggiato la macchina, hanno controllato il mio documento, ho detto il nome della persona che avrei dovuto incontrare e sono entrato.
Lei, Beatrice, ha accettato di parlare con me, le ho scritto una lettera senza inventare scuse: le ho scritto che la sua storia merita di essere raccontata e lei mi ha risposto con una lettera molto breve, scritta a mano e l’ha firmata con il suo nome scritto a caratteri grandi e tondi.
Sono seduto a un tavolo di una stanza con quattro tavoli e otto sedie, c’è una porta di ferro che improvvisamente suona e si apre.
Una donna imponente si staglia di fronte a me, ha dei bicipiti possenti, le spalle molto larghe, le gambe sono lunghissime e muscolose. Ha i capelli corti, rossi, gli occhi piccoli e il naso tondo (mi ricorda un po’ la Pellegrini), i suoi occhi emanano intelligenza, attenzione. L’attenzione degli atleti, essenziale, efficace. Il seno è solo accennato e quasi incassato come se fosse un pettorale maschile. Mentre si avvicina mi accorgo che zoppica.
“Ciao”
“Ciao, scusa se…”
“Niente scuse, cosa vuoi sapere?”
Gli spiego che ho iniziato a raccogliere e a descrivere le storie di alcune coppie finite male. Questa è la sintesi migliore che sono riuscito a proporle. Lei rimane qualche secondo in silenzio, come se stesse decidendo se mandarmi affanculo o se aprire la sua vita a un perfetto sconosciuto e anche un po’ sospetto. In carcere non ha molto da fare e credo che parlare con un estraneo sia una buona occasione per cambiare il corso della propria giornata.
È seduta di fronte a me e la sua testa è più in alto della mia.
“Quello che è successo è successo per colpa mia. Io l’ho amato molto, moltissimo. Non si può non amare una persona come Cristiano perché è profondamente buono e disponibile, in tutto, per tutto. Non so cosa gli piacesse di me, i nostri mondi erano distanti. Lui con la pallanuoto non aveva niente a che fare, lui era un extraterrestre per me, che è sbucato una volta sugli spalti della piscina dove ci allenavamo, da solo e ci guardava, anzi mi guardava. Mi ha spiegato poi che era stato sempre affascinato da uno sport così intenso e così forte di squadra come la pallanuoto, e voleva scoprirlo osservando. Lui osserva tutto per ore, osserva le cose e sta zitto; è stato zitto con me per anni, parlava quando credeva in quello che diceva e io forse non ho mai capito quanto fosse dolce e amorevole tutto questo. Non ho capito la forza della sua pazienza, anche quando tutto è andato a rotoli, quando la pallanuoto è diventata la mia rovina…”
È un fiume in piena, ha iniziato a parlare e non mi ha permesso di interromperla per un attimo. La possibilità di parlare con un perfetto sconosciuto è l’occasione per lei di fare i conti col suo passato, con il male che si porta dentro.
“Per me la pallanuoto era tutto, da quando avevo tredici anni è diventata la ragione della mia esistenza, ero brava, ero la più brava e a diciotto anni ero nella nazionale, dopo aver vinto due campionati sono stata scelta come una vera promessa che avrebbe portato l’Italia in finale alle olimpiadi. Così Carlo il mio allenatore mi ha trasformato in una macchina da gol. Il mio corpo è diventato sempre più potente, ero in grado di rimanere ore in acqua, le compagne quando erano sfinite mi dicevano di uscire e di non tirare troppo la corda ma io no, io non uscivo mai e continuavo ad allenarmi nei tiri, da sola, io e la porta.
Con me in attacco abbiamo vinto primo il campionato europeo, poi ai mondiali siamo arrivati secondi e non abbiamo vinto per un soffio, anzi per una stronza in porta che non ha parato quello che avrebbe dovuto parare.
Con Cristiano ci eravamo conosciuti prima delle olimpiadi, era ogni giorno lì sugli spalti, gli allenamenti erano vietati solitamente al pubblico ma un suo amico gli aveva dato un pass, Cristiano è un giornalista, scrive di cucina. Ero certa che guardasse me, non le altre, all’inizio avevo paura che mi deconcentrasse, avevo paura di innervosirmi e invece mi sono accorta che il suo sguardo mi dava forza, mi piaceva essere osservata da lui con quel suo sguardo dolce e quasi un po’ assente. Mi sono avvicinata a lui dopo un allenamento e gli ho detto: “Perché mi guardi? Cosa vuoi da me?”
“Lo so che sembra assurdo ma credo che noi due dovremmo stare insieme: vorrei cucinare una tartare per te, sta sera e parlare di noi.”
