di Valeria Flamini e Marco Grimaldi

 

[Quarant’anni fa, la sera del 31 luglio 1981, Carmelo Bene legge Dante dalla Torre degli Asinelli di Bologna].

 

Ho dedicato questa mia serata, da ferito a morte, non ai morti ma ai feriti dell’orrenda strage.

(Carmelo Bene)

 

1. Nell’anno di Dante, a settecento anni dalla morte, c’è un altro importante evento dantesco da commemorare. A Bologna, il 31 luglio 1981, Carmelo Bene, allora al culmine della popolarità, pronuncia dal primo balcone della Torre degli Asinelli la sua celebre Lectura Dantis (audio e video si trovano facilmente sul web; esistono poi un dvd e un audiolibro; su Raiplay c’è la reinterpretazione che ne fece lo stesso Bene nel 1997). Ed è l’anniversario di un anniversario. Per commemorare la strage di Bologna (2 agosto 1980), il Comune di Bologna, guidato dal sindaco Renato Zangheri, aveva deciso di organizzare una manifestazione internazionale dal titolo Stop Terror Now. Migliaia di giovani provenienti da ogni parte di Europa affollano la città per quattro giorni. Ci sono comizi, concerti, spettacoli. «Per la verità della strage», «Bologna vuole parlare a chi non dimentica», titola il 30 luglio, in prima pagina, L’Unità. E l’evento è così descritto: «Arrivano. Scendono dai treni, passano davanti alla “breccia” che, nell’ala ricostruita della stazione, ricorda il punto dove esplose la bomba, e si incamminano per la città, passeggiano all’ombra dei portici. Sono come te li aspetti: jeans, zaino e sacco a pelo. I giovani, insomma» (M. Cavallini). Sempre in prima pagina Achille Occhetto difende la scelta «di una grande manifestazione di vita e di impegno», che avrebbe «contribuito a rompere il terribile e colpevole silenzio di piombo […] calato sulle richiesta di giustizia dei familiari e della città di Bologna», «al posto della via stanca della ritualità ufficiale e del solo “silenzio suonato”» (La risposta più civile e umana al terrorismo).

 

Ma il momento culminante della manifestazione è lo spettacolo di Carmelo Bene, che genera contrasti ancor prima di andare in scena. A metà luglio il capo del gruppo democristiano del comune di Bologna dichiara che il partito non parteciperà alla celebrazione affidata a Bene, «essendo costui un “pagliaccio”, un “istrione”»; mentre «i cosiddetti moderati temono che tutto abbia a risolversi in una specie di kermesse, tipo una festa dell’Unità» (La Stampa, 14 luglio 1981, p. 1). Si polemizza sul compenso dell’attore, sulla scelta dei canti, sull’eventuale uso politico di Dante in funzione anti-bolognese, sulla diretta Rai che doveva esserci e che non ci fu, e Carmelo Bene nei giorni precedenti non fa nulla per evitare la disputa, cercando tuttavia di tenersi lontano da ogni tipo di interpretazione superficialmente politica. La lettura dantesca accompagna quattro giornate di conferenze e dibattiti contro il terrorismo, eppure, secondo Bene: «Quando vogliamo organizzare congressi contro il terrorismo siamo terroristi; «il terrorismo attivo è lusingato dai convegni, dal divismo dei teleschermi elettrodomestici; chi lo lusinga? chi promette al cittadino italiano ed europeo di stroncarlo». I giornali parlano soprattutto dei giovani che affollano le piazze; ma Bene dichiara: «Detesto questa sfrenata rincorsa ai giovani»; «Ho fiducia nella sfiducia dei giovani».

 

2. Poi, la sera del 31 luglio, Carmelo Bene legge dieci frammenti danteschi: otto estratti da altrettanti canti della Commedia, intervallati dalle musiche di Salvatore Sciarrino, e due sonetti (Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io e Tanto gentile e tanto onesta pare). Non è una lettura filologica né didattica. Non ci sono introduzioni, commenti o spiegazioni. C’è solo la voce di Bene, amplificata e diffusa in tre piazze cittadine affollatissime da un imponente impianto sonoro (quarantamila watt, riportano i giornali): «Immobile e irrigidito dietro un piccolo leggio, remoto e severo nella tenebra spezzata da pochi riflettori»; «quella voce trasportata da cavi e ponti radio, quella voce scorporata e quasi fantasmatica costituisce l’impressione più netta, ed anche più inquietante, dell’intera serata» (R. Palazzi, Corriere della Sera, 2 agosto 1981). Ma Bene non recita, come si temeva, le invettive contro i “democristiani” che sarebbero state suggerite dal sindaco Zangheri, vale a dire i passi sui «frati godenti», i bolognesi Catalano de’ Malavolti e Loderingo degli Andalò condannati all’Inferno tra gli ipocriti.

