di Andrea Gentile
[È uscito in questi giorni per Minimum fax l’ultimo romanzo di Andrea Gentile: Tramontare, terzo capitolo della saga ambientata nell’immaginario borgo di Masserie di Cristo, dopo L’impero familiare delle tenebre future (Il Saggiatore 2012) e I vivi e i morti (Minimum fax, 2018). Ne presentiamo un estratto.]
A che scopo continuare a dormire?
Suttanipāta
1. Freddo
Le ombre scrivono le solite parole: buio, cuore, mamma. Io, nel parco, di notte, ne seguo i sentieri.
***
«Vieni, Tramontare, bambina mia, la nonna ti racconterà una storia».
«Sì, nonna, raccontami la storia che piace a me».
«Una notte, la mamma e il papà volevano fare la nanna. Tramontare però glielo impediva. Piangeva, piangeva. Diceva che aveva paura della morte. La mamma e il papà dissero: “Tramontare, taci. Non sarà con le lacrime che eviterai la morte”. Tramontare però continuava a piangere. Nulla poteva fermarla. Allora la mamma e il papà ebbero un’idea. Se era impossibile far tacere Tramontare, l’unica possibilità era allontanare Tramontare. Se era impossibile fermare le lacrime di Tramontare, l’unica possibilità era cambiare il centro del pianto. Farla piangere per altre ragioni. Il papà prese Tramontare in braccio. La mamma scese giù in cantina a prendere il passeggino. Distesero Tramontare nel passeggino. Non fu facile perché Tramontare era oramai grande. Ma con la volontà si ottiene tutto. Così Tramontare fu dentro il passeggino, quasi incastrata. Aprirono la porta. Lasciarono il passeggino, con dentro Tramontare, fuori dalla porta. Era una notte di pioggia. Chiusero la porta. Tornarono a dormire. Piangeva. Al mattino dopo, la mamma e il papà aprirono la porta e Tramontare era ancora lì, incastonata nel passeggino. Non piangeva più, adesso. Tremava dal freddo, e il suo faccino era diventato pallido come quello di una strega. Non era questo però l’importante: l’importante era che da quel giorno Tramontare non ebbe più paura della morte. Da quel giorno Tramontare pensò di essere, lei stessa, la morte».
2. Carne
Io sono la morte. Così dicono.
Non è vero: io sono solo una bambina.
Tramontare è una bambina nera. Così dicono.
Camminare è meraviglia, a Masserie di Cristo.
Gioco a incrociare gli sguardi di tutti. In pochi secondi: studiare le loro dentature. Augurarmi che si mostrino a me. E allora modulare il passaggio, il mio passaggio, sulla base di ritmi che sento dentro. Aspettare un istante. Fermarsi. Poi ripartire. In questo modo afferrare l’istante. Il commissario, il lattaio: apriranno la bocca in quel momento. E sarà stata decisiva la pausa. Una metrica interiore, una musica dall’oltretomba. Un istante, un’impressione: accelerare, rallentare. Memorizzare. Ho l’ambizione di conoscere a memoria tutte le loro dentature.
Noi, a Masserie di Cristo, non amiamo i denti perché sono troppo fragili. I denti sono come la gente povera, nostri fratelli. Si affastellano come tasti di pianola deflagrati. Non seguono la coerenza del coro. Battagliano l’uno contro l’altro nel corso di lunghe guerre di posizione. I denti di Florinda la bidella, che straparla di carne di vitello domenicale, sono poi dei mattoncini di sabbia. Sembrano sgretolarsi giorno dopo giorno.
Davanti al portone del municipio, il Cancelliere affigge un cartello. Parla di una processione. Si terrà tra pochi giorni. In fondo alla via compro un palloncino a forma di pagliaccio. Il Venditore di palloncini mi fa i complimenti. «Ottima scelta, Tramontare». Rivendo il palloncino a prezzo maggiorato a una famiglia con bambino. Sembra un angioletto.
