di Andrea Cortellessa

 

Oggi che sempre più sembriamo aver abdicato alla fiction, cioè all’invenzione, tanto più urgente sarà sgombrare il campo dai soliti equivoci. Il primo, dal quale tanti altri ne discendono, è quello dell’autenticità: perché, ha insegnato Kafka, «per poter confessare, si mente. Ciò che si è non lo si può esprimere, appunto perché lo si è; non si può comunicare se non ciò che non siamo, la menzogna». Più corretto allora sarà dire (lo ha fatto di recente Giorgio Agamben) che lungi dal «tenace equivoco romantico» di un’«opera che nasce immediatamente dalla vita», ma anche da quello opposto e teologico (nonché, si potrebbe aggiungere, psicoanalitico) secondo il quale «la vita scaturisce dalla parola», «piuttosto esse nascono e camminano insieme, l’una per l’altra quasi una presenza clandestina di cui non si può fare a meno».

 

Chi lo sa da sempre sono i poeti (sebbene i meno “sinceri”, fra loro, si picchino di definire la propria, impossibilmente, «poesia onesta»). Ogni «fatto» è in realtà «senhal» di Qualcos’Altro, e la prima persona non è che «la migliore persona dello schermo», hanno decretato gli arcirivali Zanzotto e Sanguineti: facendo entrambi ricorso ai postulati provenzali e stilnovistici di quella che definiamo «poesia lirica». La quale ricorre spesso, semmai, a quanto parafrasando Barthes potremmo definire un effetto di autenticità. Questo non meno che illusionistico dispositivo retorico è la trappola percettiva più insidiosa, per i lettori; nonché per un autore, in termini etici, la prova del nove decisiva.

 

Tale prova ha deciso di affrontare, infine, Maria Grazia Calandrone. Di un’opera poetica ormai anche quantitativamente ragguardevole, che almeno dal 2005 si segnala fra le nostre maggiori, e dopo il vertice di Serie fossile (Crocetti 2015) finalmente è giunta all’attenzione generale con Giardino della gioia (Mondadori 2019), in molti conoscevamo il fondo oscuro, il presupposto traumatico, le fondamenta invisibili. Le aveva “messe in chiaro” un testo come Alla compassione di tutti (pubblicato in «Leggere tutti», aprile 2010, e incluso come appendice alla raccolta uscita un po’ “alla macchia” che è Atto di vita nascente, LietoColle 2010). Un testo però, per così dire, in limine: dentro la sua opera e insieme fuori (un po’ come Storia di una malattia per Amelia Rosselli). Ben diverso, si capisce, lo statuto di Splendi come vita. Un rischio calcolato e un’ordalia. Diceva Paul Celan che «la poesia non s’impone più, si espone». Ci si espone in effetti a tutti gli equivoci, a tutti i ricatti, a tutte le svendite all’incanto: nell’esporsi sbattuti in copertina («mostriciattolo», previdenti, la chiamavano da piccola).

 

Anche nel 1965 la sua storia, sui giornali, era sulla bocca di tutti (questo il titolo della raccolta pubblicata da Crocetti nel 2010). Nata otto mesi prima, Maria Grazia Greco era la «figlia del peccato»; cioè una bambina esposta, si diceva appunto una volta: una contadina molisana malmaritata fugge con un altro uomo a Milano, la figlia che nasce non viene riconosciuta dal marito, la madre l’abbandona a Roma, dopo di che lei e il suo uomo si gettano nel Tevere. La bambina, raccolta a Villa Borghese da un passante, viene poi adottata da un uomo politico, il senatore del PCI Giacomo Calandrone, e da sua moglie Consolazione (ma tutti la chiamavano Ione), insegnante di lettere siciliana «bionda, bella, lucida, normanna e stalinista». Un’apocalisse in sette righe. Ma Splendi come vita non interroga la vita anteriore di «Madremammavéra» bensì, «tante vite dopo nella stessa vita», i decenni di Amore e Disamore seguiti con «Madre»: Ione cioè, che ad appena quattro anni racconta tutto alla bambina. «Mamma Vera era l’altra […] Aveva inoculato nel proprio corpo un sentore di plastica […] Da quel momento, non credette più al mio Amore». La breccia del disamore, che improvvisa si apre in quell’istante, è l’inizio della loro sfida infernale (l’equivalente se non l’equipotente, a generi invertiti, d’un capolavoro recente come la Leggenda privata di Michele Mari…).

 

Già con una, di origine, facciamo una certa fatica. La investiamo di radiazioni oniriche, proiettiamo fantasmi. Di famiglie in sorte, scopriamo, Maria Grazia ne ha avute due: i suoi fantasmi hanno un corpo, una storia, un linguaggio. Come annota in gioventù l’interessata, diverso è però il Disamore che si manifesti come tale in origine (quello per esempio della Cognizione del dolore di Gadda, cui virgilianamente mai «risere parentes»; o appunto quello che corruccia la facies di Michele all’ombra del Moloch di Enzo Mari, «intersezione di Mosè con John Huston») da quello che subentri, così crudelmente esautorandolo, a un anteriore Verde Paradiso Infantile. Allora chi lo conosca diventa El Desdichado di Gérard de Nerval: il Diseredato la cui «torre abolita» si rivolge a un’«unica Stella morta».

 

Mentre il corpo di suo marito si ammala e muore, quello di Ione interminabile decade: perde la vista, e allora «smisi di dipingere / quadri che non poteva più vedere / e tentai la poesia» (un destino, nei nomi: proprio Ione s’intitola il dialogo di Platone che tratta della poesia, della sua mala educazione). È a questo punto che si produce il miracolo: «Madre conserva le mie prime poesie. Madre se le fa leggere, ogni tanto. […] Madre critica duramente. Certe volte, sorride. Continuo a scrivere per quel sorriso». Sono le parole infatti, nella loro insospettata consistenza («la parte più concreta della materia»), a farsi «l’officina alchemica dove ogni dolore viene ridato al mondo come bellezza» (anche se, in clausola, si prende coscienza che «questo precipizio di parole / non è buono a rifare / neanche una molecola del tuo sorriso»).

