di Gregorio Magini

 

Giovedì 29 luglio sono andato all’assemblea pubblica del “Gruppo di Supporto Insorgiamo con i Lavoratori GKN”; lavoratori che hanno occupato il loro stabilimento di Campi Bisenzio in risposta all’avvio della procedura di licenziamento di massa per cessazione della produzione.

 

La giornata è stata di un caldo schifoso, ma a sera si respira, nel giardino di un circolo ARCI di Sesto Fiorentino circondato da condomini popolari – “costruiti dai nostri predecessori” verrà detto con orgoglio durante un intervento. Sono arrivato in anticipo, non conosco nessuno e non mi resta che guardarmi intorno. Una griglia di dieci per dieci seggiole che però non basteranno per la metà dei presenti, erba ridotta a un detrito di stoppie secche, i proventi della pizza a taglio vanno al circolo, quelli della birra vanno ai lavoratori, qualche zanzara ma invecchiando il mio sangue si dev’essere guastato, non mi pungono quasi più. L’età media è piuttosto alta, ci sono molte persone anziane che tengono diligentemente la mascherina su anche in campo aperto, e altre che le prendono in giro (“ma che ti levi codesto coso di sulla faccia”); militanti dei centri sociali che tirano pacche sulle spalle, si accusano a vicenda di essere della Digos, ridono e bestemmiano; i giovanissimi invece si contano sulle dita di una mano.

 

Non faccio politica attiva da più di quindici anni, a parte qualche manifestazione ogni tanto. Smisi perché ero di quelli che erano d’accordo con i black bloc, almeno sull’essenziale, ma non avevano voglia di andare in prigione. Nelle cerchie di attivismo e impegno che osservo, perlopiù online, si scherza spesso sulle assemblee come il luogo dove va a morire ogni voglia di fare se non di esistere. Ciò che mi ha spinto a guidare gli otto chilometri che separano il centro di Firenze dalla piana industriale per “sentire che dicono”, è stata una foto, questa: dove dietro la parola d’ordine INSORGIAMO il teleobiettivo schiaccia una massa senza vuoti di teste e bandiere (la stessa compressione prospettica che un anno fa serviva a criminalizzare chi camminava per la strada), dominano il bianco e il rosso, richiamati perfino dalla segnaletica stradale (ma sono anche i colori di Firenze: “il giglio” – spiega Dante – “per division fatto vermiglio”), sulla destra una spruzzata di gilet gialli del servizio d’ordine. Volevo capire meglio quale energia aveva potuto produrre il potere iconico di quella e altre fotografie della manifestazione del 24 luglio, che è seguita allo sciopero provinciale del 19. In altre parole, come ho detto ai miei amici in chat schermendomi per il mio gesto bizzarro, “voglio vedere se rifanno il comunismo”.

 

Questa riunione però non è un dibattito. La fabbrica è in assemblea permanente, e c’è da mantenere il presidio per tutta l’estate, perciò è necessario raccogliere la disponibilità di esterni per aiutare a tenere i numeri. Dario Salvetti, il delegato della RSU di azienda, apre l’incontro e parla per meno di dieci minuti, impostando il quadro della serata in maniera netta. È chiaramente un capo (apprenderò poi che ha un passato in Rifondazione Comunista ed è attualmente nella minoranza CGIL) ed è l’unico a intervenire degli operai, essendo questa una situazione di rapporti con l’esterno. I lavoratori hanno bisogno di solidarietà attiva, pratica, e ciò di cui assolutamente non hanno bisogno, dice Dario, sono le distrazioni e gli sprechi di energie: le richieste di occuparsi di altre istanze; i giochi di posizionamento tra associazioni e micropartiti; tutto ciò che mette in difficoltà perché pesa sulle “contraddizioni”. Sembra avere le idee molto chiare su ciò che spesso distrugge, dall’esterno e dall’interno, le lotte. Dopo “trent’anni di sconfitte” (la frase ricorrerà continuamente negli interventi), in effetti non sembra ci sia più molto da imparare su come farsi del male. Questo Dario mi piace, trasmette tranquilla urgenza e consapevolezza della situazione. La sua retorica è pragmatica e quasi priva del lessico mummificato del linguaggio sindacalista (fa eccezione il summenzionato “contraddizioni”, che comunque a me continua a piacere, perché dietro le vestigia della dialettica marxiana, pulsano risonanze tragiche – nel senso della tragedia shakespeariana). Dario vive nel regno delle cause e degli effetti, dei rapporti umani chiari e distinti – nel bene e nel male – che è l’esatto contrario della centrifuga di parole in cui trascorro le mie giornate informi.

