di Matteo Marchesini

 

[E’ uscito in questi giorni per Castelvecchi editore il nuovo numero della rivista «L’età del ferro»  (2, 2021). Per gentile concessione riprendiamo dalla sezione “Conto le categorie” il saggio di Matteo Marchesini].

 

I.

 

Alla fine del primo episodio di Caro diario, Nanni Moretti arriva in Vespa sul luogo in cui è stato ucciso Pasolini. Dopo aver visto la sequenza, liricamente accompagnata dalle note di Keith Jarrett, Alberto Arbasino l’ha commentata così:

 

«A’ Pa’», se adesso si dichiara «splendido» perfino un quarantenne d’oggidì che rinnova e prosegue il tradizionale pellegrinaggio italiano sui luoghi del martirio di voi santi ed eroi nazionali, come definiremmo allora un sessantenne d’antan che di «a’ Pa’» ha soprattutto ricordi allegri e simpatici di scapestrati pomeriggi ai bagni del Ciriola e vivaci serate con passatempi avventurosi verso Civitavecchia? Un po’ di «leggerezza calviniana», qui, potrebbe andar bene, oppure «vade» comunque rétro? (Si venne perfino biasimati, dai più tetri, per aver ricordato sempre Giangiacomo vivo e allegro ai bei tempi della nostra amicizia, e non con le compunzioni di rito per torvi o corvi sul feretro). Ma che pesci poi avrebbe potuto pigliare allora, a Ostia, un impegnato quarantenne o cinquantenne d”oggidì’ se da baby papero dodicenne o quindicenne il Nostro Amico (non ancora redento dai convegnisti di varia ideologia) gli avesse rivolto fra una pizza e un cespuglio quelle concrete e consuete proposte — oggi ohimè e non allora definite «pedofile» – a cui era proprio difficile (per i più pischelli) rispondere autorevolmente di no?

 

Oggi questo scampolo di prosa mi viene spesso in mente quando si parla di politicamente corretto o cancel culture. Arbasino ha un doppio bersaglio: la mitizzazione del poeta, e lo scandalo che susciterebbe la sua vera figura se le si togliesse di dosso la retorica. L’immagine del moralista Moretti insidiato da Pasolini è esilarante. Certo: la tipica sprezzatura arbasiniana, nel momento in cui colpisce i nostri vizi culturali, rischia di farci dimenticare la gravità di alcune questioni. Non so più in quale libro, Arbasino ritrae un garagista di Piazza del Popolo che è appena uscito dal carcere, e che raggiunge un gruppo di scrittori seduti al caffè. Tra loro, solo Moravia è etero. Il garagista lo guarda a occhi spalancati e dice: “dottore non gli dia retta, fa malissimo!”. Difficile non ridere. Eppure l’autore allude a uno stupro subìto dietro le sbarre. La comicità, la leggerezza sono le facoltà di chi non è oppresso – o di chi, pur appartenendo a una minoranza emarginata, ha i mezzi per vivere a proprio agio in un ambiente protetto?

 

Ma il microsaggio su Pasolini e Moretti ha anche un altro tema: il tempo. Allora le “concrete e consuete proposte” di “Pier Paolo”, a cui “era proprio difficile (per i più pischelli) rispondere autorevolmente di no”, non venivano definite “pedofile”. Vent’anni più tardi prevale una sensibilità diversa. E Arbasino lo ricorda per polemizzare con chi dimentica lo scarto: cioè con chi mitizza e si scandalizza a giorni alterni perché abolisce la storia, come fanno sempre i fondamentalisti. Però: davvero quella sensibilità è nata tutt’a un tratto? Almeno in parte, non era prima semplicemente sopraffatta da un misto di libertarismo e privilegio?

