di Marco Nicastro

 

Ciò che può aver colpito profondamente un osservatore del dibattito giornalistico-politico sul cosiddetto ddl Zan (o legge contro l’omotransfobia) è la contemporanea presenza da un lato dei soliti toni accesi, polemici e urlati che caratterizza buona parte dei dibattiti politici che si tengono sui nostri media da molti anni a questa parte, dall’altro lo scarso livello culturale-intellettuale o la malafede che trasudava dalle discussioni (spesso con la complicità dei conduttori dei programmi), evidente dal fatto che nessuno si è mai sognato di leggere in diretta gli articoli contestati del disegno di legge ed esprimere in modo argomentato e preciso le proprie opinioni contrarie proprio sul contenuto di quegli articoli. Si è sempre parlato per partito preso, sostenendo posizioni vaghe e ideologiche che andavano dalla difesa della famiglia e dei valori tradizionali, a quella dell’integrità dei bambini o dell’indipendenza delle scuole, fino a paventare la riduzione della libertà, sancita dalla Costituzione, di poter esprimere le proprie opinioni. Nel marasma di idee così polarizzate, i conduttori televisivi (anche giornalisti) spesso avevano il solo compito di regolare lo scambio, a volte di fare qualche battuta per accenderlo ulteriormente, ma peggio ancora di questo c’era forse l’assoluta insipienza di chi era chiamato di volta in volta a difendere il disegno di legge (un esponente della cosiddetta sinistra), incapace di scendere nel dettaglio del disegno di legge (che consta di pochi articoli) come se non lo conoscesse o non l’avesse adeguatamente studiato.

 

Ebbene, dinnanzi a tanto degrado culturale e politico (è solo uno degli ultimi esempi), ho sentito l’esigenza di prendere in mano il disegno di legge e cercare di riflettere sugli articoli contestati dal centrodestra (il primo, il quinto e il settimo) per capire cosa ci fosse di fondato nelle e cosa invece fosse propaganda se non pura menzogna.

Il primo articolo del ddl Zan è quello che definisce e distingue i termini di “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” e “identità di genere”. Le definizioni sono chiare, razionalmente condivisibili, e tra l’altro ricalcano quelle che vengono date in molti manuali di medicina o di psicologia/psichiatria. Sembra in particolare che la nozione più contestata nell’articolo sia quella dell’identità di genere. Nel ddl Zan è scritto che si intende per identità di genere “l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”. Significa che l’identità anche sessuale, nell’uomo, è cosa diversa dalla biologia e che una persona può riconoscersi o meno, può sentirsi a proprio agio o meno da un punto di vista psicologico in un certo corpo (sesso biologico) o in un certo genere sessuale (ruolo di maschio/femmina per come li apprendiamo nel corso della socializzazione). Non c’è nulla di strano o di assurdo in questa definizione, è semplicemente la constatazione di quanto a volte accade nello sviluppo del singolo individuo in base alle sue dotazioni genetiche e vicissitudini evolutive ed educative. Da alcune dichiarazioni di esponenti del centrodestra trapela che il timore legato a questa definizione potrebbe essere quello di riconoscere come normale un’identità sessuale non coincidente col proprio sesso biologico, che in pratica si possa stabilire un’equivalenza naturale tra chi è e si sente coerentemente al proprio sesso biologico e chi invece non si sente psicologicamente coerente col proprio sesso biologico. Sottostante a questa idea vi è quella di stampo religioso che l’identità di genere (ma anche l’orientamento sessuale) può essere solo coerente col proprio corpo e solo maschile o femminile, e che tutto il resto è deviazione morale o patologia, concezione che in parte è stata sconfessata dalla medicina a partire dal 1990 quando fu tolta la categoria dell’omosessualità (l’attrazione sessuale verso individui dello stesso sesso) dalle categorie patologiche dei principali manuali diagnostici internazionali dei disturbi mentali.

 

Certo, la stessa Chiesa cattolica ha sdoganato in parte l’omosessualità, accettandola come inclinazione sebbene non come comportamento (nella la sua messa in atto). Tuttavia, si può capire bene come da un punto di vista teologico un conto sia accettare o meno come normale un comportamento (che per sua natura è più controllabile e che comunque può essere sempre “perdonato” con la confessione), un conto è accettare una trasformazione di identità rispetto al corpo, un processo certamente più intimo e radicale che va conto l’apparenza naturale stessa del proprio corpo.

