di Pietro Pascarelli
Carmen quella mattina aveva fame, e voglia di cose sfiziose.
Aveva visto gli angeli, quella notte, angeli metropolitani che sanno tutto del traffico, dei posti malfamati, dei brutti incontri, dei cattivi soggetti, dei posti sicuri, dei bar coi bagni puliti, delle farmacie di turno, dei locali giusti, dei fiorai e delle poche chiese sempre aperte col loro deserto semibuio perforato da puntini giallastri, da lampi viola e bianchi.
Angeli in borghese venuti a proteggerla; e con loro era andata a spasso per una misteriosa città piena di luci, di uomini, percorsa ovunque da un rumore sordo che sembrava il verso baritonale di un animale preistorico, di uno di quegli enormi rettili vegetariani che si vedono nei libri, nei film e nei musei. Aveva ballato per ore, contro un cielo giallo e rosso come un incendio, che poi divenne blu.
Un blu che dilagava su tutta la notte e la pianura, ma in città si perdeva in mezzo alle case e ai palazzi coperti da insegne al neon gialle, verdi, rosse, bianche, viola, e perfino nei giardini inghiottiti dal più profondo e lussurioso nero, negli androni maleodoranti degli edifici, nei bar dai banconi lunghissimi tutti nichel e specchi, sormontati da file variopinte di bottiglie di ogni forma e dimensione, annegate in una specie di via lattea al neon, e nelle hall degli alberghi dove la luce cinica si attenuava assorbita da stoffe e legni, carte e gessi, e livide piante non più verdi.
Uno degli angeli somigliava a Elvis Presley con una capigliatura bruna tutta brillante sui lati e non faceva che sorridere a ogni volteggio, e il suo movimento generava una brezza fresca e profumata che deliziava e invitava a continuare all’infinito. Poi erano comparse delle sue amiche, ridevano e facevano moine da smorfiose guardando i suoi angeli, che a loro parevano uomini normali, e per giunta assai simpatici. Erano tutti saltati su spider bianche che aspettavano ed erano partiti nella notte con un sibilo e una scia rossa alle spalle e la musica delle autoradio ad alto volume. Nel viaggio, cosa strana, a un tratto era cambiata la scena. Non c’erano più le amiche, né la radio, gli angeli erano seduti silenziosi davanti, e lei dietro sfogliava un libro piccolo e bianco, su cui affioravano righe color limone ma ciononostante ben leggibili. Aveva come delle rivelazioni dalla lettura, di cui si esaltava perché la facevano sentire prescelta per una grande impresa.
Le piacevano le pietanze calde e saporite delle sue parti, nel meridione, ed era là in realtà che sempre abitava con la mente anche nei lunghi mesi di lavoro e studio in città. Non che non partecipasse, o non le piacesse la città e l’ambiente in cui si trovava, anzi, e proprio per godersi al meglio la situazione con le sue opportunità, doveva poter intuire, capire e orientarsi con una mappa sicura. Filtrava tutto quel che le veniva detto nella lingua ufficiale traducendolo nel suo dialetto. Solo così, in presa diretta con la sua lingua madre, riusciva a capire bene cosa davvero volesse dire o cosa volesse da lei chi le parlava, chi l’avvicinava, chi le richiedeva o le dava qualcosa. Solo la sintesi del dialetto perforava la crosta dei formalismi e delle ipocrisie e le dava l’esatta percezione delle cose. Solo certe parole, certi suoni, le davano un piacere pieno perché andavano oltre i concetti astratti e davvero rappresentavano ciò che aveva desiderato e cercato, o rivelavano trappole e malcelati pericoli. Solo così sentiva se aveva davvero raggiunto le persone e le situazioni che aveva voluto, solo così si facevano concrete le sue conquiste, il risultato delle sue fatiche, e venivano bandite le sue paure.
Le piacevano più di tutti certi piccoli spizzichini semplici ma deliziosi, come pane e olio, pane e noci, pane e uva, e nella bella stagione alici e cipollecchie, altrimenti dette sponsali, tenerissimi benauguranti piccoli bulbi colti sul nascere, amati dai contadini e dai paesani. Sì, in qualche modo mangiare per lei è un rito che discende da una scuola di sapienzialità cosmica, è una traccia da seguire, e fa rivivere l’affetto per chi le ha fatto conoscere un frutto, un piatto, un segreto della cucina, un modo di manifestarsi del tutto.
Quasi non è mangiare, assaggiare certe cose, ma è come un pensare, un creare qualcosa come può fare un poeta, un pittore o un musicista, svolgere un’attività dello spirito che si serve di piste apparentemente terragne e crude.
Mangiare cipollecchie e alici presuppone una filosofia pitagorica per il colpo di genio che la inventa, e “parigina” per il fatto di saperla apprezzare e di procurarsi gli ingredienti giusti. Ci vuole roba freschissima, e di prima qualità. È per questo che I parigini amano fare la spesa tutti i giorni nei mercatini.