Entro nel parco, salgo sull’albero. Vorrei guardare tutti dall’alto, ma non c’è nessuno da guardare. Spunta un serpente. Provo a schiacciarlo ma mi evita. Mi piacerebbe strisciare come lui. Non si può, però, essere rettili e felini insieme. Ho voglia di andare alle giostre, ma non ci sono giostre a Masserie di Cristo.
Vado verso la chiesa. Entro. C’è aria di festa. Il prete mette al centro un agnellino. Dice che per il bene di tutti, l’agnellino è all’asta, per la grande festa. I ricavati saranno devoluti in beneficenza. Il Medico offre dodici carlini. L’agnellino bela. Florinda la bidella ne offre diciassette. Il Venditore di palloncini arriva a ventiquattro. «Mangiare l’agnello nel giorno della grande festa è come accorciare le distanze. Non provate attaccamento per lui. Colui che ha attaccamento non è libero», dice il prete. Ventiquattro e uno, ventiquattro e due. Il prete sbatte il martello e il pubblico vocifera. Il Cancelliere rilancia a ventisette, il Venditore di palloncini a ventinove. Ventinove e uno, ventinove e due. La gente sussurra, tutti sanno che lui è ricco, si è persino permesso un dente d’oro. Florinda la bidella rilancia a trentuno. Trentuno e uno, trentuno e due. «Quarantacinque», dice Tramontare, e l’agnellino è suo. Si alza un piccolo boato, «Come fa quella bambina?», vado verso l’altare, prendo l’agnellino in braccio. Il prete mi stringe la mano e mi fa i complimenti. Gli guardo i denti e vado via. Con l’agnellino in braccio, attraverso Masserie di Cristo. I passanti mi guardano. «Guardate, c’è Tramontare», dicono.
Cammino ancora, prendo il sentiero, arrivo a casa. Scendo in cantina. Prendo la cuccia di Baldovino. Attaccati alla coperta, ci sono ancora i suoi peli neri. Penso al giorno della sua morte, investito da un trattore. Penso a quella disperazione, quella di quel giorno depositato nei ricordi. «I cani», diceva la nonna, «sono come i cieli, sanno tutto del futuro».
L’agnellino si distende. Lo accarezzo sulla nuca ed entro in casa.
Non si muore poi così in fretta, penso, e apro la carne in gelatina per merenda.
3. Cenere
Entra la mamma e mi dice che mia sorella è morta. È stata trovata a terra, cadavere, in giardino. Infarto o overdose, o infarto da overdose. Giocava al gioco dell’addormentata, fingeva di dormire a terra e poi: stop.
Bisogna avvisare il papà. «Pensaci tu, Tramontare», mi dice. La mamma e il papà non si parlano. Andrò io in macelleria. Attraversare Masserie di Cristo. Le strade a quest’ora sono deserte.
Entro in macelleria. OGGI GRANDE OFFERTA, recita il cartello: cervella di bovino a basso costo.
«Che cosa vuoi, Tramontare?», dice il papà, mentre affetta dietro al bancone.
«La Sorella è morta».
«È una vera tragedia».
«Lo è»
«Perché non la chiami con il suo vero nome?»
«Ancora credi ai nomi?»
«Basta, Tramontare, con i tuoi scherzi. La morte non è un circo».
«La Sorella è morta, vieni a vedere».
Mi segue. Esce con indosso il camice bianco, macchiato di sangue bovino. Ci avventuriamo lungo il tratturo, il sentiero della pastorizia. Restiamo in silenzio. Una cornacchia gracchia. Penso al rinoceronte che disegnavo quando ero ancora più bambina. Ogni sera disegnavo un rinoceronte. La notte lo sognavo. Mi guardava diritto negli occhi e mi diceva: Basta coi pensieri! Abbraccio il papà. Gli dico che l’ho portato sulla strada sbagliata. Che il tratturo non c’entra nulla, ho sbagliato.
«Papà, consideriamo il punto. Se questa cosa, la morte della Sorella, fosse uno scherzo? Ti lasceresti alle spalle la rabbia? Sapresti dominarla? E, al contrario, se fosse morta davvero? Cosa faresti? Saresti in grado di essere un fiume, lasciarti trascinare? Essere come la lampada di te stesso?»