 

L’ombra delle parole è come l’ombra dei corpi trafitti dalla luce nucleare, nelle celebri immagini del dopobomba di Hiroshima (Maria Grazia adolescente ne resta turbata leggendone in un libro di Karl Bruckner: «quelle non sono ombre, bensì l’ultima traccia di un solido umano, ciò che resta di un uomo prima di sparire nel vento atomico»). Ombre però, come si vede, tutt’altro che immateriali. Proprio la solidità di quest’assenza, questo nulla così solido, è a ben vedere la matrice del singolare materialismo che, della poetica così ricca e strana di Calandrone, sempre è restato la barra dritta.

 

Sin dalla prima lettura, l’episodio che più mi ha colpito in Splendi come vita è quello in cui, viaggiando in treno in compagnia di Ione per recarsi al funerale di Stato del Senatore Calandrone, Maria Grazia «sporge il braccio destro dal finestrino per afferrare l’aria, invece prende un palo della luce. Madre resta seduta, dice Ti sta bene». È la riscrittura rovesciata – contrassegnata come tale dalla battuta impietosa dell’«aceto madre» – dell’archetipo letterariamente più sublime, del lutto per i maiores: il tentativo vano di Ulisse di abbracciare sua madre, nella nekyia dell’XI dell’Odissea (riscritto nell’incontro di Enea con lo spettro della moglie Creusa, nel II dell’Eneide, e in quello con Casella nel II del Purgatorio: «Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto! / tre volte dietro a lei le mani avvinsi, / e tante mi tornai con esse al petto»). Mentre nei modelli, attratti dall’aspetto materiale delle ombre, si cerca in ogni modo di toccarle, ma quella che si riesce ad abbracciare è solo una spalla d’aria, qui si vorrebbe proprio afferrare l’aria ma la realtà rugosa si manifesta, di contro, in tutta la sua irriducibile consistenza: in forma di palo della luce («tra qualche giorno è il mio undicesimo compleanno. La sera in cucina dico Ha smesso di soffrire. Poi siedo alla scrivania di Padre e mi raso i capelli a zero con la lametta»).

 

Negli archetipi provenzali ogni poesia doveva essere accompagnata dalla vida dell’autore: contrappeso del testo biograficamente materiale ma da esso in sostanza forcluso, marginale, allotrio. Anche Splendi come vita, magari, tollererà d’essere usato come “paratesto”, «vita a fronte» della poesia di Maria Grazia (ci si sorprende, per esempio, nello scoprire che l’incandescente materialismo emotivo che la connota trovi le sue origini nei vaneggiamenti della Scientology, di matrice fantascientifica, di un poi abiurato Ron Hubbard: «la teoria alla base del suo “metodo” è che il dolore sia un fenomeno fisico misurabile, che i traumi formino resistenza e massa […], e possano dunque venire individuati dal sensibilissimo ago del suo macchinario»).

 

Ma la scommessa di un così costoso atto di esposizione non può che consistere nell’autosufficienza, invece, di un testo simile. Con la sua materia, appunto, magnificamente duttile – che alternativamente si tende in prosa-prosa, in prosa ritmica e in anche-verso (così seguendo la lezione della maestra più diretta, Antonella Anedda) – Splendi come vita dimostra in effetti di non essere solo vida, mero paratesto dell’opera poetica, ma al contrario di esserne pietra di paragone (così s’intitolava l’opera prima, di Calandrone, pubblicata nel 1998) e «pietra filosofale»: pietra d’angolo di un edificio che tanto più potrà tendere in alto quanto più si ricorderà della sua «frattura fonda», come la chiamava il vecchio Ungaretti. È la frattura più fonda, sempre, quella che ci fonda.

 

Maria Grazia Calandrone, Splendi come vita, Ponte alle Grazie 2021, pp. 223, € 15.50

2 thoughts on “Maria Grazia Calandrone, l’esplosione di una stella

  1. Ma la scommessa di un così costoso atto di esposizione non può che consistere nell’autosufficienza, invece, di un testo simile.
    Così dice l’articolista e sembra essere l’unico appunto “critico” della poesia della Calandrone. Mi viene in mente ad esempio la sua voce su radio tre quando espone le poesie di suoi contemporanei, così partecipata e intelligente, così “profonda” se questo termine per una poetessa avesse un significato…. Di lei si viene a sapere la sua storia tragica e in questo peraltro bell’articolo, non si cita nessuna poesia dei vari titoli presentati dal punto di vista biografico. Importante sapere la storia dellla Calandrone? E’ fondamentale interpretare psicoanaliticamente il valore di una poesia e addirittura di un autore per capire i suoi traumi e dedurne da essi quanto dolore e quindi quanto spessore ha la persona e la sua opera? Non è più importante invece leggere le sue poesie e da queste capirne l’autore come fossero esse la vera biografia interiore/esteriore del poeta/poetessa?

  2. Il fatto è che l’autobiografia, da un paio d’anni a questa parte, va per la maggiore a livello editoriale, basta scorrere i titoli di quanto pubblicato dalle varie grandi case editrici.
    Il problema è se ci sia qualità letteraria in un racconto autobiografico, cosa ancora più difficile quando per tema ci sono delle vicende dolorose, a causa del rischio di sfociare nel sentimentalismo o nel romanticismo. Da alcuni estratti qui riportati il dubbio rimane.

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