di Laura Di Corcia

 

[Esce oggi per Tlon Diorama, il nuovo libro di poesia di Laura Di Corcia. Pubblichiamo un testo, intitolato Magari].

 

Magari, una volta, ti è capitato di sperimentare il foglio bianco.

Uno schermo vuoto su cui incidere segni.

Allora, in quel momento sei stato l’essere umano primordiale,

che faceva grande il mondo, ripetendolo, ricostruendolo.

 

Segnare significa aggiungere energia alla materia volatile, imprimere,

sperare che la roccia conservi nel suo mistero fitto un senso che resti.

Un demiurgo scrive sempre su una roccia.

È sempre tacito di fronte ad una parete verticale.

 

Quando arriva il morbo, imprime qualcosa sulla pelle.

Il segno lo scopri di notte.

Ti alzi e sai già. Cammini nel latte.

 

Il segno annulla la storia.

Chiunque cerchi di scrivere non sa mai niente.

È solo. Solo di fronte al foglio bianco.

 

Improvvisamente il bianco si macchia.

Di nero.

Sai che da quel momento qualcosa avrà forza centrifuga,

violerà la circonferenza.

 

Se la malattia è come l’acqua, mi fermo ad aspettare.

Aspetto che accarezzi come velluto la polpa e che passi senza lasciare.

Un abbraccio. Un segno come un anello annodato sulle dita del mondo.

 

Nel bosco ho visto un animale che respirava.

Gonfiava e sgonfiava il polmone. Apriva e chiudeva le porte.

Ho atteso un attimo, poi sono fuggita,

verso porte che si aprono e si chiudono a intermittenza.

 

Tutto il mondo, adesso, è pieno di una macchia che si allarga.

Sbrodola nei bordi e non sa comprimere.

Rotola verso un altrove che non conosciamo.

 

Guardo il tg solo di sera. Aspetto che le parole si strozzino in un punto.

Sono così vicina a me stessa che le ginocchia diventano un mento più lungo.

Se ho fame, prendo la farina e aspetto che diventi altro.

Altro da sé, rimanendo sempre se stessa.

 

Ho visto sui balconi stendere panni e pianti.

I balconi bruciavano, ed eravamo più di diecimila.

Poi siamo diventati una macchia rossa sulla roccia.

 

Come in un lungo sonno ho aspettato la fine dell’epidemia.

Ho letto due capitoli scritti da Manzoni.

La peste scopriva il petto degli uomini, ne mostrava le escrescenze.

Ma tutto era già accaduto.

 

Guardare il mondo come dentro una teca.

Malattia come protezione?

Fleur Jaeggy. I beati anni del castigo. Beati. Perché castigati.

 

Mio padre e mia madre erano chiusi dentro una teca.

La teca volava e viaggiava.

Era arrivata lontanissima.

Eppure era vicina.

 

Ho guardato su uno schermo allargarsi una paura.

Tu dici di non guardare sempre,

ma i miei occhi sono superfici che riflettono.

E dentro ho cercato una mano, un piede, qualcosa di umano.

 

Hanno ucciso George Floyd.

Lui e l’assassino lavoravano insieme in un night-club.

Ha detto: non posso respirare.

Poi qualcosa è schizzato sullo schermo liquido e mi ha urlato nelle orecchie.

 

Uccidere il microbo, risvegliarsi animale sul dorso.

Come nel castello. Di Kafka. Di vetro.

Una teca che abbraccia e schiaccia l’animale.

 

Il mondo è una macchina, il mondo è una macchina se tu!

E più è organico, più è macchina.

Voliamo lontani da qui. In una teca. Una teca leggera e bianca.

 

I poeti sono sempre folli? Mi chiedi.

Ma tu sai che sono prosastica nella vita.

I poeti o sono folli o sono normalissimi. Spesso, non sono poeti.

 

Ci siamo chiusi in casa e per un po’ è stato bello.

Ho litigato con mille persone attraverso uno schermo.

Poi ho litigato con te.

E alla fine ho litigato con me stessa, che sono quella che sopporto di meno.

 

Segno queste parole ora che tutto è forse passato.

Ma vorrei rimanere con questa fragilità fra le dita.

Trasformarla in un anello da indossare.

Il titolo sarà: lei,  che non voleva dimenticare.

 

Il mattino adesso è pieno di sole.

Fuori gli animali sono svegli e l’acqua torna ad essere in un luogo preciso.

Andiamo via da qui? Sì, ma torniamoci sempre.

 

 

 

 

 

 

 

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