Mi sono messa a ridere, che cosa scema è l’amore ma quello era amore. Nel mio mondo non esistevano quelle parole, quelle persone che dicevano cose che non ti aspetti: quando vuoi diventare una campionessa olimpionica non hai spazio per quello che non è ordinato, non hai spazio nella mente se non per alcuni schemi che devi seguire per il tuo corpo. Sì la tua vita diventa il tuo corpo, i tuoi sentimenti sono nei muscoli e nel loro stato. Se ti senti in forma sei felice, se il tuo corpo vince sei felice, se la tua performance fisica dà risultati la tua vita prende forma altrimenti sei solo in attesa di essere al massimo. Con questa mentalità Carlo il mio allenatore mi ha chiuso nel mio corpo e quello strano uomo magro e col sorriso mi sembrava la chiave per essere felice anche fuori dalla piscina. Era una trasgressione, quelle parole mi hanno fatto sentire umana, voglio dire terrestre. Perché la piscina è come un acquario, sei isolata e ti fai guardare da spettatori che non conosci, loro vivono sulla terra ferma, tu in acqua.
“Hai accettato quindi?”
“Assolutamente no, gli ho detto “Tu sei pazzo, e mi sa che sei anche un po’ pervertito, vattene e non farti più vedere” ma poi il mio corpo si è ribellato, gli ho sorriso e l’ho baciato, lui era stupito, non dimenticherò mai la sua faccia. Sono andato a cena da lui, mi ha fatto conoscere il suo mondo e io gli ho parlato del mio, per ore. Non sapevo cosa avesse in testa, era strano, divertente quando parlava, così diverso da me. Un fisico minuto ma era letteralmente estasiato da me. Io avevo scopato solo a sedici anni con un pallanuotista stronzo, era stato triste, sembrava di fare allenamento. Come se scopassimo per allenare ancora di più il nostro corpo con esercizi da fare in due che in palestra non si potevano fare. Poi lui mi ha lasciato per una nuotatrice, quella puttana che va anche in tv. Se li scopava tutti, allenatori compresi.
Non scopavo con un uomo da quattro anni e quella sera mi ero concessa un bicchiere di vino, era buonissimo ed era buonissimo tutto quello che lui mi aveva cucinato. Io ero sempre a dieta, mangiavo piatti stabiliti dal medico della squadra e non potevo mai superare un livello di calorie.
Ci siamo innamorati, e alla grande, oltre alla pallanuoto c’era qualcos’altro nella mia vita, era lui quel qualcosa e mi piaceva. Non pretendeva niente da me, accettava tutte le mie trasferte, gli orari massacranti di allenamento, mi faceva trovare piatti squisiti quando tornavo a casa sfinita.
“Non vorrei essere indiscreto ma hai voglia di dirmi come andava a letto tra voi?” Per la prima volta lei ha sorriso.
“Era strano, ero io che comandavo, mi sembrava leggero e lo muovevo sopra e dentro il mio corpo come volevo. Lui era un fuscello, mi faceva godere questa cosa, era strana, niente muscoli, due gambette, molti peli su un corpo magrolino ma mi sembrava così strano che mi eccitava da pazzi.
In quel periodo mi ha fatto bene, ci stavamo allenando per le olimpiadi, potevamo andare alla grande, l’allenatore e il Coni mi avevano individuato come l’asso nella manica per vincere. Arrivarono anche i primi articoli su di me come nuova promessa della pallanuoto.
Poi la mia vita è finita, quella ragazza che si allenava con tanta passione è finita, un giorno.”
Beatrice ha smesso di parlare e mi guarda male, poi sospira e ricomincia. Io non vorrei più ascoltare, è così bello quello che mi ha raccontato e ho paura di sapere come quella condizione di felicità sia diventata uno stato di reclusione.
“Un giorno torno a casa, lui ha messo una bici elettrica con un grande fiocco al centro e mi dice “Questa è per andare in piscina senza rischiare di fare ritardo,” io lo bacio e facciamo l’amore sul divano con quella bici lì, col fiocco.
Due settimane dopo stavo andando in piscina, ero felice, era appena uscito un articolo su di me, non so a cosa stessi pensando e non ho visto quel bastardo che apriva la portiera della sua macchina di merda, io non ho fatto in tempo e ci sono andata contro”
Mette le sue mani giganti sulla faccia e vedo solo i suoi capelli biondi.
La mia carriera è finita, tendini gamba e gomito fottuti per sempre, zoppico ancora e sono morta dentro.
Non gli ho mai perdonato quel regalo. Da lì dentro di me è nato un odio verso di lui che non ho controllato.
Ho trovato un lavoro in un negozio di articoli sportivi, guadagnavo poco, l’allenatore e le compagne di squadra hanno fatto finta di essermi vicine ma mi hanno odiato perché senza di me la squadra era finita, infatti sono state eliminate quasi subito e io ero la colpevole, era colpa della mia maledetta bici e dentro di me era colpa di chi me la aveva regalata.