In ogni caso, se proprio si volesse andare per il sottile, la legge Zan non si esprime direttamente sulla normalità o meno di una tale condizione (quella cioè di chi crescendo non si riconosce nel proprio sesso biologico e quindi sviluppa un’identità di genere differente), ma solo sul suo riconoscimento come condizione esistente, al fine di giungere all’obiettivo dichiarato ed espresso nel suo titolo ovvero il contrasto della discriminazione fondata su varie forme di diversità (sesso, orientamento sessuale, identità di genere appunto, ma anche, meritoriamente, disabilità).

 

Quindi è come se nella legge si dicesse: l’identità di genere è un fenomeno complesso e nella realtà, a tutte le latitudini, c’è chi non si riconosce nel proprio sesso biologico. Indipendentemente dal fatto che ciò sia considerato normale o meno (si possono avere opinioni diverse in merito, ci si ritornerà a breve parlando dell’articolo 5), è una cosa che va accettata e non può essere motivo di discriminazione nella società. Del resto ci sono varie condizioni di diversità che coincidono con gravi patologie (come la tossicodipendenza o la grave malattia mentale) che pur costituendo “anormalità” riconosciute rispetto ad uno standard minimo di salute mentale condiviso, e pur essendo condizioni numericamente più consistenti rispetto a quella di chi non si riconosce nel proprio corpo, non sono diventate nel tempo oggetto di specifica discriminazione e odio sociale. Questo a testimonianza del fatto che verso le “minoranze sessuali” (mi si passi l’espressione) si è verificata e si verifica tuttora una specifica opera di inibizione, di repressione sociale e a volte di aggressività verbale se non di odio che merita di essere presa in seria considerazione.

Nessuna obiezione logica quindi può essere mossa al concetto di identità di genere, che è definito in modo non ambiguo nella legge ed che serve a riconoscere una realtà di fatto e a farla rientrare all’interno del cappello protettivo di una legge senza alcun tentativo diretto di normalizzazione (sebbene alcuni ritengano che sia perfettamente normale anche non riconoscersi nel proprio sesso biologico) [1].

 

Il secondo articolo contestato è l’articolo 4, intitolato “Pluralismo delle idee e libertà delle scelte”.

È un articolo brevissimo, che recita: “Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compi-mento di atti discriminatori o violenti.”.

 

Chi lo contesta afferma che mette in discussione la libertà di opinione sancita dalla Costituzione. Analizzandolo parola per parola, si può pensare che in effetti si sarebbe potuto spigare e chiarire un po’ meglio il confine tra ciò che è permesso dalla legge è ciò che non lo sarebbe. Tuttavia mi sembra che i dubbi possano essere fugati da un lato considerando che viene esplicitamente e fin dall’inizio fatta salva la libertà di opinione; dall’altro che il discrimine è fissato nell’ultima frase, in particolare attraverso l’espressione “determinare il concreto pericolo”. In base a questa espressione, tutte quelle idee che si mostrano come chiaramente capaci di spingere altri a discriminare o commettere atti violenti non sono ammesse. Ma come si può capire se un’idea è capace di discriminare (e spingere altri a discriminare) o no? Innanzitutto se il rischio, come si dice nell’articolo, è “concreto”, ossia se già ci sono delle situazioni reali che possono far pensare ad una situazione di pericolo di discriminazione o violenza; oppure se le opinioni sono chiaramente connotate in senso spregiativo e discriminatorio o intrise d’odio; oppure infine e credo sia il timore maggiore dei nostri politici se chi le esprime ha una visibilità e una possibilità di convincimento tale da poter più facilmente influenzare delle persone a commettere atti violenti. Un conto è la situazione in cui il singolo individuo, magari sconosciuto ai più, afferma un’idea, anche caratterizzata in senso un po’ discriminatorio, tra poche persone e in modo estemporaneo; altro conto è la persona che gode di un certo seguito e di una certa capacità di influenzamento per il suo ruolo pubblico e che la afferma usando la grande possibilità di divulgazione e ripetizione garantita dai media tradizionali e dai social.

 

Affinché si dia, il pericolo di discriminazione e di violenza deve quindi essere chiaramente determinato da quelle frasi (si deve cioè poter stabilire un nesso tra quanto detto e le conseguenze negative che eventualmente ne scaturiscono), e deve essere “concreto”, cioè evidente, materiale, facilmente intuibile in base ad esempio al modo o al contesto in cui certe affermazioni vengono fatte. È difficile dunque immaginare come, indipendentemente da chi le pronunci, delle opinioni argomentate e sufficientemente neutre nei toni possano costituire delle frasi punibili.

Altro articolo del ddl che a volte viene criticato in parte collegato al precedente è l’articolo 5.