«Basta sciocchezze, Tramontare. Portami dove devi portarmi. Andiamo via dal tratturo».
Lo prendo per mano, la strada è deserta. Arriviamo di fronte alla fortezza. Indico i muri a dente di sega, utili per la protezione dei soldati. Dico al papà che bisognerebbe essere fatti così, a dente di sega. Bipedi a dente di sega. In questo modo, per noi, non ci sarebbero problemi.
Passiamo davanti al Consorzio Terreno. Fuori un cartello ne annuncia la chiusura fino a data da destinarsi.
Arriviamo a casa.
La mamma è all’angolo del salotto e prega.
«Dov’è nostra figlia?», dice il papà.
Tramontare non te l’ha detto?»
«Tramontare dice solo sciocchezze».
«Eccola, ecco la Sorella», e porge al papà una scatola. Dentro ci sono le ceneri della Sorella.
4. Vuoto
A scuola le maestre mi dicono sentite condoglianze. Morire cosìgiovani. Riappropriarci di noi stessi, ricordare sempre, dimenticare mai. «E poi, Tramontare, la verità è che tu e tua sorella non siete mai andate d’accordo».
Non ascolto la lezione sull’arte. Le forbici, come sempre, sono un ottimo compagno di gioco. Origlio i discorsi dei compagni di classe. Parlano del circo che è arrivato in città e della partita di pallacorda. Nella bocca sento il sapore del latte della colazione. Penso al pappagallo di Florinda la bidella. Trascorrevo tutta la ricreazione a guardarlo, nella sua gabbietta. A volte riuscivo a spostare la mangiatoia cilindrica con le mani, in maniera tale da far cadere il cibo sulla superficie. Mi assicuro che nessuno mi stia guardando. Eppure il bambino in prima fla mi guarda continuamente. Si volta e mi guarda negli occhi e non si stanca mai. Non ci siamo mai parlati. Tranne una volta. «Bambino Nitido», gli ho detto, «qual è la ragione del tuo sguardo?» Non ha risposto.
Prendo un foglio di carta e ritaglio delle figure bidimensionali. Uno è un angelo, un altro è un diavolo, un altro è un sultano, un altro un pastore. Li faccio combattere, tra le mie mani. Sono io a decidere le sorti della battaglia. L’angelo morde il collo del diavolo come fosse un carapace. Il sultano colpisce al cuore il pastore, con il mio crinale per capelli. La battaglia si consuma presto. Nessuno è vincitore.
Il Bambino Nitido mi guarda. Mi sembra di sentire il suo odore. Sa di lattice. Si dice di lui che sia orfano di madre. Devo assorbire il suo sguardo. Provare a non sentirlo più addosso. Farne paesaggio. Sembra impossibile. La Sorella: come non pensarci? Una volta, giocando a palla avvelenata, ruppe un vaso prezioso. Disse alla mamma che ero stata io. La mamma mi mise in punizione e dormii, per tre giorni, sul letto di paglia, senza coperte.
«Sei distratta, Tramontare!», dice la Maestra.
Non rispondo.
L’importante è essere impermeabili alle sollecitazioni esterne. Essere assenti, quindi molto presenti. Mangio le unghie. Hanno una forma in cui non mi riconosco. Tutt’altro che armoniche, sembrano piegarsi a loro modo, in autonomia, non assecondando con precisione la forma delle dita. Mi chiedo se anche le unghie del Bambino Nitido diano questa impressione. Ipotizzo di osservarle, ma è impossibile, è troppo lontano, e lo spettro visivo è coperto. Penso alle sue giornate senza una madre. Si dice sia morta in una grotta. Chissà se è vero…
Suona la campanella. È ricreazione. Continuo il mio progetto. Prendo il martello nello zaino e mi metto in ginocchio, in fondo alla stanza. Martello più forte che posso. Lavoro a un buco che permetta la comunicazione da una classe all’altra. Lavorare alla costruzione di un vuoto mi fa sentire bene.