 

In ogni caso, non si può negare che negli ultimi decenni si sia diffusa un’attenzione nuova per quelle che potremmo chiamare classi biologicamente e sessualmente oppresse. Il femminismo di oggi non è il femminismo degli anni Settanta. Lo stesso vale per il discorso pubblico che riguarda gli omosessuali, i transessuali, e anche i minori. Nel linguaggio della parte più progressista della società, l’accento si è spostato dalla libertà all’identità, termine che si può leggere sulla copertina di parecchi libri recenti incentrati sia sul “popolo” che sul “genere”. Ma quando il tema identitario tocca il punto d’incontro tra vita intima e legislazione (vedi il ddl Zan), o comunque tra vita intima e rappresentazione sociale o teorica di gruppo, spesso si confondono piani differenti: non si vorrebbe solo garantire i diritti di chi affronta una probabile emarginazione, ma quasi far coincidere la complessità dell’esperienza e dei rapporti umani con una serie di categorie. Col rischio che le classi oppresse, nel momento stesso in cui conquistano la parola, si ritrovino in bocca un linguaggio falso (abbiamo dato a Renzo e Lucia la lingua di Azzeccagarbugli, ha detto Arbasino in un’altra circostanza). Per questo mi sembra più che mai utile rivolgersi alla letteratura, che preserva la differenza tra i piani e descrive l’ambiguità dell’esperienza.

 

II.

 

Nella stagione del Me Too, di Black Lives Matter e dell’intersezionalismo, un libro che si potrebbe rileggere con profitto è ad esempio Vergogna (1999), il romanzo più famoso di Coetzee. Siamo nel Sudafrica post-apartheid. Il protagonista David Lurie, un accademico cinquantenne che ha incanalato i suoi impulsi libertini in una routine impiegatizia, si ritrova a corteggiare per caso e per gioco Melanie “la nera”, una studentessa che dopo un inizio di relazione prima esitante, poi inquieta e fredda, lo accusa di molestie. Condannato da un processo universitario di stretto rigore anglosassone, Lurie lascia Cape Town per le campagne della Provincia del Capo, dove la figlia passa le giornate tra lavori agricoli e assistenza veterinaria. Quando viene violentata da una banda di ragazzi neri, Lucy decide di non denunciarli: da lì in poi, anzi, si arrende alla protezione omertosa del bracciante Petrus, quasi dovesse scontare un debito per poter abitare la sua terra.

 

 

Violenza sessuale, violenza etnica, contrapposizione tra le vittime: c’è tutto. Ma se nella seconda parte del romanzo i contorni dei fatti sono netti, brutali, nella prima la limpidezza compositiva di Coetzee è messa al servizio di una dinamica ambigua. Lucy viene stuprata, ma Melanie? A un certo punto, nella camera della ragazza, David la forza a un rapporto che viene descritto così:

Melanie non oppone resistenza. Si limita a scostarsi: scosta le labbra, scosta gli occhi. Lascia che David la stenda sul letto e la svesta, lo aiuta addirittura, sollevando le braccia, poi i fianchi. Il suo corpo è percorso da piccoli brividi di freddo; quando è nuda, s’infila sotto il copriletto trapuntato come una talpa che scava un cunicolo, poi gli volta la schiena.

 

Non è stupro, non proprio, ma un atto indesiderato, profondamente indesiderato. Come se Melanie avesse scelto di lasciarsi andare, di morire dentro di sé per la durata del coito, come un coniglio quando le mascelle della volpe si chiudono sul suo collo.

 

Dopo una settimana di assenza, la ragazza si ripresenta a casa del professore e chiede di poter restare lì. Sembra una bimba: piange, preme il viso contro la pancia di David che all’improvviso si sente suo padre. Più avanti hanno un altro rapporto sessuale. Poi Melanie sottopone David a una specie di interrogatorio: vuole sapere se fa spesso con le studentesse ciò che ha fatto con lei. E’ a questo punto che la crepa da cui passerà la denuncia comincia ad aprirsi.

 

Coetzee è bravissimo nel misurare lo scarto tra i gesti intimi dei due personaggi e il modo in cui vengono raccontati pubblicamente quando Lurie è messo sotto accusa. Non ci sono conclusioni facili da trarre. Perché i romanzi non concludono, come conviene invece a ogni lotta politica che cerchi di stabilire il rispetto uguale e incondizionato per tutti gli esseri umani. I romanzi dispongono davanti a noi tutti gli elementi in gioco, tutti i pesi, inventando uno spazio credibile per indicarne i giusti contorni, le distanze e le relazioni, cioè per rispettarli nelle loro inconciliabili diversità: ci permettono di contemplarli in un solo sguardo perché possiamo tenerli presenti insieme senza dimenticarne né strumentalizzarne nessuno. A chi vorrebbe far coincidere letteratura e oratoria civile, lo ricorda oggi con passione uno dei direttori di questa rivista, l’autore di Bruciare tutto.

