di Giuseppe Nibali
[Esce nei prossimi giorni, per Arcipelago Itaca, Scurau, un libro di poesia di Giuseppe Nibali. Anticipiamo alcuni testi e un estratto dalla postfazione di Tommaso Di Dio]
Ultima voce chiama il sangue.
Campo cruento gli uomini, altro sangue per le donne:
è il giorno. Tutti sono convocati, vecchi e nuovi
viventi aspettano un gesto per sbranarsi. Il rivolo
aspettano, verticale sullo sterno, il morituri stabilito
dalla nascita, nella nascita futura rivelato. È tempo
adesso per il sesso tra gli attori, gambe nude, lividi
dai piedi fino all’ano serpi, piaghe fili lo sfondo fuori
anche case, molte, come in cerca vergognosa della luce.
Altro mai, nemmeno nella voce, nella voce ultima
*
Dal lato filtra l’acquenere nel cemento, passa rifugi antiaerei, tracce di ferrovia. Ai liquami arriva, alle ossa degli antichi. Di qua un nuovo cimitero: cavi molti, un prato. Per lo scopo i piedi premono sul vetro, le mani stanno in preghiera. Mio e comune il giorno in cui ho pisciato via dalla fica il flare, il colpo del sole sulle labbra. Un silenzio primitivo, il viso è morto, non vedi? Le strade, anche le strade, le gallerie come arterie di donna, le vedi? Le sorveglia un’altra volontà. Allora nulla si è sfatto da quanto siamo, non hai da cercare, né manca in TV di guardare i fiati sfiniti degli amanti, il collo che si curva di un airone. Così è fino alla matrice, allorché del maschio e della femmina farete un unico essere sicché non vi sia più né maschio né femmina. Così è fino alla matrice, alla prima carne strappata da uno stomaco.
*
siamo ancora uomini. Anche i morti. Tutti.
Scuotiamo lo sterno come lucertole per ingoiare
il molle di un verme. Enormi come ventre buio
di bambina alla corsa, bambina che spazzi
il corrimano del lido, ne visiti le croste.
Hanno terrore anche le ossa qui sbranate
sul cemento e non sentono l’acqua, il nylon
trascinato sul prato sintetico. Stanno sterpi
oltre il mare gli uomini, non apprendono concordia
solo frenano il vento sopra il volto abissale
nostro profondo corale
*
il diluvio continua. Così gli uomini resistono in sacche grosse, in capanne sopravvissute all’acqua che da ogni parte assedia le plastiche. Noi pochi resistiamo, noi così in pochi qui riviviamo i tempi belli, l’infanzia più dietro, la memoria. Da giorni il Simeto si muove in sobbalzi, si ingrossa, la notte il fiume non ci lascia dormire. Nessuno di noi ne parla, ma tutti abbiamo sentito, tutti temiamo per i nostri petti. Noi ci stiamo ritirando verso i boschi, non vogliamo prendere parte all’abominio. Abbaiamenti gravi come spari, l’ululato dei lupi rimasti; scendono zitti dalle rocce, né attaccano né giocano, solo guardano il viavai di gente sulle rive. Il manto come una guerra di colore, l’ultimo sangue crollato giù dai denti.
*
Lentissimo nella notte, la voce annuncia: verso lei
nel buio, poi lancia la caccia. Glutei tesi, la coda
Qualcosa d’elettrico gli occhi. Mentre continuamente a fuoco
cerca la macchina nel nero il muggito, che arrivi preciso
che l’operatore non lo perda. Verso lei, tra l’erba
lo gnu viene graffiato cinque volte in una presa
nel lancio velenoso di muscoli e tendini. È perso,
soffocato dalla leonessa con i canini nella glottide.
Non è stanca ma triste la femmina, un’adulta e per un tempo
prima e dopo la predazione carezza col muso il muso della morta.
Finalmente, dice la voce, mentre verso lei ne arrivano affamati
altri due
*
fanno spavento le cose del mondo e si dovrebbero lasciare:
un figlio chiede al padre dell’auto crollata nel vallone.
Si dovrebbero lasciare, mentre insieme guardano la televisione
dal divano. Lei lunga distesa, il suo collo e ciò che precipita
insieme a noi e alla Terra e si fa freddo mistero.
In futuro poi il lampadario di carni e scheletro, faranno
come fossero statue di rettile nel diorama. Diranno si amavano,
guarda, lei ancora tiene la testa poggiata sulla spalla.
Non hanno sentito nulla dal globo durante il lungo crollo
(mesi, anni), è stato come spegnere tutto, un velo, un tuono.
Entrarci ancora vivi, dentro il nero
*
È stata la fame a costringerle a lasciare il tempio
on ci sono turisti da quando è partito il contagio
per la strada adesso i maschi impongono comando.
Il gruppo si divide, i giovani vanno verso le vie
minuscole, gli anziani si sciolgono nello snodo
principale. Lopburi, Phra Pang Sam Yod, vicino
Ayutthaya, a nord di Bangkok. Lì erano placide
sazie e non mordevano, attaccavano di rado,
rubavano ancora meno. Adesso la strada è il campo
del sangue, per mezzo chilo di banane i padri
graffiano il costato dei figli. Si registrano i primi
casi di cannibalismo, eppure sono onnivori, uova
di uccelli, semi e frutta, ma mai carne se non di
granchio, sulla costa
*
A picciridda cà n’facci ìnchia ‘mpazzuta n’sicchiu di rina.