 

Il punto di partenza dei lavoratori GKN, il postulato della lotta direi, è un rifiuto: non ci stiamo a essere licenziati, alla chiusura degli impianti. Punto e basta. L’obiettivo minimo perciò è il ritiro dei licenziamenti e la continuità della produzione (dalla GKN escono semiassi per Fiat, Maserati, Ferrari e altri). Semplice, lineare. Che però scoperchia un vaso di Pandora. Infatti non c’è alcuna speranza che la proprietà, un fondo d’investimento inglese di nome Melrose, sia indotta a tornare sui suoi passi solo dalle proteste locali, per quanto partecipate e rumorose: ha la convenienza, la legge e la politica italiana dalla sua.

 

La chiusura avviene dieci giorni dopo lo sblocco dei licenziamenti deciso dal governo e sottoscritto dai sindacati confederali, e avviene con una modalità atroce, l’email e il messaggino su WhatsApp a sorpresa, che è prevista dal Jobs Act. Questi 500 licenziamenti, assieme ad altri degli stessi giorni, sono il punto di partenza del piano di ripresa sostenuto da tutte le forze politiche, la messa in moto di quella “distruzione creativa” che è il punto di programma primario del governo Draghi. Le multinazionali devono chiudere per delocalizzare e ristrutturare, e in cambio assicurano investimenti, cioè assicurano che spenderanno i fondi pubblici del piano di recupero per aprire linee di produzione più moderne ed efficienti, cioè più integrate nella filiera globale e a minore impatto occupazionale. In breve, l’Europa si indebita per rimborsare con gli interessi gli industriali colpiti dai lockdown, e preparare la prossima crisi. I sindacati hanno firmato il patto in cambio dell’impegno di Confindustria all’uso degli ammortizzatori sociali: a riprova della lungimiranza dell’accordo, dopo pochi giorni erano già tre le aziende iscritte a Confindustria che avevano licenziato in massa rinunciando alla cassa integrazione.

 

Vista la situazione, gli operai della GKN non si fanno illusioni: l’unico modo per fermare la distruzione di posti è una insurrezione generale del manifatturiero italiano. Solo se gran parte dei lavoratori delle fabbriche che verranno chiuse o ridimensionate opporranno un rifiuto deciso, con la solidarietà e il supporto del resto della società, sarà possibile intralciare seriamente i piani delle élite. “Non siamo una bolla, siamo una goccia” dice Dario, esprimendo quel momento di svolta in cui si sono resi conto che il loro punto di vista era condiviso da tanta, tanta gente, e che era pensabile una trasformazione dell’ennesimo dramma locale in risposta di massa, con sciopero generale e/o manifestazione “sotto Palazzo Chigi” a settembre. Tutta l’azione dei lavoratori è attualmente impegnata nell’amplificazione della spinta già avviata. Il presidio di fabbrica è il punto di resistenza e serve a mantenere aperta la possibilità di una futura riapertura. La scelta di pretendere come interlocutore solo il governo e non la proprietà serve a forzare una dimensione nazionale e politica della vertenza. Servirebbe tempo ma ce n’è poco, e intanto c’è da affrontare il guado dell’agosto. Ci sarà da soffrire, da rinunciare a vacanze e trascurare i propri cari, le fila degli occupanti subiranno tentativi di repressione e di “corruzione” (la proprietà potrebbe offrire denaro ai singoli per spingerli a rinunciare a ogni rivendicazione collettiva). E così, per iniziare ad allargare i ranghi, è stata convocata l’assemblea di stasera.