 

III.

 

Ma il monito di Siti è destinato a trovare un ambiente sempre più ostile. Politica e letteratura si stanno infatti sciogliendo entrambe in un oceano mediatico all’interno del quale la rappresentazione pubblica dell’identità sembra un capitale irrinunciabile, e l’intimità è ridotta a una convenzionale trasparenza. Chi investe quel capitale in battaglie civili più o meno giuste pretende spesso di ricondurre la varietà dei modi d’essere e delle relazioni umane a un linguaggio legale o magari medico, così come nella scuola si tende oggi a coprire ogni disagio con una certificazione. Non si tratta, ovviamente, di sorvolare su possibili patologie o reati, né di tutto comprendere per tutto perdonare, ma di evitare che tutto venga letto attraverso questi linguaggi tecnici o pseudotecnici – il che tra l’altro è paradossale, se si considera il ruolo che hanno tradizionalmente avuto, con la loro furia categoriale, nell’opprimere i “devianti”.

 

Che però il clima non sia dei migliori lo dimostra il fatto che la letteratura autentica è sotto attacco proprio in quanto spazio in cui emergono le verità sacrificate e rimosse dall’ordine sociale. Un’ennesima reincarnazione dello zdanovismo la affronta oggi come se fosse un discorso di primo grado: isola i temi dalla forma, insinua che far parlare uno stupratore significa condividerne la prospettiva, pretende che la rappresentazione di rapporti “scorretti” sia accompagnata da condanne esplicite. Basta pensare alle polemiche intorno a Lolita che si sono accese sull’onda del Me Too: professoresse che ne attaccano la misoginia, editori che nel 2020 non lo pubblicherebbero, inserti culturali e libri che s’affrettano a darci la “versione di lei”…

 

E’ sintomatico anche che alcuni casi reali arrivino all’attenzione pubblica attraverso un confuso accavallarsi di codici linguistici diversi, così che si fatica a distinguere la verità esistenziale e storica dal memoriale di denuncia, e il memoriale di denuncia dalla prova letteraria. Sono casi che non di rado riguardano la zona grigia di Lurie e Melanie, o le relazioni tra adulti e adolescenti: relazioni nelle quali, se è evidente la disparità del potere, delle esperienze e della consapevolezza degli attori, tutt’altro che chiari sono i confini tra un aspetto e l’altro. Ma proprio qui si vede bene quanto è lontano il libertarismo novecentesco, con i suoi slanci, i suoi equivoci e anche le sue prepotenze: nell’opinione pubblica che si ritiene più progressista, perfino un sobrio esame dei chiaroscuri che caratterizzano qualunque rapporto erotico non segnato dalla costrizione fisica viene avvertito come una complicità con l’aggressore, e l’ambiguità è cancellata a ogni livello dalla definizione più infamante: pedofilia – senza le virgolette di Arbasino.

 

Emblematico e clamoroso, in questo senso, è il caso Matzneff-Springora, esploso in Francia tra il 2019 e il 2020. O meglio, a “esplodere” è stato il racconto pubblico, perché la vicenda a cui si riferisce risale agli anni Ottanta. Lo scrittore Gabriel Matzneff, ora ottantenne, nei suoi libri ha sempre descritto l’amore per i “minori di sedici anni” senza suscitare troppe reazioni. E’ stato anzi protetto, e premiato con importanti onorificenze dalla più autorevole cultura nazionale. Anche in questa storia conta il tempo. Nei decenni in cui Matzneff si è affermato come scrittore, intorno a lui il clima era quello ben rappresentato dalla lettera aperta a favore della depenalizzazione delle relazioni sessuali tra minori e adulti, che su sua ispirazione uscì nel ’77 su Le Monde e che fu firmata dai maggiori intellettuali francesi (Barthes, Deleuze, Sartre, de Beauvoir, Glucksmann…). Quarant’anni dopo, quasi nessuno la firmerebbe più. Ma Matzneff avrebbe comunque potuto trascorrere una vecchiaia tranquilla, se nel 2019 Vanessa Springora, oggi una dirigente editoriale di quasi cinquant’anni, non avesse pubblicato il memoir Il consenso, dove racconta la loro relazione all’epoca in cui cinquant’anni li aveva lui e lei solo quattordici. Il libro ha avuto successo, e questo successo ha determinato un immediato cambio di atteggiamento nei confronti di Matzneff – così immediato, che comunque si giudichi la faccenda non può non apparire grottesco: Gallimard e altri marchi hanno ritirato i suoi libri dalle librerie, la polizia ha sequestrato i suoi diari, la magistratura ha aperto un’inchiesta, e piccole folle pronte alla gogna si sono presentate sotto casa dell’accusato.