È bionda avi a faccia sfriggiusa di lintinia. Fossi voli essiri
scannata, com’a scecca zaccariata ch’ancora talia studduta
u catrami ro patruni.
Tutti e dui sunnu coddi ri tagghiari, corpi ca scancianu
l’odiu p’amuri. Accussì smirciannuli nzemmula mentri
a figghia scinni a mari e a scecca preia pa tinturìa, pari
na tissitura, na cerimonia biniritta: una n’terra sbudiddata.
L’autra ca ietta m’pazzuta a sabbia nto sicchiu.
Pari tutta a stissa miseria, u stissu chiantu.
(La bambina qui davanti riempie impazzita un secchio di sabbia. / È bionda ha la faccia monella di lentiggini. Forse vuole essere / scannata, come l’asina tartassata che ancora guarda stordita / il catrame del padrone. // Tutte e due sono corde da tagliare, corpi che scambiano / l’odio per amore. Così guardandole insieme mentre / la figlia scende a mare e l’asina prega per il massacro, sembra / una trama, una cerimonia benedetta: una a terra sbudellata,/ l’altra che getta impazzita la sabbia nel secchio./ Sembra tutta la stessa miseria, lo stesso pianto).
Animali, uomini, macchine, croci
di Tommaso Di Dio
Il genere umano. Io ne ho paura
Questo libro parla di noi. Qui ci troviamo tutti, «tutti sono convocati»: nessuno è escluso. Siamo noi qui, in Occidente, adesso, anno domini 2021. Raramente ho letto un linguaggio più immerso nella contemporaneità: ed è orribile. È l’orrore.
La scrittura di Giuseppe Nibali Guzzetta ci mostra il fondo più oscuro della nostra epoca senza fare menzione alcuna della nostra più triste cronaca. Nibali non ha bisogno di referenti espliciti, di nomi-totem tratti squallidamente a forza dagli schermi e dalle voci rauche delle varie pasture mediatiche. No: qui è la materia stessa del linguaggio, la sua natura congestionata ed eteroclita, che ci immette senza indugio in una zona infera, crepuscolare, che ci è terribilmente prossima e familiare. La riconosciamo dalla ferocia che ogni verso trasuda, dalla violenza pornografica di ogni immagine, dalla latente ossessione necrofila per i resti, siano essi feticci, schegge di mitologia, di storia, di scienza: siamo nella nostra epoca, epoca fecale, e Scurau è il nome di questa esplorazione.
Dal dialetto siciliano possiamo tradurre variamente questo strano verbo. Scurau: verbo impersonale, terza persona singolare, passato remoto. Per trovare un’equivalenza semantica, possiamo affidarci alle espressioni italiane “abbiamo finito”, “viene buio”, “fa notte”, “è tardi”; ma in ultimo è, come ogni espressione idiomatica, intraducibile. A guidarne la forza evocatrice è il valore perfetto di un evento (la tenebra) che si annuncia come remoto ed è già qui, tutto presentificato nel suo approssimarsi inesorabile. La sua imminenza è nondimeno tardiva: quando arriva, bisognerebbe andarsene, ma è troppo tardi. Scurau: un remoto presente. Il senso di questo verbo trova però una paradossale chiarificazione se lo avviciniamo ad un suo gemello, ovvero all’etimo di un altro termine che conduce alla notte. Troppo spesso dimentichiamo il nome con cui ci riconosciamo e riconosciamo la nostra cultura, superbamente collocandoci in una precisa area del globo terracqueo che i nostri antenati hanno disegnato e ridisegnato più volte; troppo spesso dimentichiamo (facciamo finta di dimenticare) che noi siamo la cultura dell’Occidente, i creatori e i persecutori in ogni angolo della terra della Western way of life, la cultura del sole che tramonta, del sole che affonda, che crolla, cade; siamo la cultura del progresso tecnologico e dell’infinito diffondersi del capitale, dove il mare si fa scuro di plastiche e fa notte in un cielo deserto di ogni stella. Questo libro ci colloca qui, nel remoto presente che abbiamo costruito nel corso di millenni di conquiste tecnologiche e militari, economiche e ideologiche. L’Occidente evocato da questo libro è esattamente e senza tregua l’area del tramonto, lì dove ogni vita si mostra nel suo scurirsi: è qui infatti – e non altrove – che si è dato per la prima volta annuncio della morte del grande Pan, sempre qui, diciotto secoli dopo, ogni idolo è stato condotto al proprio crepuscolo e contemplato nella luce violacea del proprio cadavere ragionevole. Dell’Occidente, di questa terra dove l’umano tramonta nella merce e contemporaneamente ciascuno individuo «erge come cazzi azzurri i suoi Dei»[1], Scurau vuole essere uno dei possibili ingressi.
[1] È l’ultimo verso della poesia Code alle cose successe ecc., nell’ultima sezione di Trasumanar e organizzar (Garzanti, 1971) di Pier Paolo Pasolini.
[Immagine: Massimo Rosso, Tre lupi su cervo daguet]
Piaciuti i testi, immagini potentissime e quasi bibliche, dove l’io non si manifesta, ma non per moda post-moderna, poichè è insita in questi testi una grande narrazione, una presa in carico, una visione di mondo, un rischio del dire. L’io non si manifesta per coagulare nel messaggio ancora più forza, ancora più lucida analisi. Acutissima anche la nota critica (e come poteva essere altrimenti, vista la firma?)