di Elisa Donzelli
Chi è stato bambino negli anni Settanta e Ottanta ha una risorsa nascosta che potrebbe tornargli utile in tempi di magra come quelli che stiamo vivendo. E al bambino di oggi, intento a osservare la più gigantesca delle navi abbandonata dal suo Capitano prima ancora che l’avventura sia incominciata, potrebbe rispondere ripescando in soffitta quelle edizioni che trent’anni fa avevano mostrato il volto più fine e intraprendente dell’editoria italiana per ragazzi. Parlo delle edizioni Emme ed EL nate nel 1966 e nel 1974 e poi confluite, insieme a Einaudi Ragazzi, sotto un unico marchio. Tra i protagonisti di un’avventura ‘di genere’, capace di intrecciare qualità letteraria e qualità artistica delle immagini, c’erano Mario Lodi, Lele Luzzati e Gianni Rodari. Queste cose le ricordano in molti pur non sapendo forse che i “giocattoli poetici” di Rodari vantano un illustre precedente nel Sigaro di fuoco di Alfonso Gatto, una raccolta di versi del 1948 destinata “ai bambini di ogni età” cui si erano aggiunte nel 1963 le poesie ‘nautiche’ del Vaporetto (riprese nel 2001 da Mondadori con postfazione di Antonella Anedda).
Oggi l’editoria per ragazzi, affezionata ai suoi illustri maestri, continua a fabbricare buoni risultati grazie a chi della letteratura per l’infanzia ne ha fatto un mestiere vero e proprio, come scrittore e come illustratore. Non è questo, in fondo in fondo, il caso dei poeti i quali invece ai bambini ci pensano poco specie quando, in termini di prestigio, sono in grado di ottenere molto dalla poesia che scrivono.
Negli anni d’oro dell’editoria per ragazzi, i ‘grandi’ poeti la poesia la pensavano anche per i piccoli e scrivevano libri che talvolta non sono menzionati tra i titoli delle loro lunghissime bibliografie. Uno dei più belli è Pin Pidìn, antologia ideata nel 1978 da Antonio Porta e Giovanni Raboni. Raccoglieva poesie ‘fatte’ per i bambini da nomi grandi della poesia contemporanea che, insieme ai curatori, erano Nanni Balestrini, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Giancarlo Majorino, Nico Orengo, Edoardo Sanguineti, Toti Scialoja, Cesare Viviani e Andrea Zanzotto, per citare i principali. Alcuni di loro avevano scritto testi nuovi per quel libro; ad altri non era andata a genio l’idea di mettersi a tavolino solo e soltanto per i più piccoli e avevano imprestato ai curatori dei versi già esistenti. “Pin Pidìn / valentin / pan e vin / o mio ben, / un giosso, solo che un giosso”: era stato il petèl di Andrea Zanzotto, la lingua del dialetto materno priva di un preciso significato, a dare avvio al gioco in rima. La convinzione comune a tutti quei poeti era quella “di un radicale rifiuto della poesia per bambini come genere a sé stante”, coltivato solo e soltanto da specialisti della ‘minore’ età. La poesia, che fosse per grandi e che fosse per piccini, la dovevano scrivere i poeti. L’idea era stata un successo e, già nel 1979, Feltrinelli si era impegnato a farne una seconda edizione mentre c’era stato anche chi aveva continuato a pubblicare autonomamente nelle collane per ragazzi. Dopo A-Ulì-Ulè del 1972, Orengo aveva intrapreso la strada delle Canzonette e Porta si era spinto oltre scrivendo un vero e proprio poemetto per bambini, Emilio, pubblicato da Emme nel 1982 con le illustrazioni di Altan. Nel 1989 era stata la volta delle Scarabattole di Giovanni Giudici e nel 1991 di Un gatto più un gatto di Giovanni Raboni (silloge ripresa da Pin Pidìn), entrambi usciti con Mondadori Junior e illustrati da Nicoletta Costa, esperta disegnatrice di gatti. “Un gatto più un gatto fa due gatti / un gatto meno un gatto fa un gatto andato via / speriamo che torni presto / che non si perda / che non si faccia male / che per strada stia attento a attraversare” scriveva lungimirante Raboni, forse preoccupato per il destino dei gatti in poesia. Poi basta, a metà degli anni Novanta quasi tutti i poeti avevano girato le spalle a gatti e bambini affidandosi, il più delle volte, alla poesia testamentaria di Franco Fortini e alle sue ammirevoli Sette canzonette del Golfo. Erano i tempi della guerra del Golfo.