 

Ma cosa ha scritto la Springora nel suo libro? Già il titolo è significativo: quanto vale il consenso di una quattordicenne? E’ la domanda cruciale. L’autrice prova a raccontare il percorso lungo e doloroso che ha dovuto compiere per prendere coscienza di essere stata vittima di un abuso, malgrado la passione che aveva condiviso con Matzneff. I capitoli dell’autobiografia, brevi e incalzanti, sono costruiti tutti per arrivare lì, seguendo la metamorfosi della ragazzina che si credeva libera di “amare chi vuole” nella donna consapevole di avere soltanto imparato la “lezione” del suo manipolatore. “Un padre scomparso nel nulla che ha lasciato un vuoto immenso nella mia vita. Una spiccata passione per la lettura. Una certa precocità sessuale”: le premesse per cadere nella rete di G., ci dice l’autrice nelle prime pagine, c’erano tutte. Vanessa conosce Matzneff nell’ambiente editoriale della madre, che si opporrà molto debolmente alla loro liaison. Anche la descrizione di lui è subito adatta alla sceneggiatura: l’untuosità da bonzo mondano, il “sorriso da predatore”, l’ironia sui genitori che regalano Carroll ai bambini, la difesa di Polanski… Dopo il batticuore dei primi incontri, inizia quella che la Springora chiama la “spoliazione”: G. recita la parte dell’educatore, le legge la Bibbia, insiste per scriverle il tema che deve portare in classe, ma “non si interesserà al mio diario, non mi incoraggerà a scrivere, non mi spronerà a trovare la mia strada. // Lo scrittore è lui”. Mentre si trasforma a poco a poco in un tutore alla Humbert, mettendola in guardia dai coetanei e persuadendola a sane abitudini di vita, l’unica letteratura che incoraggia in lei è quella del loro carteggio. E leggendo i suoi libri, presto Vanessa si rende conto “che non ho per niente l’esclusiva di quelle effusioni epistolari”. Spuntano ovunque lettere di ragazzine, tutte simili, tutte segnate dai “termini universali e atemporali della letteratura epistolare amorosa. G. ce li suggerisce in silenzio, li infonde nella nostra stessa lingua. Ci priva delle nostre stesse parole”. Sono lettere che servono allo scrittore per documentare un indubitabile consenso, oltre che per nutrire i suoi romanzi e i suoi diari. Ed è proprio quando tra i diari legge quelli “proibiti”, cioè più minuziosamente dedicati alla caccia degli adolescenti, che Vanessa si convince una volta per tutte di essere una tra le tante. A questo punto inizia il distacco. Malgrado G., assaporando la letteratura penitenziale che si appresta a trarne, ribadisca che la storia con lei è la “sua redenzione”, Vanessa ora vede nella sua figura il predatore seriale, e presto anche il malato. Nella nuova fase, il momento di massima vicinanza con G. è quello in cui scopre che anche lui da ragazzino ha avuto un adulto “iniziatore”. Più avanti, incontrando un’altra sua giovane amante, Vanessa deriderà con lei le pretese di grande amatore e l’efebofilia di un uomo rimasto a sua volta imprigionato nella mente di un quindicenne. Lo catalogherà, insomma. Ma non basterà a liberarsene. La sua vita di ragazza e di adulta continuerà a lungo a essere devastata da quell’incontro. Per molto tempo il rapporto di Vanessa col sesso “oscilla tra onnipotenza e abulia. Certe volte quando penso a tutto quel potere mi prende un senso di ebrezza. E’ così facile rendere felice un uomo. Poi all’improvviso, nel momento dell’orgasmo scoppio a piangere senza un motivo apparente (…) mi sento come una bambola senza desiderio, che ignora come funziona il suo stesso corpo, che ha solo imparato a essere lo strumento per dei giochi che le sono sconosciuti”. Solo in età matura la narratrice del Consenso supera questa ripetizione coatta e spettrale, riuscendo a costruire una famiglia; e lo fa dopo il riconoscimento riluttante del suo statuto di vittima. Nel suo caso come in tanti altri, scrive traendo la morale del racconto, “l’abuso sessuale (…) si presenta in maniera insidiosa e indiretta, senza che se ne abbia davvero la consapevolezza. Tra l’altro non si parla mai di ‘abuso sessuale’ tra adulti. Si parla di un abuso nei confronti di una persona anziana, nel caso di circonvenzione di incapace, per esempio, di una persona detta vulnerabile. La vulnerabilità, è appunto quell’infimo interstizio attraverso il quale dei profili psicologici come quello di G. possono introdursi. E’ questo che rende la nozione di consenso così incerta. Molto spesso, nei casi di abuso sessuale o di circonvenzione d’incapace, si ritrova una stessa negazione della realtà: il rifiuto di considerarsi una vittima. E, infatti, come riconoscere di essere state vittime di abuso, se siamo stati consenzienti?”. “Ciò che è cambiato oggi, e di cui si lamentano, fustigando il puritanesimo dilagante, i tipi come lui e i suoi difensori, è che dopo la liberazione dei costumi, la parola delle vittime, anch’essa, si stia liberando” conclude poi la Springora assestando l’ultimo colpo al preteso libertarismo di G e del suo milieu.