Stavo zitta davanti a lui per ore, per mesi sono morta dentro e fuori, il mio corpo si stava disfacendo, lui cercava di amarmi, di distrarmi e io lo odiavo sempre di più, sempre di più. Volevo fargli male, sono rimasta incinta e senza dirgli nulla ho abortito. Ho iniziato ad allenare una squadra di ragazzine in una piscina di periferia, mi piaceva quel degrado, quelle vite complicate che cercavano di migliorare attraverso lo sport che era stata la mia rovina. Mi dicevo che sarebbe passato e avrei fatto altro ma vedere quelle ragazze sane giocare come giocavo io mi dava ancora più rabbia. E poi il resto lo sai, se sei qui lo sai, te ne puoi anche andare.”
Si blocca, rimette le mani sulla faccia, rimane in silenzio. Si aspetta che sia io a parlare ma io non parlo anche se so già tutto. Conosco i fatti ma non conosco i suoi fatti, la sua verità e il suo dolore, che mi sembra immenso. Sono pronto ad andare via, lei lo capisce e mi dice “Aspetta.”
“Devo dirlo di nuovo a qualcuno”
“Va bene, ti ascolto.”
“In quella palestra alcune ragazze erano delle sbandate, ed era normale, quando non hai una madre e tuo padre è un criminale o un disoccupato diventi cattiva, ti butti via e quelle ragazze dopo l’allenamento andavano a bere e a volte anche a drogarsi. Mi hanno tirato in mezzo, rimanevo con loro in un bar di merda a bere, a odiare tutto e il mio odio era come il loro. Tornavo tardi, Cristiano si accorgeva che avevo bevuto e appena provava a parlarmi io ringhiavo, lui cucinava per me e io rifiutavo quei piatti e mi aprivo una bottiglia di vino, lui soffriva ma come sempre non diceva niente, aspettava, aspettava. Una volta gli ho tirato un piatto addosso, lui ha cercato di dirmi che dovevo curarmi che mi stavo buttando via e appena mi diceva queste cose io perdevo il controllo e lo insultavo, gli dicevo che mi aveva rovinato la vita. Per me era vero, lui e il suo amore di merda e la sua bicicletta del cazzo mi hanno distrutto. È entrato come il male nella mia esistenza, io l’ho accettato e tutto è andato male, tutto, e ho pensato che è stata colpa sua e che certe vite non si devono incontrare e che bisogno stare da soli a volte per essere felici. Quell’amore che lui mi ha dato ti può distruggere perché ti fa deragliare, il tuo cazzo di treno che hai costruito deraglia, va tutto in merda per un affetto che nessuno ha chiesto.
Io lo odiavo e non riuscivo ad andarmene di casa anche se gli dicevo ogni giorno che era finita e che lo odiavo. Ero fuori di me, lui lo aveva capito e non reagiva, e invece doveva reagire e andarsene via nei suoi cazzo di ristoranti ad assaggiare quei piatti con cui mi ha avvelenata.” Si sta agitando, dal vetro della porta l’agente si sporge per vedere che sia tutto ok. Beatrice si muove sulla sedia.
Una sera quelle ragazze mi dicono vieni che proviamo una cosa buona e mi portano a casa di un amico e mi fanno pippare della cocaina, era forte. Io mi sono sentita di nuovo potente, la gamba e il gomito non mi facevano più male, mi sentivo quella di prima. Ho bevuto, ho continuato a pippare, non mi ricordo niente di quella sera, niente, l’ho detto al giudice poi mi sono trovata per strada, mi sentivo di nuovo la campionessa con la sua forza e la campionessa si doveva vendicare e allora a piedi sono andata a casa, ero completamente fuori, te lo giuro, non come hanno scritto i giornali, non ero lucida. Non hanno scritto che ero strafatta e dovevano farlo!, io ero fuori di me e quell’odio era diventato ingestibile, cresceva a ogni passo e sono entrata in casa, lui aveva il grembiule di cucina e appena mi ha visto ha smesso di girare con il mestolo una delle sue zuppe, mi ha guardato spaventato, mi è sembrato ancora più piccolo, io ero un animale, lui ha provato a dire qualcosa ma io, io ho preso il mestolo e non so cosa ho fatto, ti giuro non lo so!, so solo che ho iniziato a colpire a colpire, prima col mestolo e poi con le mie mani l’ho massacrato.
Beatrice inizia a piangere, mi dice di andare via, io vado via.
Cristiano è stato ricoverato quella sera in prognosi riservata, è finito in coma per le contusioni alla testa. Dopo due giorni è uscito dal coma e con una lenta riabilitazione è riuscito a recuperare quasi del tutto, ha una invalidità del 30% per le condizioni del femore della gamba sinistra e della clavicola della spalla destra. Continua a scrivere di cucina e ha chiesto di rivedere la sua compagna ma lei ha rifiutato qualsiasi colloquio con lui. Lei sta scontando tre anni di carcere, uscirà tra un anno.
Niente male, sembra un racconto di Scerbanenco, personaggi dissonanti e vite sprecate per caso. Né redenzioni né perdoni, tantomeno morali e solo un grande amaro in bocca, questo alla fine la vera universalizzazione.
(Palombella è tratto dal romanzo Umiliati, di prossima uscita per Vallecchi. r.v.)