di Agostino Cera
La responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i profitti
Milton Friedman
L’argomento oggetto di queste righe consta di un’analogia fra antropologia e crematistica. Meno esotericamente: verte sull’attuale (con)fusione vigente tra la forma mentis umana e quella aziendale.
A mo’ di premessa, preciso subito che la tenuta dell’argomento prescinde dalla buona fede dei protagonisti delle vicende a cui farò cenno (dalla qualità di certe lacrime versate), essendo l’elemento realmente discriminante rappresentato dalle nostre reazioni emotive (quelle dell’opinione pubblica) nei confronti di tali vicende. Dal fatto che ci ritroviamo “naturalmente” a empatizzare con quelli che ci appaiono degli infelici: persone sì privilegiate, alle quali però delle bieche cause di forza maggiore avrebbero impedito di realizzare un sogno. Di seguire il proprio cuore.
Oltre che “stelle”, “miti”… oggigiorno i grandi campioni sportivi – particolarmente i grandissimi – sono di fatto delle aziende. In quanto avanguardie ed élite del nostro mondo, essi accedono tra i primi a quella singolare metamorfosi ontologica – inquietante, ma ahimè agognata da molti – denominata brandizzazione. Si tratta dell’ascensione dell’essere umano allo status di marchio (brand): a quanto pare, la sola forma di trasfigurazione/spirituralizzazione di cui il nostro tempo è ancora capace. Più che di semplice homo oeconomicus, qui stiamo parlando di homo machina. Meglio ancora, di homo fabrica.
Nella misura in cui è di fatto un’azienda, una stella dello sport tenderà ad agire come tale. Ne segue che, verosimilmente, osservando il modo in cui si comporta un essere umano brandizzato, potremo comprendere qualcosa in più circa il modo in cui si muove un’azienda vera e propria. Ciò posto, muoviamo un primo passo verso il punto della questione.
All’indomani della chiusura della sessione estiva del calciomercato (l’attuale epica dello sport; un’epica ridotta a chiacchiera e gossip), al pari di molti “sportivi” ho appreso che il campione bosniaco Miralem Pjanić, deluso dal proprio trasferimento al Barcellona dove ha trovato pochissime possibilità di impiego (l’allenatore Ronald Koeman “non lo vedeva”), negli ultimi giorni di trattative ha rivolto a mezzo social networks messaggi di abbocamento/ammiccamento alla Juventus e ai suoi tifosi: la sua ex-squadra, dove gli sarebbe piaciuto tornare. Tuttavia, ancorché forte, chiaro e in fin dei conti sensato, alla prova dei fatti questo desiderio si è rivelato un sogno irrealizzabile. Un’utopia.
Appresa la notizia, al pari di molti “sportivi” mi sono chiesto il perché di un simile esito. Per quale motivo Pjanić non sarebbe potuto tornare dove ha giocato le sue migliori stagioni, per di più ritrovando lo stesso allenatore? Quello che lo ha valorizzato maggiormente e che lo avrebbe riaccolto ben volentieri, tenuto anche conto delle attuali difficoltà tecniche della Juventus? Alla esplicita volontà dell’interessato e alla disponibilità della possibile destinazione, va inoltre aggiunta una terza condizione favorevole, che rende l’esito della vicenda ancor più misterioso: la controparte (il Barcellona) non avrebbe certo issato le barricate per trattenerlo. Dunque, perché il sogno di Pjanić non si è tramutato in realtà? Risposta: perché la Juventus non poteva farsi carico del suo costo gestionale, in particolare dello stipendio che ammonta grossomodo a 8 milioni di euro (netti) annui.
A proposito di calcomercato e Barcellona, questa vicenda presenta più di una somiglianza con quella di poco precedente, ma infinitamente più impattante sul piano mediatico, dell’addio di Lionel Messi alla sua squadra del cuore. Anzi, della vita (“més que un club”, recita il motto del club catalano). Quella che lo ha letteralmente cresciuto, fino a farlo diventare un’icona globale del proprio sport (“Messi è il calcio”). L’immagine del campione argentino in lacrime, costretto suo malgrado a lasciare la Catalogna per accasarsi nell’neo-emirato franco-qatariota di Parigi, è presto assurta a dignità di virale. Anche in quel caso l’infausto esito della vicenda è dipeso dal fatto che la società – quella spagnola, prossima al tracollo finanziario – non avrebbe più potuto farsi carico del suo oneroso ingaggio. La cui precisa entità, invero, non è semplice da stabilire, ma che comunque si aggirava su non meno di 40-50 milioni di euro (netti) annui.