 

A libro chiuso, si ha la sensazione che l’autrice ci abbia offerto uno scaltro miscuglio di verità e retorica. La prosa lapidaria è molto efficace, e certo anche grazie allo stile Il consenso ha avuto tanto consenso (ah, l’ambiguità della lingua!). Ma i dialoghi, le descrizioni, la messa in scena dello scontro tra innocenza e cinismo sono troppo vicini allo stereotipo per attingere a una realtà tridimensionale. Se la cattiva letteratura è quella che corregge un po’ le cose in modo che quadrino meglio, questa lo è; e qua e là sembra che l’autrice abbia imparato un’altra lezione, che ci si stia aggrappando.

 

Abbandonato dagli editori francesi, in patria Matzneff ha potuto rispondere alla sua ex amante solo con un samizdat, che in Italia è stato invece pubblicato da liberilibri nella traduzione di Giuliano Ferrara. A rigor di termini, in realtà, Vanessavirus non è una risposta al Consenso, dato che l’autore ostenta di non averlo letto, e dice pateticamente di voler restare convinto che la sua amante lo stia uccidendo senza perdere la tenerezza. Ma in questa apologia il lettore s’imbatte nella versione matzneffiana di non pochi episodi che si trovano anche nel libro della Springora. E bisogna riconoscere che ogni tanto Matzneff avvalora qui l’immagine dell’esteta puerile che nel Consenso prende appunti sul Moleskine sussurrando alla ragazzina che è “lo stesso di Hemingway”. Per dare un’idea del tono, ecco come si esprime già a pagina due: “Il bravo capitano Dreyfus era innocente. Io non lo sono. Sono colpevole d’avere adorato la libertà, la bellezza, l’amore e, grazie ai doni che mi recarono le fate chine sulla mia culla, d’aver permesso a queste passioni, con una penna, l’inchiostro e la carta, di incarnarsi in opere alcune delle quali, oso sperarlo, mi sopravvivranno; e faranno battere dei cuori adolescenti molto tempo dopo che il mio non sarà più che polvere in un’urna o in un sepolcro”. Circola in tutto il discorso un’ideologia dell’amore pedagogico che fa pensare a una parodia del Corydon gidiano, e che è poi in fondo quella esaltata nel famigerato libro di Matzneff I minori di sedici anni. A un certo punto, con una frase terribile, l’autore suggerisce che “all’origine della difficoltà esistenziale” di Vanessa ci sarebbe la sua scelta di rompere con il suo educatore. E nello stesso tempo ripete che lui è sempre stato “rimorchiato, non predatore”. Anche in questo testo, come in altri libri che per la Springora sono stati fonte di un dolore inesauribile, Matzneff cita brani delle lettere più appassionate di lei, alcune scritte dopo la rottura. Ricorda a sua volta che tra gli anni Sessanta e Ottanta molti giornali a larga tiratura diffusero idee ben più compromettenti delle sue, e che nel clima di allora il fatto veniva considerato naturale. “Giudicare i costumi slabbrati dell’epoca successiva al Sessantotto alla luce del puritanesimo amerlocco che di recente si è impadronito della Francia, dell’intero pianeta, è di una disonestà impudente” scrive. “Oppure, se è normale bruciare quei miei libri in cui è descritto un passato d’amore poco ortodosso, esigo allora che vadano al rogo anche i libri di Anacreonte, Teocrito, Tibullo, Petronio, Luciano di Samosata, Djâmi, Kayyâm, Aretino, Ronsard, La Fontaine, Baffo, Casanova, Parny, Sade, Laclos, Mirabeau, Byron, Baudelaire, Apollinaire, Gide, Colette, Sandro Penna, Nabokov, senza dimenticare Hécate et ses chiens di Paul Morand”. Anche se il tono di Matzneff appare sgradevolmente altisonante, non si può non condividere il suo disprezzo verso chi vuole cancellarlo come scrittore: “Queste opere si trovano da lustri nelle librerie, nelle biblioteche; dalla loro pubblicazione hanno suscitato molti articoli e interviste, ispirato lavori universitari, sono regolarmente ristampate. E’ stupefacente che neoinquisitori fingano nel 2020 di scoprirle e affettino indignazione”.