 

Per come la spiega Dario (in questo discorso dopo la manifestazione del 24 lo fa più nel dettaglio – si veda anche questa intervista a tre operai su Jacobin) sembra tutto perfettamente logico, quasi ovvio: dal micro al macro senza soluzione di continuità, come una cinghia di trasmissione. Ci metto qualche minuto, mentre già inizia la serie degli interventi, prima di una coordinatrice e di un coordinatore del comitato, poi delle varie realtà di supporto, perlopiù locali ma non solo, a rendermi conto che stanno davvero seriamente sperando in una… insurrezione? Questi abitanti della “Firenze Marghera” – la vasta, brutta, inquinata cintura industriale che circonda le due strade in croce del villaggio turistico che il mondo conosce come “Firenze” – vogliono davvero una insurrezione ribellione rivolta sedizione sollevazione? Lo avevano scritto chiaro e tondo, INSORGIAMO, ma io mica li avevo presi alla lettera, forse anche perché l’avevo anche visto scritto sui social alla maniera dei social: #insorgiamo – così non è molto credibile, vero? Il cancelletto è un simbolo che trasforma qualsiasi parola in un suono vuoto. Dario, prima, ha parlato di una “giornata di viralizzazione”, che qualsiasi cosa sia sembra una cosa che può funzionare, questi i mezzi li sanno usare, così come evidentemente capiscono le dinamiche dello spettacolo e cercano di cavalcarle: ieri c’è stato l’evento con Stefano Massini, Piero Pelù (“non è che c’interessa quello che c’ha da dire Piero Pelù eh intendiamoci” ironizza qualcuno alle mie spalle) e i messaggi di solidarietà degli artisti. Sicuramente sono consapevoli della devastante capacità dei mezzi digitali di massa di togliere il senso a ogni cosa. Come sono riusciti a bucare la cappa di anomia?

 

Le birre iniziano a farsi sentire, stamattina mi hanno dato la seconda dose di Moderna e nonostante la tachipirina non sto proprio benissimo, mi scappa uno sbadiglio mentre un pensionato ex COBAS afferma la propria solidarietà ricordando che Labriola portò il marxismo in Italia (mi sono perso il nesso con Campi Bisenzio) – quando ero ragazzo facevamo la caricatura dei COBAS che perdevano la voce perché fumavano come foreste amazzoniche e si sgolavano al megafono, quelli saranno tutti morti ormai, sono sopravvissuti solo quelli remissivi, delicati, che stavano seduti in disparte con le mani sulle ginocchia e annuivano con partecipazione, mi immagino una vita passata a solidarizzare, con il groppo alla gola per non poter fare di più. Avrei smesso di fumare ma dopo questi pensieri, e per svegliarmi un po’, non posso fare altro che chiedere del tabacco a un vicino. Mi fumo una sigaretta di solidarietà.

 

Spezza la malinconia un diciottenne del Liceo Calamandrei, uno dei giovanissimi che avevo contato su una mano, che mani in tasca, sguardo concentrato, riassume “noi studenti non vediamo un futuro. Dobbiamo scendere in piazza con gli operai come negli anni ‘70”. Mi si stringe il cuore, dev’essere la fiacchezza del vaccino.

 

Non è un botta e risposta, ognuno fa il suo intervento di massimo cinque minuti, e alla fine dell’assemblea Dario farà le considerazioni finali. Sale al microfono una ragazza un po’ intimidita – “non sono abituata a parlare davanti a così tante persone” – si presenta come delegata di un “collettivo transfemminista” e dopo aver comunicato la disponibilità sua e delle compagne a coprire qualche turno in agosto, pone la domanda che le sta a cuore: “come si concilia l’ecologismo con il fatto di continuare a produrre?”. Riceve come tutti un applauso poco più che educato e poco meno che sentito, quel tipo di applauso che riconoscere l’impegno ma anche sembra voler dire “non stiamo a chiacchiera”.