Ebbene, da entrambe le vicende mi pare emerga un elemento comune. Per la precisione, una stessa difficoltà, una medesima ostruzione. Di questi tempi può capitare che le società calcistiche (le squadre-azienda) non riescano a farsi carico degli ingaggi dei loro tesserati più blasonati (i calciatori-azienda). E laddove capiti, non c’è nulla da fare. Nonostante l’esplicita volontà dei calciatori a favore di soluzioni alternative, un’alternativa non si dà. Insensibile alle ragioni del cuore, il destino – sotto forma di logica finanziaria – ha la meglio. Alla fine Ananke la spunta. Come sempre, del resto.
E così perveniamo al vero punto della questione, che in molti avranno già colto. Se ci si sottrae per qualche momento alle inerzie prodotte dallo storytelling mediatico, a imporsi è una domanda quantomai semplice. Perfino banale, tale la sua evidenza. “Davvero non c’era alternativa?” Davvero non esisteva un’altra possibilità rispetto a quella concretizzatasi, ragion per cui questa vicenda va rubricata sotto la voce “Ananke”? O, piuttosto, una possibilità alternativa esisteva (esiste), ma è diventata talmente desueta agli occhi del nostro senso comune che ormai stentiamo anche solo a intravederla? Un sentiero così poco battuto da essersi trasformato in un occulto tabù? In un vero e proprio interdetto?
Questi campioni, questi professionisti, queste aziende – in genere alquanto floride dal punto di vista economico – non avrebbero potuto scegliere di rinunciare a una parte dei propri introiti? Di guadagnare qualcosa meno, in nome di presunti principi più elevati (le ragioni del cuore), il cui valore quegli stessi brand in carne e ossa sono i primi, almeno in pubblico, a rivendicare fino all’ostentazione? Fino alle lacrime? Beninteso, non sto parlando affatto di non guadagnare, di “andare in perdita”, bensì soltanto di guadagnare meno. Più precisamente, di derogare una volta tanto dalla regola aurea della massimazione del proprio profitto.
Ebbene, non solo le condotte dei diretti interessati ma ancor più quelle di un’opinione pubblica ormai incapace di cogliere il divorzio totale tra parola e azione, la contraddizione radicale tra una dichiarazione d’amore straziante e una condotta che la sconfessa completamente (vedi la nostra naturale empatia con la commozione di Messi o con la frustrazione di Pjanic, il nostro definirli “ostaggi” delle dinamiche spietate del calcio business), dimostrano a quale livello di naturalizzazione siano pervenute certe logiche. Al punto che il nostro senso comune ha reso la massimizzazione del profitto un analogon della forza di gravità: qualcosa di inesorabile, incontrovertibile. Un destino, che come tale va semplicemente accettato. La formulazione di un simile imperativo suonerebbe più o meno così. “se posso guadagnare di più, a prescindere da quanto già guadagno, perché non dovrei farlo?”. Meglio ancora: “se posso farlo, come potrei non farlo?”. Il potere (l’essere nella condizione di), diventa condizione necessaria e sufficiente per generare un vincolo, una obbligazione. Se puoi farlo (in particolare, se ti conviene farlo), allora non puoi astenerti dal farlo. “Se puoi, devi”. Due ermeneuti di prim’ordine del nostro tempo – Günther Anders e Jacques Ellul – avevano posto a base della rispettiva filosofia della tecnica (a loro avviso, la versione più attuale e più coerente di filosofia della storia) proprio questo imperativo: la cosiddetta “legge di Gabor”, la cui formulazione andersiana recita: “ciò che si può fare (das Gekonnte), si deve fare (das Gesollte). Il possibile diventa ineluttabile”.
Applicato ai casi concreti dei quali ho fatto menzione, ciò significa che se avessero infranto questo sedicente tabù, accettando di guadagnare meno, i due infelici si sarebbero magicamente ritrovati nella condizione di realizzare il rispettivo “sogno catalano” (andare via dal o restare al Barcellona); avrebbero trasformato in realtà quella agognata possibilità. Possibilità che, subordinata all’imperativo della massimizzazione del profitto, ha invece assunto i contorni sfuggenti del sogno irrealizzabile.
Di qui muove l’analogia con l’universo extra-calcistico (la Lebenswelt o quello che ne resta), anch’essa facilmente comprensibile a questo punto del discorso. Se un uomo-azienda si comporta così, o meglio se tolleriamo senza battere ciglio che si comporti così (per di più legittimando, assecondando i suoi sedicenti struggimenti del cuore, dettati in realtà soltanto da granitici, dogmatici principi di interesse), perché ci stupiamo che le aziende-aziende (gli amministratori delegati, i consigli di ammnistrazione) si comportino allo stesso modo? Ovvero che decidano di chiudere uno stabilimento, con tutto quello che ciò implica in termini di “costi umani” (espressione rivelatrice di una intera Weltanschauung), non perché improduttivo, ma perché insediato altrove consentirebbe un guadagno maggiore? Perche altrove permetterebbe di rispettare a pieno l’imperativo della massimizzazione del profitto?