 

Tutto giusto. Il problema di Vanessavirus è un altro, e sta nel fatto che anche il suo autore fa quadrare i conti troppo facilmente. Ed è comprensibile, dato che si tratta di un’autodifesa. Solo che proprio quando, per renderla attendibile, dovrebbe esaminare con scrupolo le dinamiche di potere in cui è implicato – compreso il pagamento dei ragazzini nei paesi poveri, atto che con intollerabile snobismo distingue dal turismo sessuale di massa – sorvola un po’ troppo velocemente. La Springora, nella sua astuzia, tiene a smarcarsi dalla crociata contro Lolita, che per lei è una lucida condanna della pedofilia. Giudizio riduttivo ma intelligente, a cui si ripensa davanti a questo Humbert soddisfatto di sé che getta appena un’occhiata nel sottosuolo della sua coscienza, evitando di scendere a esplorarlo e cavandosela con qualche voluttuosa citazione di scrittori, pittori o archimandriti. In altre parole, sia G. che V. ci consegnano delle versioni enfatiche: sono le metà false di un romanzo vero che tocca al lettore ricostruire.

 

IV.

 

Nel caso Matzneff la letteratura, o meglio una sua forma equivoca, non riguarda solo il racconto pubblico della vicenda, ma anche il rapporto intimo tra i due protagonisti. “Non sono mica i libri che l’hanno stuprata” ha commentato un mio amico mentre leggevamo le notizie sulla caduta in disgrazia del vecchio scrittore in seguito alla denuncia letteraria della Springora. Naturalmente aveva ragione. Però i libri c’entrano. E su questo i due ex amanti sono d’accordo. “Non fossi stato scrittore, Vanessa non avrebbe avuto voglia di rompere né avrebbe rotto con me” sostiene lui. E lei, dopo avere descritto la fascinazione della ragazzina che fu per l’artista, racconta l’angoscia di rimanere intrappolata tra le sue pagine. “Se le relazioni sessuali tra un adulto e un minore di quindici anni sono illegali, perché quella tolleranza quando riguardano un membro di un’élite (fotografo, scrittore, cineasta, pittore)?” si chiede poi verso la fine della sua requisitoria.

 