 

È da prima di arrivare che ho iniziato a chiedermi quando e come sarebbero affiorate le “contraddizioni”, anzi devo proprio ammettere che quando dicevo “voglio vedere se rifanno il comunismo” in realtà intendevo “voglio vedere cosa gli impedirà stavolta di rifare il comunismo”. Ed ecco che arriva l’ombra del macro a minacciare di soffocare in culla il micro. Subito mi parte la slavina di se e di ma: già, come faremo con il riscaldamento climatico? E la tecnologia, l’automazione, l’industria 4.0? E tutti quei cinquantasei milioni di italiani che non sono operai? E le soggettività oppresse e disgregate non incluse in una collettività di lavoro, le donne, lə personə non-binary, gli stranieri, il disagio psichico? E l’Europa? E il covid?

 

Sulle manifestazioni contro il green pass, per esempio, Dario è stato categorico: un tentativo reazionario di distrazione. Io che dal green pass mi sono lasciato distrarre (sono contrario) mi sento rintuzzato dal suo giudizio sbrigativo. Penso che non abbia del tutto ragione perché… Ma chi se ne frega di che cosa penso? Anche la risposta che Dario darà, nei commenti di chiusura, alla ragazza transfemminista sul problema ecologico è poco accomodante: i semiassi servono anche per i veicoli elettrici, quindi quando dicono che la fabbrica chiude per la riconversione verde, mentono. Inoltre, i veicoli elettrici non risolvono il problema della mobilità sostenibile, per quella la soluzione sono i trasporti pubblici. E anche lì servono i semiassi.

 

Capisco meglio queste affermazioni dopo qualche ricerca: GKN fa parte della filiera produttiva dell’auto, il suo cliente pressoché esclusivo è FCA-Stellantis, che include l’attuale incarnazione di quella che un tempo era la FIAT, e che in Italia è ad oggi pressoché l’unico operatore per i prodotti auto finiti. Inclusa la filiera, il settore automotive italiano contava prima della pandemia 250.000 addetti, per il 5,6% del PIL. La crisi pandemica ha accelerato il processo di transizione globale verso le auto elettriche, al punto che la Commissione Europea propone di abbandonare completamente i combustibili fossili nei trasporti entro il 2035 (proposta che molti ambientalisti condannano perché troppo timida). E però un’automobile elettrica è molto più semplice di un’automobile a motore termico. Il motivo per cui, fino praticamente a oggi, non erano competitive, era il costo delle batterie, che dipende il larga misura dal costo delle materie prime (metalli come cobalto, nichel, litio e manganese). Una volta abbattuto il costo delle batterie tramite l’affinamento tecnologico, le economie di scala e accordi commerciali, ne risulta che a regime un mondo di auto elettriche richiederà molta meno manodopera dell’attuale. Per questo motivo, il Green Deal della Commissione prevede un fondo di solidarietà per minimizzare le ricadute sul mondo del lavoro con ammortizzatori sociali e contributi per la riqualificazione ai lavoratori in uscita da produzioni obsolete.

 

Perciò tutto bene? No. Il fondo è di là da venire e la valanga di licenziamenti sta iniziando oggi. E se la “distruzione creativa” sta al governo, i sospetti che si sia dato un tacito via libera a Stellantis-FCA di abbandonare addirittura l’Italia sono forti. Perciò sindacati come la FIOM insistono nel chiedere “un piano quinquennale di sviluppo e ricerca e di ammortizzatori sociali”. Ma i sindacati, legati mani e piedi come sono dai lacci della responsabilità e della pace sociale, non sono in grado di forzare lo Stato ad ascoltarli. I lavoratori della GKN lo sanno, ed è per questo che puntano a una rivolta generale. Con l’idea, immagino, che qualora gli operai ritrovassero il potere che avevano “trent’anni fa” e costringessero finalmente dei sindacati rivitalizzati a prendere gli industriali per la collottola, sarebbe più facile trovare una soluzione socialmente accettabile al problema dei semiassi, rilanciare i trasporti pubblici, garantire un lavoro e una paga dignitosa a tutti e persino abbattere la produzione di CO2 più rapidamente di quanto sa pensare la Commissione Europea. Insomma: hanno ragione. Obiezione respinta.