Posta in temini volutamente semplicistici, persino urticanti mi rendo conto, la cosa starebbe così. Se non abbiamo di che obiettare al pianto di Messi e alla frustrazione di Pjanić, allora a rigor di logica non dovremmo obiettare nulla neppure, ad esempio (ne cito uno tra gli innumerevoli possibili), alla scelta della multinazionale americana Whirlpool di chiudere il proprio stabilimento di Napoli, “lasciando a spasso” centinaia di lavoratori. Se invece veniamo ancora percorsi da sconforto e indignazione al cospetto della condotta della Whirlpool (di tutte le Whirlpool possibili), dovremmo riconoscere che non possiamo consentirci una pur emotivamente appagante empatia con “i dolori del giovane Leo”, emigrante coatto nel neo-emirato parigino. Al contrario, dovremmo cominciare a chiedere ai nostri idoli di fare qualche sforzo in più, laddove ambiscano a incarnare anche i nostri modelli. Dovremo deciderci, una buona volta, a vendere la patente di “eroe” un po’ meno a buon mercato.
Affermando questo, mi preme puntualizzarlo, non nutro ambizioni di carattere moralistico-normativo. In particolare, non intendo delineare alcun codice di condotta (un kit etico per aspiranti eroi), pretendendo che qualcuno si comporti in un modo piuttosto che in un altro. Non è mia intenzione dar voce all’ennesima, sterile denuncia contro i “calciatori mercenari” e alla non meno stucchevole nostalgia nei confronti dello “sport romantico” del passato. A interessarmi è piuttosto una questione di igiene logico-ontologica, per così dire. Mi preme cercare di ripristinare il corretto statuto ontologico (il reale modo d’essere) di uno stato di realtà. In altri termini: vorrei spogliare il tipo di situazioni a cui ho fatto cenno di quella patina fatalistica, che in verità non posseggono affatto. Quelle a cui ho fatto cenno erano situazioni libere, possibilità aperte, scenari dotati di più opzioni il cui esito dipendeva (è dipeso) perciò da una libera – si spera anche consapevole – scelta piuttosto che da un destino cieco e irremovibile. Non c’era alcun determinismo in quelle vicende. Ananke non vi ha giocato alcun ruolo.
Come possiamo sperare di eticizzare il capitalismo, di dotarlo di un volto più umano, se concediamo con tale facilità ai depositari naturali dell’etica – gli esseri umani – di pensare e agire del tutto capitalisticamente, cioè inumanamente? Come fossero davvero, soltanto delle aziende? Addirittura come fossero le più ciniche tra le aziende: quelle incapaci di derogare dall’imperativo della massimizzazione del profitto. Detto per inciso, la semplice idea della massimizzazione sottende, quale proprio “presupposto patico”, la Greed (cupidigia, avidità – dopo quasi un secolo, l’apologo di von Stroheim ancora docet). E va da sé che, sulla base di un simile presupposto, nessuna moralizzazione sia immaginabile.
Continuando a non obiettare nulla al cospetto di esseri umani – per di più esemplari – che pensano e agiscono come aziende (inumanamente), non potremo stupirci se prima o poi smetteremo di trovare strano che le aziende (le “aziende-aziende”) si comportino in modo integralmente aziendale (inumano, disumano), secondo le logiche che sarebbero loro proprie. Prima o poi cominceremo a trovare non solo logico, bensì ovvio e naturale il fatto che, per dirla con Milton Friedman (al quale, al netto di ciò che si possa pensare delle sue posizioni, va riconosciuto il merito di parlare chiaro), “la responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i profitti”.
Personalmente ritengo che la disintossicazione dal neoliberismo, le prove tecniche di “un altro mondo è possibile” passino anche da queste apparenti inezie. Magari è proprio da questi piccoli esercizi di igiene personale che possono muovere i primi passi.
p.s. Appena concluse queste righe ho appreso che Pjanić si è accasato al Beşiktaş, una delle squadre di Istanbul, con la formula del prestito. La società turca pagherà circa 3 milioni di euro all’anno al giocatore, mentre i restanti 5 dovrebbero essergli corrisposti dal Barcellona. Lieto fine? Dati i tempi, c’è da temere che lo sia.
Ho letto con interesse e condivido le osservazioni… tuttavia noto che nell’articolo non si fa cenno dei protagonisti veri della vicenda calcio-mercato: i procuratori… il libero arbitrio dei calciatori é ormai da tempo annullato da queste figure che determinano carriere denaro trasferimenti..,
L’appello pertanto va rivolto a loro e noi dovremmo pretendere che si ponga fine al loro strapotere…