In realtà, prima della tolleranza viene spesso la scissione tra mito e scandalo evocata nel corsivo di Arbasino; il cui effetto è, certo, la tendenza a cambiare il metro di misura. Verrebbe da dire, banalmente, che se si può ascoltare con interesse la versione di chi esibisce quelle relazioni, o di chi le cerca di nascosto, è difficile non essere nauseati da chi le rivendica nel nome della letteratura. Ma accade anche l’inverso: la letteratura diventa un mezzo di seduzione. Su questo tema, si sa, sono stati spesi fiumi d’inchiostro. Vanessa si è sentita elevata a “musa”. Melanie ha incontrato Lurie ai suoi corsi, in cui parlava del dongiovannesco Byron, che Matzeff cita subito all’inizio della sua difesa. Il rovescio di questo innalzamento, nel rapporto asimmetrico tra “il maestro” e “l’allieva”, è il precipizio che si spalanca sotto di lei quando si rende conto di essere un soggetto letterario fungibile, lo strumento di un piacere che si consuma soprattutto nella solitudine dell’altro, e che l’altro può sostituire all’infinito. Vanessa è angosciata da quel surrogato di letteratura che sono gli epistolari convenzionali conservati e utilizzati da G. Ed è sconvolta, leggendo i libri proibiti, dalla sensazione di essere uguale a tutte quelle ragazzine e quei ragazzini “sotto i sedici anni”. C’è a questo proposito nel Consenso una pagina rivelatrice. La protagonista adolescente si sente ripetere di continuo da G. che la loro storia è “unica e sublime”, e finisce provvisoriamente per crederci. “Perché un’adolescente di quattordici anni non potrebbe amare un signore che ha trentasei anni più di lei?” si domanda. Ed ecco come le risponde l’adulta che oggi è diventata:

 

Avevo rigirato quella domanda in tutti i sensi dentro di me. Senza rendermi conto che era formulata male fin dall’inizio. Non bisognava analizzare la mia attrazione, ma la sua.

Le cose sarebbero state ben diverse se, alla stessa età, mi fossi innamorata follemente di un uomo di cinquant’anni che, contravvenendo alla morale, avesse capitolato difronte alla mia giovinezza, dopo aver avuto in precedenza altre relazioni con varie donne della sua età e che, sotto l’effetto di un irresistibile colpo di fulmine, avesse finito per cedere, una sola e unica volta, a quell’amore per un’adolescente (…) Invece adesso sapevo che nella vita di G. il desiderio che provava nei miei confronti era infinitamente ripetitivo e di una triste banalità.

 

Dunque il problema è questa ripetizione nauseante. Lo stesso di Melanie, che all’improvviso vuole sapere quante studentesse si scopa il professore, se è una sua prassi. Tutto qui? Ma in un rapporto così squilibrato, non si tratta di una normale delusione davanti al dongiovannismo. Siccome la persona giovane e debole costruisce attraverso quel rapporto nientemeno che la sua identità, non può sopportare di scoprirsi “seriale”. Dopo questa scoperta il momento della separazione diventa per lei tragico, sia che si allontani di sua volontà sia che venga abbandonata dall’adulto: perché allora non ricade su un terreno solido ma nel vuoto. Quando David, dopo un’irruzione sgradevole del ragazzo di Melanie nella sua routine, torna a mettere nei confronti della ragazza una distanza da professore e le dice che deve dedicare maggior tempo allo studio, lei “lo guarda sbalordita, quasi indignata. ‘Mi hai allontanata da tutti, – sembra voler dire. – Mi hai fatto portare il tuo segreto. Non sono più una semplice studentessa. Come puoi rivolgerti a me in questo modo?’ ”.

 

E’ un caso particolare dell’inganno che si accompagna a ogni seduzione. Lo ha analizzato in maniera magistrale Franco Fortini in un suo pezzo del 1977 su Pasolini, dove azzarda l’ipotesi che il ruolo pubblico di pedagogo sia servito al suo amico-avversario anche per espiare il peccato dell’abbandono continuo dei singoli ragazzi sedotti e usati, abbandono in cui propriamente consiste la “corruzione”:

 

A me sembra che il senso negativo della corruzione (ossia del comportamento che induce a dissolvere una qualità di legami preesistenti) – scrive Fortini – si dia quando alla relazione che induce tale dissolvimento succede la interruzione della relazione stessa, lo stato della solitudine; del ‘corruttore’ e del ‘corrotto’ (…) la colpa non consiste nella seduzione ma nell’abbandono (…) Il ragazzo (il ‘minore’) che un adulto (un ‘maggiore’) induce a un comportamento (…) prima non praticato e che sia vissuto come inconciliabile con la antecedente norma personale, familiare, sociale eccetera non vuole essere lasciato solo, proprio perché, ormai non è più individuo bensì diviso, sdoppiato, contraddittorio. Una parte di sé è gestita dall’altro e se l’altro non lo restituisce a se stesso continuando a considerarlo una unità, una unità nuova in formazione e in progresso, egli si sentirà solo con se stesso, incomprensibile a se stesso, finché il tempo e gli altri non abbiano dolorosamente restituita una identità perduta. Questa la radice – spesso chiamata amore – dell’attaccamento del sedotto al suo corruttore.