Chi lo contesta ritiene che metta in pericolo la libertà di opinione. In realtà in esso nulla si evince in tal senso, se non un ampliamento del reato di discriminazione già punito dalla legge n. 205 del 1993 (per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi) verso le categorie definite dal ddl all’art. 1 (sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità). Inoltre, non viene punita solo la discriminazione attiva, ma anche la propaganda e l’istigazione alla discriminazione (con un richiamo esplicito all’articolo 604 bis del codice penale) oltre che l’associazione e la partecipazione ad attività con scopi di propaganda e incitamento alla discriminazione. Riprendendo il testo del suddetto articolo del codice, la propaganda che verrebbe punita è intesa come il “diffondere idee fondate sulla superiorità o sull’odio”.

 

Da quanto scritto nel ddl Zan, così come dire e diffondere in diversi modi idee sul fatto che una certa etnia è inferiore ad un’altra può costituire reato, o che una certa etnia merita disprezzo ecc., col rischio che tali idee incitino altri a fare altrettanto o a metterle in pratica, allo stesso modo verrebbe punita la diffusione di idee di superiorità di un sesso su un altro o l’idea che sia giusto discriminare individui per l’orientamento o l’identità di genere. La legge Zan quindi, come quella del 1993, punisce la diffusione pubblica di idee intrise di odio e l’incitamento a discriminare o a commettere violenza su determinati individui o gruppi di individui in qualità di esseri inferiori, ma non punisce affatto chi esprime un’opinione circa, ad esempio, la natura dell’omosessualità, le sue cause, se sia giusto o meno permettere le adozioni a persone dello stesso sesso, o anche l’idea di normalità o meno della condizione in cui l’identità di genere è percepita diversamente rispetto alla propria identità biologica.

 

Credo che l’astio verso questa legge nasca dal fatto che alcuni politici italiani (e diversi giornalisti) vogliano garantirsi la libertà di diffondere tramite media e social idee di superiorità più o meno velate della condizione eterosessuale rispetto alle altre condizioni di genere, attraendo i voti di una parte, non si sa quanto minoritaria, del mondo cattolico ma anche di gruppi/associazioni di individui con idee estremiste in vari ambiti, tra cui quello della famiglia e della morale sessuale.

D’altronde in ambito giuridico la definizione di “istigazione” è chiara e comprensibile; con essa si intende l’incitamento o qualunque tipo di azione, anche verbale, che possa indurre altri a diffondere idee o commettere certi atti non permessi dalla legge, esercitando in qualche modo una pressione o uno stimolo sulla loro psiche o sul loro comportamento, rafforzando quindi intenti presenti in loro o affievolendo le loro capacità inibitorie. Così come è chiara la definizione di “propaganda”, come “attività di persuasione circa l’utilità e la necessità di un dato contegno, tale da assumere un notevole grado di intensità ed efficacia” [2].

 

Certamente, considerata la pervasività e l’aggressività delle comunicazioni di alcuni dei nostri politici e giornalisti a livello mediatico e sul web, nonché la facilità con cui vengono lasciate andare un po’ a caso parole e frasi intrise di aggressività, di disprezzo, e a volte di odio verso persone o situazioni, si può capire come una norma del genere possa far paura, perché impone nelle modalità di comunicazione su questi temi un rigore e un’attenzione fin qui spesso disattesi. Usando certi toni infatti, a volte sprezzanti, altre volte solo fortemente critici ma sempre volutamente polemici su certe tematiche, o non prendendo posizioni nette quando si verificano fatti di violenza verbale o fisica verso determinate minoranze, non si può far finta di non capire come certe affermazioni di un politico, quando diffuse e insistenti possano configurarsi, per singoli individui o gruppetti di esagitati, come un incitamento alla discriminazione.

In base a quanto detto dunque, la legge Zan mira solo ad ampliare il concetto di uguaglianza e di dignità sostanziale della persona, garantito grazie alla legge del 1993 alle minoranze etniche, politiche e religiose, anche a chi appartiene a “minoranze sessuali” o è in condizioni di disabilità attraverso una repressione dell’incitamento o dell’effettiva discriminazione.

 

Per quanto riguarda infine l’articolo 7 del disegno di legge, esso istituisce la Giornata nazionale contro l’omofobia e la transfobia, “al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei principi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione”.