 

Eppure non è così semplice. Perché se il livello occupazionale scende, scende. O no? Si dovrebbe forse allora andare ancora di più nel macro: i rapporti tra Europa, Stati Uniti e Cina; il collasso ecologico; la fine del lavoro… Ma l’assemblea volge al termine e non ho certo intenzione di intervenire per sproloquiare di “contraddizioni”, nemmeno per dargli ragione. Al massimo, penso, potrei chiedere indicazioni su come preferiscono che sia comunicata la loro lotta:

“Ciao compagne e compagni, mi chiamo Gregorio e sono uno scrittore. Appartengo alla cosiddetta bolla editoriale, che al contrario della vostra non è una goccia. Il nostro lavoro consiste nel produrre cultura e nella pratica si ramifica in tre impieghi paralleli: quello autoriale ed editoriale, spesso malpagato, per case editrici e quotidiani; quello di scrittura, perlopiù gratuito, sulle riviste, i blog e i social; quello a fondo perduto di autopromozione, dal vivo e sui social. Siccome è molto raro che si riesca a campare solo di lavoro editoriale, la maggior parte di noi fa un quarto (e un quinto, e un sesto) lavoro, di solito insegnamento, giornalismo o pubblicità e vari altri servizi di scrittura. Le nostre malattie professionali sono il tunnel carpale, la depressione, l’esaurimento nervoso e l’abuso di alcol e psicofarmaci che ne derivano. I nostri problemi derivano in parte dall’intrinseca solitudine del lavoro intellettuale, ma anche e soprattutto della tenaglia di povertà e alienazione che caratterizza l’attuale organizzazione del lavoro culturale: infatti, data la struttura di questa industria – un quasi-monopolio che regge sullo sfruttamento di massa, dai cottimisti della tastiera giù giù fino alle tipografie –, se vogliamo essere pagati non possiamo scrivere quasi mai quello che pensiamo o che vogliamo. Certo, nessuno ci impedisce di farlo gratis e infatti ci siamo organizzati per avere gli strumenti di diffusione del pensiero che ci servivano – le riviste online, che campano di pubblicità, mecenatismo e soprattutto di volontariato – ma queste piattaforme sono seguite da non più quindici-ventimila persone in tutta Italia, appunto la bolla editoriale. Molti di noi cercano di lenire l’alienazione con surrogati alla partecipazione, spendendosi in quello che un tempo si sarebbe chiamato ‘impegno’ o ‘militanza intellettuale’, che però, siccome non abbiamo accesso ai mezzi di comunicazione di massa, si traduce nella scrittura di post su Facebook, micro-editoriali come quelli dei quotidiani, che propongono un giudizio morale su un fatto del giorno, e nelle relative discussioni. Ogni tanto qualcuno di noi diventa famoso, ma allora o si ritira dalla vita pubblica, o se rimane una figura pubblica si trasforma a sua volta in un agente involontario dell’alienazione, perché le forme dello spettacolo impongono di associare le idee ai personaggi che le interpretano: così anche le idee ‘giuste’ sono sempre le idee di qualcun altro…”

 

“Compagno scusa – cinque minuti” farebbe il moderatore puntando il dito sul polso dove trent’anni fa ci sarebbe stato un orologio.

“Sì scusate, termino. Inizialmente volevo intervenire per chiedere qualche dritta sul modo di comunicare questa lotta e per capire se e come posso provare a sensibilizzare la mia pseudo-comunità di riferimento. Adesso però mi rendo conto che non posso fare molto, se non invitare a osservare quello che fate, imparare. Magari portare notizia nella bolla editoriale della vostra attitudine pratica, certo per le cose che fate, ma anche per la vostra attenzione nel non fare le cose che vi farebbero male. Grazie e forza e coraggio.”

 

Ma questo discorso non l’ho pronto e quindi me ne sto zitto.