 

Il primo frammento è tratto dal quinto dell’Inferno (76-142), dal momento in cui Virgilio invita Dante a rivolgersi a Paolo e Francesca fino allo svenimento del protagonista che chiude il canto («E caddi come corpo morto cade»). Poi c’è Inferno, XXVI 76-142, dalle prime parole di Virgilio verso la fiamma «cornuta» di Ulisse e Diomede fino alle acque che si richiudono sul naufragio. E ancora Inferno, XXXIII 1-84: tutto l’episodio di Ugolino con in coda l’invettiva contro Pisa («Ahi Pisa, vituperio delle genti»). Fin qui, come si nota sul Corriere della Sera del 2 agosto, Bene ha letto «brani sin troppo canonici». Ma non è vero che dopo Paolo e Francesca, Ulisse e Ugolino si passi semplicemente «a un personalissimo dialogo “col dio assente” nelle atmosfere rarefatte del Paradiso». Tra l’Inferno e il Paradiso c’è il Purgatorio, e la selezione di Bene è degna di nota. Dall’apostrofe a Pisa, infatti, si passa immediatamente, dopo pochi secondi di musica, all’invettiva forse più celebre di tutto il poema, nel sesto del Purgatorio, dove l’incontro tra i due mantovani Sordello e Virgilio scatena l’ira di Dante contro la «serva Italia». Bene sussurra appena i versi in cui Sordello si presenta al poeta latino (74-75) e pronuncia poi fino alla fine il canto, dove Firenze è paragonata a «quella inferma / che non può trovar posa in su le piume, / ma con dar volta suo dolore scherma» (149-151). Si passa quindi al canto VIII del Purgatorio, con soli 36 versi che descrivono la discesa dei due angeli che nella valletta dei principi scacceranno il serpente, simbolo del peccato o, più precisamente, della cupidigia. Bene legge quindi il frammento più ampio della lectura, dal canto XXIII del Paradiso, «il primo dove si tenti la rappresentazione diretta del divino a misura di un intero canto», «il vallo divisorio […] tra il visibile e l’invisibile, tra l’umano e il divino» (Chiavacci Leonardi). E a questo punto ci sono sì le “atmosfere rarefatte” del Paradiso e c’è forse anche il dialogo «col dio assente». Ma subito dopo il dio assente si fa giudice – giudice implacabile – per bocca di san Pietro. Bene prosegue infatti con Paradiso, XXVII 1-66, dove l’invettiva dantesca contro la Chiesa temporale tocca il punto più alto e la voce di Bene cerca toni cupi e profondi soprattutto nello scandire la famosissima triplice anafora che risuona nell’eco: «il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca» (22-23). Ed è senza dubbio significativa la scelta di concludere la lettura del frammento con le parole di san Pietro a Dante. Giunge ora, infatti, nella Commedia, l’ultima e più autorevole investitura di Dante quale profeta del suo tempo, affinché annunci al mondo la decadenza della Chiesa e la necessità di una rigenerazione: «e tu, figliuol, che per lo mortal pondo / ancor giù tornerai, apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo» (64-66). È questo senza dubbio l’apice della lectura e dell’interpretazione della Commedia messa in scena da Carmelo Bene. Poi c’è solo un ritorno, una coda, costituita dai versi 1-15 del canto VII del Paradiso che si apre tuttavia con le parole di Giustiniano, che dopo il discorso politico del canto VI recita l’Osanna; Giustiniano, sopra il quale si accoppia un «doppio lume», manifestazione della maestà imperiale e della beatitudine celeste, simbolo della politica e della teologia. Ma Bene si arresta alla «reverenza» che si impadronisce («s’indonna») del poeta nell’udire anche solo la prima e l’ultima sillaba del nome di Beatrice (Be e ice) e lascia che sia l’ascoltatore ad aggiungere ciò che segue nel canto, vale a dire la dimostrazione da parte di Beatrice della necessità della vendetta di Tito per la morte di Gesù. In perfetta circolarità con il finale del V dell’Inferno la lectura si conclude con l’immagine del sonno («mi richinava come l’uom ch’assonna»). Seguono a mo’ di bis i due sonetti, famosissimi, interrotti dagli applausi.

 

Come fa con altri classici (Amleto, Riccardo III, Pinocchio, ecc.), Bene destruttura l’opera. La «dizione» della Commedia è, di fatto, una riscrittura: gli otto canti non sono mai letti per intero e la progressione delle cantiche è rispettata solo in parte. Ma è una riscrittura che riesce efficacemente a dare un’idea compiuta del senso profondo del poema, un’opera profetica che parla dell’eterno e del tempo e che ha un fine pratico: agire sullo stato presente del mondo. Poiché è forse questo il senso delle parole conclusive di Bene, le uniche pronunciate durante lo spettacolo: «Io mi scuso per il vento che ha turbato questa dizione, questo canto. E sebbene ringrazi gli astanti, ricordo un po’ a tutti che ho dedicato questa mia serata, da ferito a morte, non ai morti ma ai feriti dell’orrenda strage». Il Dante di Bene è un Dante per i vivi, non un Dante per i morti.