Nella parte finale dell’articolo, ed è questa mi sembra quella più contestata, si dice che in occasione di quella giornata, al fine di promuovere l’inclusione e la cultura della non-discriminazione, le scuole, nel rispetto del Piano dell’offerta formativa e del patto di corresponsabilità (documento educativo con diritti e doveri reciproci sottoscritto con le famiglie) provvedono a organizzare delle attività finalizzate appunto agli scopi inclusivi e di contrasto alla violenza della legge. Nessun corso di educazione gender nelle scuole quindi (qualunque cosa ciò voglia dire), né alcun obbligo degli istituti scolastici a fare attività (lo ricordiamo, previste dal ddl solo in quel giorno specifico) che non siano collegialmente pensate e condivise, negli scopi generali, sia tra insegnanti che con le famiglie. Si tratterebbe di attività, è possibile immaginare, di tipo informativo ed educativo, volte alla riflessione e all’approfondimento di certi temi (ovviamente con un linguaggio e con concetti adeguati all’età degli alunni) e finalizzate ad aumentare nei bambini/ragazzi la conoscenza e quindi la comprensione e la tolleranza della diversità, in una società sempre più sfaccettata e complessa come quella di oggi. Si può immaginare che le scuole non interverranno con contenuti troppo conflittuali o difficili da comprendere per chi, data l’età, non è troppo avvezzo alla materia, né tanto meno cercheranno di fare proselitismo su certi temi come invece in Italia ha sempre tentato di fare la Chiesa, anche nelle istituzioni laiche o di instillare convinzioni del tipo “transgender è bello”. Le stesse scuole paritarie saranno libere di declinare le attività proposte in quella giornata in un modo consono al loro Piano dell’offerta formativa, senza che si possa pensare ad obblighi contenutistici particolari (purché ovviamente non discriminatori e scientificamente fondati). Né si può realisticamente pensare che attività varie proposte un giorno all’anno possano stravolgere le menti dei bambini o l’orientamento educativo di fondo di una scuola. Per non dire che dedicare qualche ora in un anno all’approfondimento di queste tematiche e a diffondere una cultura del rispetto di queste diversità sia più importanti di molti progetti portati avanti solo formalmente e senza una solida base scientifico-cultuale nelle nostre scuole [3]. Senza contare poi che trattare questi temi, e in generale quello delle diversità nella società odierna, è qualcosa di molto attuale e perfettamente in linea con quanto si chiede alla scuola da anni, cioè di stare al passo coi tempi, di avvicinare lo studio teorico a questioni concrete e reali significative per la vita degli alunni, oltre che di migliorare le competenze civiche degli alunni. E del resto lo scopo finale della legge, ossia lavorare sull’inclusione della diversità, è uno degli obiettivi principali che le direttive europee sull’istruzione si sono date da tempo e che non credo le scuole italiane faranno fatica a recepire, visto che già da diversi anni sono particolarmente impegnate in termini di progettualità e attenzioni rivolte agli alunni più fragili.

 

In conclusione possiamo dire che nessuna delle critiche mosse alla legge Zan sembra realmente fondata e il fatto che dei giuristi non si siano pubblicamente espressi in tal senso, almeno per quanto riguarda la parte relativa alla libertà di parola, è un segno chiaro a mio avviso del carattere pretestuoso delle rimostranze. Tra le altre cose una modifica del ddl, come si sa, porterebbe a ricominciare daccapo l’iter di approvazione in Parlamento (a distanza di 8 mesi dalla sua approvazione alla Camera), col rischio di affossare definitivamente la legge (visto che i punti contestati sono diversi), almeno in questa legislatura.

Sicuramente il ddl Zan metterebbe alla pari l’Italia con molti altri paesi europei a livello di protezione giuridica di queste minoranze, ma probabilmente il risultato più grande a lungo termine sarebbe quello di attivare un percorso di accettazione e maggiore inclusione della diversità sessuale fin dalla giovane età. Infine, spingerebbe probabilmente quella fazione più populista dei politici e dei giornalisti italiani non dico ad argomentare partendo dai contenuti (cosa impossibile, lo vediamo continuamente) ma almeno a moderare il linguaggio per evitare di commettere dei reati. Ciò ovviamente non significa limitare la libertà di espressione ma al contrario responsabilizzarla (specie quando si ricoprono cariche pubbliche), per la dignità della funzione ricoperta ma soprattutto per la protezione di tutte le minoranze e il mantenimento dell’ordine sociale.

 

*

Note

 

[1] Il DSM-5 (uscito nel 2013), il più usato manuale diagnostico dei disturbi mentali, dopo le varie edizioni susseguitesi nei decenni, le ultime delle quali non hanno più incluso, come detto, l’omosessualità tra le psicopatologie, riconosce ormai come categoria patologica solo la “Disforia di genere”, ossia la forte sofferenza soggettiva sperimentata dalla persona relativamente alla discordanza tra il genere biologico e l’identità di genere percepita, tanto da portare ad un’insoddisfazione costante di sé e al desiderio di cambiare i propri connotati sessuali.