In primo luogo però la mentalità: aperta, disinvolta, sensibile, non provinciale. Per gustare sponsali e alici bisogna avere qualità e personalità speciali, che presuppongono quanto segue.
Di saper distinguere se si sta camminando su un’ipotenusa o su un semplice acciottolato, e di immaginare e riconoscere l’odore di una mattina in città con la rugiada della notte sulle piante e sui parabrezza, sull’asfalto grigio e sui sampietrini con la testa levigata e tondeggiante per l’usura; di sentirsi a casa fra le pieghe disinvolte di certi vestiti femminili, fra i passi celeri che ventilano i pantaloni maschili, il profumo di carta che esce con arie musicali da una libreria col suo anziano proprietario alle prese con una perdita d’acqua da un tubo vetusto. Un uomo che domina serenamente la scena in cui siete anche voi, innocenti e ignari viandanti, che non perde la calma né il buon umore e non si scoccia se gli chiedete di un libro introvabile, nemmeno in quel momento. Certi uomini e donne in cui ci si imbatte sono un’Istituzione dello spirito e della civiltà metropolitana, come l’università secolare, le edicole e i chioschetti dei fiorai nell’ombra fresca, le rotaie del tram e le salite improvvise, tutti i simboli di una cultura e di un’atmosfera vitale che entra nella scorza scura degli alberi sui viali come nella pelle liscia della gioventù colorata che è in giro già di buon mattino. Mentre nell’aria si alternano il silenzio e le voci, e negli occhi si intravvede la luce di una ricerca perpetua, una forza che spinge gli esseri umani a incontrarsi, conoscersi, diventare l’amore di un altro.
Di saper immaginare la scena campestre: l’estensione di un altopiano ventoso in cui si diventa piccoli come formiche, come fiorellini di quell’origano che si è andati a cercare a luglio: selvaggio, arcano, interminabile piano celeste, un manto verde di Dio che interroga sull’indeterminato, su quel che sfuggì alla geometria euclidea. Quella sconfinata prateria è una mente dispiegata su cui rombano gli zoccoli del cinghiale, su cui spuntano funghi ed erbe per capre e conigli, su cui gira un’aria che piano inebria e confonde, facendo a gara in potenza con la violenza della speranza e della solitudine.
Di saper riconoscere senza esitare un sorriso fidato in mezzo a quelli degli imbroglioni, e piccoli passi eleganti sui tacchi in avvicinamento, di saper notare occhi seminascosti dal piacere di incontrarvi, di non spaventarsi per le domande che si affollano prima dell’incontro, col cuore che batte, il sole negli occhi. Mirare al centro delle visioni, scegliere un punto per cominciare a collegarsi, a mettersi nei panni dell’altro, e capire cosa vuole da noi, e noi da lui, chi siamo per lui. Sapendo che con calma arriveranno le idee e le parole giuste, da un punto sconosciuto dentro di noi.
Carmen aveva idee chiare.
Poi le alici. Ci vogliono quelle grosse, atlantiche o di Sicilia, dalle carni piene e rosate, ben stagionate, belle da guardare e da annusare, come le scatole in cui sono conservate, dai colori accesi. Hanno un sentore di spezie mediterranee e di qualcosa di saporito come la mortadella, o di un salume ancora sconosciuto, e sono così orgogliose di esserci, così prive di complessi di inferiorità rispetto a pesci e altri cibi più ricercati e costosi, da ispirare immediata simpatia. Quel loro aroma produce visioni: case, spiragli di luce oltre una porta chiusa nel sole del pomeriggio, unghie smaltate di rosso, canzoni e capelli come seta fra le mani.
La cipollecchia va raccolta con comodo, al sole del primo mattino, turgida ma intenerita dal tepore, e pronta a elargire sottilmente le sue esalazioni. La cipollecchia, si badi bene, non la cipolla grande, troppo piccante per abbinarsi con le acciughe, troppo coriacea, troppo una natura morta col suo lucore un po’ triste e astratto, non partecipe, senza malizia, semmai stanca, e rassegnata a finire in uno stufato per delle ore. Ci vuole lo sponsale intrigante e frivolo, dal gambo lungo e tenero, prensile e bello da acchiappare e toccare nell’integrità delle sue tuniche biancoverdi. Se spogliato di queste, lo sponsale è inafferrabile, cosparso com’è di una specie di olio invisibile. Sul biancore delle sfoglie tagliate si espande delicata la goccia di olio e aceto, a cui si abbarbicano foglioline di menta e il sale, fino all’incontro con le alici, col pane e il vino freddo.
Cose che piacciono al poeta e all’aviatore, e anche alle signorine emancipate. A chi si innamorò una volta al cinema, e uscì con la testa un po’ intronata dallo spettacolo di metà pomeriggio. A chi avvolge nel giornale mazzi di fiori, e sa a chi portarli. Ma dopo un caffè. E va poi, memore ancora di quegli intensi sapori, verso un cristallino aperitivo dagli occhi rossi o verde smeraldo.
[Immagine: Abelardo Morell, Tent-Camera Image on Ground – View of Monet’s Gardens with Gardener, 2015].