 

3. Il 31 luglio 1981 è un evento centrale nella vita di Carmelo Bene. «Quel Dante “comunista” (mi fu interdetto allora e in seguito di recitarlo nella Milano socialista)», dirà nella Vita di Carmelo Bene scritta con Giancarlo Dotto, «fu uno dei più infernali casini del dopoguerra ma anche il più grande, irripetibile evento della mia vita». Attorno a quell’evento, quel gesto, è infatti costruito il capitolo centrale di Sono apparso alla Madonna, lo scritto più intimo di Bene: «Svanire in terra e apparire altrove fu quanto realmente accadde quella sera a Bologna. La mia più “alta” prova orale e scritta […]». Eppure, la ricostruzione offerta nella Vita è del tutto parziale e apologetica. È certamente vero che nei giorni seguenti quotidiani, settimanali e televisioni «tornarono più volte tra cronache e comenti su quella notte». Ma non è vero che furono tutti concordi «nel rimarcare una sorta d’irripetibile prodigio al confine tra laico e religioso: una comunità intera in raccoglimento ai piedi di un “muezzin” che recita la “Divina Commedia”».

 

Innanzitutto, come si diceva, le polemiche preventive contro Bene portarono alla cancellazione della diretta televisiva, negando di fatto quell’esperienza e il suo contesto al resto d’Italia: «Furibonda la rissa in consiglio di amministrazione Rai: Massimo Pini  fedelissimo scudiere di Craxi,  boccia le riprese televisive della “Lectura Dantis” (probabile ritorsione contro Bologna la “rossa” e i bolognesi che avevano spernacchiato Craxi in un recente comizio), i consiglieri comunisti, inferociti, rovesciano il tavolo addosso a socialisti e democristi. A seguire, la telefonata rassicurante di Bettino Craxi a Carmelo Bene: “Nono preoccuparti, Pini non è in grado di capire noi attori; la vanità dell’esser fischiati può essere superiore all’ovazione”» (C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene). E poi, in realtà, le polemiche proseguirono. Un mese dopo, al meeting cattolico di Rimini, Giorgio Albertazzi mette in scena con Anna Proclemer il suo Dante e il Corriere della Sera scrive (25 agosto 1981): «Giorgio Albertazzi, che dà del tu a Dante per diritto di nascita, leggerà qualche canto della Divina Commedia […]. Lo fa in polemica con il Carmelo Bene di Bologna, che secondo lui è un venditore di fumo, ma anche un mito e una moda. Lui, Albertazzi, no. Avrà a disposizione un palco, due microfoni, e pochi altoparlanti». Due giorni dopo il titolo del Corriere è eloquente: «Albertazzi legge Dante in piazza: deviati i jet dal cielo di Rimini», dopo «il discusso exploit di Carmelo Bene a Bologna».

 

4. La lettura bolognese di Carmelo Bene è momento importante per la storia e la cultura italiana. La fortuna popolare e mediatica di Dante raggiunge allora un primo, importante picco, per continuare a crescere negli anni successivi attraverso la radio e la televisione e oggi attraverso internet. E Dante, come era accaduto molte altre volte nella storia, diviene uno strumento. A Bologna, il 31 luglio del 1981, si celebra l’anniversario di un evento tragico che è allo stesso tempo identitario e conflittuale come conflittuale e identitario è Dante stesso. Per alcuni, poeta d’Italia e degli Italiani, della bellezza e dell’unità. Per altri, poeta contro l’Italia e contro gli italiani, poeta dell’ira e della vendetta. Tuttavia, ogni società deve la sua coesione anche a una memoria condivisa, a una narrazione di sé coerente e pacificata, in cui trovino posto anche le crisi e i conflitti. Proprio perché memoria e narrazioni condivise svolgono un ruolo così importante nelle organizzazioni sociali, queste vengono celebrate e vivificate attraverso riti, cerimonie e prodotti culturali. La strage di Bologna dimostra quanto sia utile studiare le politiche del ricordo e il consolidamento di un genere commemorativo, ma ci offre al contempo l’occasione per interrogarci su come siano invece possibili dimenticanze e pratiche di esclusione sistematica dal discorso pubblico di eventi drammatici che hanno caratterizzato la storia recente del nostro paese. Anche per queste ragioni la manifestazione bolognese del 1981 e il contesto della lectura Dantis di Carmelo Bene meritano di essere ricordati e ricostruiti con esattezza.

2 thoughts on “Bologna 1981: Dante, Carmelo Bene e l’anniversario della strage

  1. Vi ho scoperto oggi con la lettura di Carmelo Bene e vi seguirò. Avrei anche da proporvi la recensione del libretto o di Alessandro Baricco sulla pandemia vista come mito. Grazie per un cenno di risposta anche se negativa, il che mi permetterebbe di proporre ad altri. Distinti saluti Daniela Fabro giornalista pubblicista.

  2. La strage di Bologna vista dal lato della questione Beniana, non si pone come punto di vista dei morti, bensì come ricordo dei vivi sopravvissuti non alla “strage” ma alle sue conseguenze. Questi vivi parlano alla coscienza dei morti! Come se nessuna strage sia avvenuta. Invece

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