 

Nel cuore dell’amore, in un rapporto ineguale, si annida una tragedia dell’identità. A Janouch che gli parlava di un compagno di scuola sedotto da un’insegnante, Kafka avrebbe detto che “l’amore procura ferite che non guariscono mai veramente, poiché l’amore si manifesta sempre accompagnato dalla sporcizia. Soltanto la volontà dell’amato può separare l’amore dalla sporcizia. Una creatura così smarrita come il suo amico, non ha però ancora una sua volontà nell’amore, e per questo viene infettato dalla sporcizia”.

 

E d’altra parte, come liquidare con un anatema lo scambio d’amore con il più smarrito? Ogni adesione al suo sentimento è manipolazione? Fin dove siamo disposti a spingere la nostra denuncia dello squilibrio di potere? E’ possibile far entrare queste descrizioni così esatte del rapporto ineguale nel letto di Procuste del diritto, che facciamo benissimo a far valere quando lo riteniamo giusto? Non credo. Al massimo è possibile portarle, oltre che in un dibattito, in un dibattimento. Trovo interessante, a questo proposito, il modo in cui Giuliano Ferrara ha impostato la sua vigilatissima difesa di Matzneff. “La sofferenza psichica a norma di legge, per principio”, ha scritto presentando l’affaire sul Foglio, “è il presupposto per la configurazione di un reato penale a danno di un minore, il cui consenso all’amore non è psichiatricamente giustificabile, ma non dà conto della realtà e non spiega l’incerto profilo di un uomo che risulta l’ibrido impossibile tra un violentatore psichico e un amante ricambiato che educa e inizia alla vita una liceale. Ora, quando si tratti di celebrare un testimone d’accusa, con la sua versione letteraria che ‘intrappola in un libro’ l’accusato, e dannare per sempre un essere umano alla luce della requisitoria, penso che la realtà laicamente e lealmente ricostruita in un dibattimento, presa nei suoi particolari concreti e nel suo significato generale, debba prevalere sull’astrattezza giuridica di una ‘sofferenza per principio’, di una vittimizzazione a norma di legge”.

 

V.

 

Avrò subìto una violenza, anche se non l’ho vissuta consapevolmente come tale, e le ho dato per molto tempo un altro nome? Da questa domanda importante partono due strade, che a volte s’intrecciano pericolosamente. La prima è quella che porta a una presa di coscienza, a una “liberazione”. La seconda è quella che porta alla mistificazione: dopo essere stato magari colonizzato una volta, l’io viene colonizzato di nuovo, in una forma diversa, ed espropriato della sua esperienza dal linguaggio convenzionale dei media o da quello delle battaglie sociali, sindacali, politiche (a volte sacrosante). Da qui possono scaturire la caccia alle streghe e lo zdanovismo, che a ogni loro rinascita somigliano sempre monotonamente a sé stessi. Tanti ci ricordano oggi che dove è in corso un fenomeno di liberazione degli oppressi non si può andare per il sottile – che qualche forzatura è inevitabile. Forse è vero. Ma lo si vedrà poi, alla fine, possibilmente dopo avere cercato di evitarla. Non è lecito invece, come sempre fanno gli idolatri della Storia, usare questa constatazione come passepartout morale per moltiplicare il grado di falsità e di retorica, mai innocue, e per stimolare il ricatto ideologico o la violenza imbecille della gogna. Mentre crescono il corporativismo e l’identitarismo, che sembrano tanto più ottusi proprio là dove gli arcimboldismi filosofici nutriti di French Theory esibiscono il feticcio di una Soggettività Imprendibile, bisogna custodire i luoghi in cui si svolgono indagini e dibattiti il più possibile liberi, cioè non compromessi a priori dalla necessità di far quadrare i conti.

 

“La libertà totale nel proprio àmbito è essenziale all’intelligenza” ha scritto Simone Weil nella Lettera a un religioso; aggiungendo subito dopo che “ovunque ci sia disagio dell’intelligenza, c’è oppressione dell’individuo da parte del sociale, che tende a diventare totalitario”.

 

 

[Immagine: Vanessa Springora, Gabriel Matzneff].

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