Per il manuale diagnostico americano quindi è solo la sofferenza per la non accettazione del proprio corpo sulla base di una discordanza percepita rispetto alla propria identità di genere a costituire un problema psicopatologico, e non di per sé la presenza di un’identità di genere discordante rispetto al proprio sesso biologico (o assegnato).

 

[2] Per i vari riferimenti giuridici qui contenuti, si veda il sito www.brocardi.it

 

[3] Per sottolineare questa deriva, c’è chi ha definito polemicamente la scuola italiana di oggi un “progettificio”, che presta attenzione più all’implementazione di progetti, alla loro quantità quindi, che alla loro sostanza e valenza formativa.

8 thoughts on “Falsità e demagogia intorno al DDL Zan

  1. Analisi condivisibile.
    Aggiungo che il dossier del Servizio Studi del Senato sul ddl conferma tutti questi punti, e in particolare la distinzione chiara, in giurisprudenza, tra libera espressione di opinioni e istigazione alla discriminazione o alla violenza, nonché il fatto che i concetti di “genere” e “identità di genere” sono già presenti nella legislazione italiana ed europea.

  2. Al di là di tutto, mi lascia dubbioso l’idea che tutto sia normabile e da normarsi attraverso una legge. Anche se con nobili fini. In Scandinavia hanno legiferato vietando i ritocchi con Photoshop, allo scopo di impedire che le immagini di corpi artificialmente perfetti scatenassero disagio in chi il corpo ce l’ha imperfetto. Ma non era meglio diffondere la consapevolezza che le immagini patinate sono largamente tarocche? Per molti aspetti del Ddl Zan vale lo stesso discorso. Le mentalità non si cambiano con le leggi e con i codici, a meno che non esistano leggi che vanno in senso contrario, ma non mi sembra questo il caso. Una mentalità favorevole all’unificazione europea è stata creata legiferando e minacciando sanzioni agli euroscettici? Per fortuna no.

  3. Bella e chiara esposizione, non avendo tuttavia finora riflettuto abbastanza sulla cosa ( colpa mia) approfitto del blog e dell’estensore del pezzo per chiedere: sostenere che per l’adozione eventuale di un bambino una coppia composta da uomo e donna sia preferibile a una coppia uomo/uomo o donna/donna ( in senso biologico-sessuale) è opinione liberamente consentita o è incitamento alla discriminazione e quindi in prospettiva sarebbe vietato per legge dal ddl Zan? A me parrebbe questa seconda opzione, qualora la preferenza si giustifichi in termini, appunto, biologico-sessuali, ovvero a favore della coppia eterosessuale, sottintendendo quindi un atteggiamento implicitamente omofobo.

  4. No, purtroppo, no. I giuristi si sono espressi e il problema è proprio lì: nel giuridico. Si tratta di un testo di legge inapplicabile perché le categorie giuridiche che presenta sono inattuali e non corrispondono a nessun comportamento che possa definirsi concreto. Se si analizza a fondo dal punto di vista giuridico ci si accorge che è un testo contraddittorio. Se ciò è bene per i testi creativi, per i testi giuridici è un problema: si mina, in sostanza la certezza del diritto.
    Consiglio il seguente testo.

    https://blog.ilcaso.it/news_1122/06-07-21/aTECNICA_legislativa_e_conflitti_culturali_nel_%E2%80%9CDDL_ZAN%E2%80%9D

  5. Si apprezza la volontà di essere solidali con gli alphabet people ma pare proprio che ad ogni ostacolo l’articolo ci giri regolarmente intorno.
    Se poi il modello è la Svezia, be’ sappiamo che non solo “trasgender è bello” è insegnato già all’asilo (per me nessun problema) ma che si è arrivati a censurare il sesso dei bambini, sempre all’asilo, per evitare “biais” educativi (più problematico direi).
    A parte questo temo che legge o non legge, tutte le polarità che il politicamente corretto vuole evitare finiranno comunque per accentuarsi.
    A questo proposito sarei curioso di conoscere i dati degli atti omofobi nei vari paesi. Non escluderei sorprese.
    Per esempio nei paesi mediterranei il linguaggio mediatico sulla popolazione di origine araba è mediamente meno “corretto” che nei paesi nordici, eppure la percentuale di popolazione di origine araba partita a aggiungere l’ISIS è ben più alta nei paesi nordici. Una legge non fa una società.
    Sarebbe bello, infine, se invece di tirare in ballo sempre la Chiesa in quanto a curriculum omofobo si citassero la scienza e le sue varie branche. Anche qui manca un po’ di coraggio intellettuale e si tira sempre sullo stesso piccione.

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