Parte l’ultimo applauso e dalle retrovie sento un brusio, è un coro anzi una canzone. Mi volto e guardo i cinque uomini che accendono fumogeni rosa e lanciano il canto. Tutti iniziano a battere il tempo con le mani, le parole sono qualcosa sul fatto che scioperare è dura ma resisteremo. È di quei canti popolari che si ripetono all’infinito (“fino a che ce ne sarà”) per mimare gli eterni cicli del lavoro e della fatica. È emozionante, vorrei fare una foto ma temo che mi prendano per un giornalista o un poliziotto. Qualche filo d’erba prende fuoco e lì per lì mi allarmo, poi penso che sono compagni, di sicuro sanno come si spegne un incendio (forse sono un po’ ubriaco). E infatti c’è uno che controlla e schiaccia i focolai a pedate.

 

L’anomia si supera con una diversa organizzazione del lavoro. Non ci sono alternative. Questi si sono organizzati nella loro comunità, ci hanno messo più di dieci anni, dando una loro forma al sindacato di base democratico, quasi un consiglio di fabbrica. Non pensano certo di essere un esempio pratico per l’organizzazione dell’intera società, ma a quanto pare, nelle ambizioni fuori scala del loro INSORGIAMO, c’è l’intuizione o la speranza che possono ancora trainare il resto della società, già solo nel mostrare che l’opposizione al capitalismo non può che partire dal micro, dal lavoro quotidiano. A un certo punto a Dario gli è quasi scappato, e si è morso la lingua – oppure me lo sono immaginato? – di pronunciare la parola “avanguardia”. Sono folli, o siamo noi a essere resi così ottusi dalla normalità ad aver perso il senso delle proporzioni delle cose, così da non saper più fare, nemmeno per scherzo, la verifica dei poteri?

 

Gli addetti della manifattura, in Italia, sono ormai meno di quattro milioni, dopo ogni crisi interi settori scompaiono per sempre. Ciò che però non è cambiato di una virgola, è che la ricchezza delle nazioni deriva dalla produzione e per la precisione dal valore aggiunto manifatturiero. Tutte le reti informatiche, tutti i pinnacoli stratosferici della finanza, poggiano ancora i loro piedi sottili sull’industria. Lo si è visto nella pandemia, in uno dei suoi tanti, fugaci momenti di verità: tutto era sacrificabile fuorché la produzione industriale, perché senza di essa la società capitalista si estingue. Dunque, forse, il fondo di verità è ancora lì: gli operai hanno ancora in mano le chiavi della cassaforte, solo che non lo sanno più. Oppure no, ma agli operai della GKN, di sicuro, conviene provarci piuttosto che ingoiare la liquidazione e chinare il capo. Questa è la situazione.

 

Dopo gli ultimi applausi vado a scrivere la mia email nel foglio per la newsletter. Guardo di sottecchi l’altro foglio, quello della solidarietà attiva, la disponibilità al presidio, ma non lo firmo. Poi mi aggiro spaesato tra i capannelli che si salutano allegri, finché non incrocio un volto conosciuto, un’amica della notte dei tempi, di quando facevo ancora “politica attiva”, uno di quei rapporti da ragazzi che si stringono e poi si disfano senza rendersi nemmeno conto. Siamo stati insieme al G8 di Genova, passato notti a chiacchierare, una volta le chiesi “ti va se ci baciamo?” e lei mi rispose: “preferirei di no” – erano i bei tempi antichi in cui l’imbarazzo ce lo potevamo leggere in faccia. Non ricordo sei poi continuammo a chiacchierare oppure me ne andai.

 

Cerco di raccontarmi che non è un caso, se dopo un abisso di quindici anni, ci rincontriamo proprio qui. Lei mi spiega che è tornata dopo anni da Città del Messico per assistere i genitori anziani durante il lockdown. Rispondo con qualche notizia, poche parole surreali che coprono metà della mia vita, un libro che ho pubblicato (lì per lì nemmeno mi ricordo che c’è un personaggio ispirato a lei).

Cerco di esprimere, malamente e in poche parole, il coacervo di emozioni e idee che mi premono alla coscienza. Sono sicuro che è inutile, non mi sto spiegando.

Invece risponde “sì, è difficile anche per me. Come vedi è una situazione… un po’ maschia. Ma si starà a vedere”.

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