È possibile, in questo modo, dimenticare il buio? È un po’ come abbracciare se stessi. Allora martello. Non ho alcun interesse di comunicare con la classe accanto. Si tratta di una giustificazione data ai miei compagni di classe. Il vuoto è sempre visto come un nemico. Allora martello. È molto semplice. È un lavoro da svolgere con rigore e costanza. L’assenza dei compagni di classe, che al suono della campanella sguizzano come topi verso i corridoi, mi facilita. Scavare: togliere un po’ di mondo al mondo.
Sento una presenza. Qualcuno mi guarda. È il Bambino Nitido.
Non apre bocca. Provo a guardargli le unghie ma è impossibile. Non ho idea della forma dei suoi denti. Saranno da latte, che volgarità. Sento un dolore attorno alla bocca dello stomaco.
«Vuoi dirmi qualcosa, Bambino Nitido?», gli chiedo.
Non risponde.
Continuo la mia opera. Lui rimane fermo, a guardarmi.
Poi suona di nuovo la campanella. È la fine della ricreazione. Tutti ritornano in classe.
Arriva la Maestra di matematica.
«Tramontare, vai fuori».
«Perché?», chiedo.
«Non sopporto la tua faccia. Hai qualcosa dentro, qualcosa che non capisco pienamente. Dentro di te hai un mistero, che non mi rassicura. Vai via, ti prego. Fuori di qui».
Esco. Scendo le scale. Apro il portone e vado via. Florinda la bidella mi rincorre, le tiro un calcio, cade. Si è sbucciata le ginocchia, la zingara. Corro, salgo su un albero e rimango lì, fino all’ora di pranzo.
[…]
17. Spirito
Il Cancelliere dice: «Occupati di tuo fratello. Non puoi vivere senza considerare questo bel pastrocchio».
«Che cos’è un pastrocchio?»
«Un intruglio. Un pasticcio».
«Perché un bambino sarebbe un intruglio?»
«I bambini, Tramontare, sono come la brina. Sono di ghiaccio. A forma di scaglie e aghi. Si sciolgono in men che non si dica». «Che cosa vuol dire?»
«Sai come si trattano i bambini? Bisogna saperli prendere. Interrogarli. Sfinirli. Guardarli dritto negli occhi e non permettere loro di piangere, di sorridere, di fare il leone e la gallina coccodè. Questo è l’unico modo per affrontare questi pastrocchi».
«In che modo interrogarli? Loro non possono rispondere».
«Interrogarli spiritualmente. Loro devono sentire la pressione, anche se non capiscono le parole. Non è una questione di parole. Ha tutto a che fare con lo spirito. Campi di forza e di energia. Devono sentire che nulla gli è concesso. Che qualsiasi loro atto, qualsiasi loro frammento di pensiero, è passato al vaglio di noi adulti. Come al ministero. Tutto cartabollato. Bisognerebbe crearlo, il ministero dei neonati. Al primo sbaglio, ciao. Sei morto, bambino. Ma adesso occupati di tuo fratello. Dagli la pappa».
Mi siedo. Il Neonato è nel seggiolone. Prendo il cucchiaio di rame. Prendo la scatola di latta. Dentro c’è una poltiglia giallastra alla mela.
«Neonato, guarda l’aeroplano. E vola, vola, vola, la poltiglia». Apre la bocca. L’aeroplano giunge a destinazione. «E vola, vola, vola». Apre la bocca. L’aeroplano devia. Inizia a ruotare attorno alla testa del Neonato. Il Neonato rimane immobile, come un criceto scettico. Non sa cosa fare. Poi scuote la testa, prova ad acciuffare la pappa al volo, usando la sua bocca come fa un cane col suo osso. Assapora la delusione, mi dico. Assapora la rincorsa, mi dico. L’inconsistenza della rincorsa. Quello che accade è che si segue qualcosa che non si sa cosa sia; non è la pappa, è la rincorsa. Segui il tuo destino, Neonato: quello di incontrare un cucchiaio di pappa. Accogli tutti i tuoi crolli.
[…]