Può sembrare un nonsenso: pensare la poesia per bambini non vuol dire affatto pensarla in tempi di pace. Che i migliori versi ‘fatti’ per i bambini appartengano a voci alte e rivoluzionarie lo sapevano bene i poeti di Pin Pidìn. Tra loro proprio Antonio Porta, in quegli anni, si era messo a tradurre il Cavallino di fuoco di Majakovskij, un pometto che incitava al lavoro fatto di idee e a inventare la propria avventura. Un vento buono per i bambini italiani era arrivato da Est anche grazie alla traduzione di Zoo di Boris Pasternak (Emme 1973) e a quella della Canzone dell’albero delle mele del poeta ceco Jaroslav Seifert (Arka 1985). Ma era da Ovest che tirava il vento più forte e naturalmente i poeti, per dare cibo ai propri gatti, avevano dovuto confrontarsi con la grande tradizione anglosassone prima ancora che a fine anni Ottanta, dall’America, giungessero i versi per bambini di Ted Hughes e di Sylvia Plath.
Nel 1963 Bompiani aveva portato in Italia The Old Possum’s Book of Practical Cats di T. S. Eliot, una ballata fortunata che nel 1981 sarebbe diventata materia buona per il Musical di successo Cats. L’aveva tradotta il poeta Roberto Sanesi stabilendo insieme all’autore che cosa farne degli stravaganti nomi attribuiti ai gatti nella versione originale. In una lettera ripresa nell’edizione italiana, Eliot gli aveva suggerito di moltiplicare le colonie di gatti reinventando in una lingua nuova i nomi dei suoi esemplari. Erano nati la gatta Bigatta, Sandogàtt, Gattafascio, Deuteromio, Mistofele, Gassgatt, e Brunero il gatto del mistero. Finalmente anche l’Italia avrebbe avuto i suoi Pratical Cats ma con notevole ritardo se pensiamo che quella ballata Eliot l’aveva scritta per i suoi nipotini nel 1939 mentre Londra viveva sotto la minaccia dell’attacco aereo della Luftwaffe e i bambini della città venivano evacuati nelle campagne. Era stato un lungimirante inno contro le leggi razziali in difesa dell’identità umana e del mistero della diversità. Non tutti lo avrebbero capito dando più peso, soprattutto nella versione musical, al malvagio Macavity, il gatto-tiranno che vuole sconfiggere il vecchio Old Deuteronomy. E invece nella versione eliotiana di gatti e di misteri ce ne sono tanti ma non c’è un gatto che valga più degli altri: “Ma ve lo dico io, tutti i gatti han bisogno di un nome / Che sia particolare e peculiare […] / Che permetta a ognuno di tenere la coda perpendicolare […] / Ma in mezzo a tutti questi ancora un nome manca, / E questo nome mai potrete indovinare: / Nome che la ricerca umana non potrà mai scovare / Ma che IL GATTO CONOSCE, anche se mai lo vorrà confidare”.
C’è chi in Italia a quella lezione anglosassone aveva teso l’orecchio ancora prima che i suoi colleghi cominciassero a interessarsi ai più piccoli. Era il ‘grande’ Toti Scialoja nato pittore e divenuto famoso tra i poeti adulti proprio in virtù di alcune singolari raccolte poetiche rivolte all’infanzia. Dopo l’esordio del 1952 con i poemetti in prosa dei Segni della corda, in cui Pasolini aveva intuito uno spiccato e contraddittorio estro artistico, era rimasto in silenzio per alcuni anni. Poi, dal 1971, ci aveva regalato straordinari libri illustrati intitolati Amato topino caro, La zanzara senza zeta, Una vespa! Che spavento! o Ghiro ghiro tonto. Nel suo folto bestiario di improbabili animaletti, anche lui – poeta del senso perso – aveva parlato molto di gatti ammaliato (oltre che da T.S. Eliot e da E. Lear) dal Cheshire Cat di Lewis Carroll, lo stregatto di Alice cui il Re non riuscì a tagliare la testa perché non possedeva che questa: “Uno due tre quattro / passa un gatto quatto quatto. / Quattro tre due uno / era un gatto di nessuno”. Ma Scialoja, che alla razza umana teneva sul serio, non si era occupato solo di felini. All’alter ego del gatto (il topo antropizzato) aveva lasciato un compito speciale che potrebbe far comodo ad adulti e piccini, e magari anche ai poeti, quando resta ben poco di sensato da raccontare: “Topo, topo, / senza scopo, / dopo te cosa vien dopo?”.
*Molti dei libri citati in quest’articolo sono introvabili. La loro memoria storica è nelle mani di Letizia Tarantello che, insieme a Laura Alegiani, ha dato vita alla Biblioteca Centrale Ragazzi di Roma e al suo prezioso archivio. E. D.
[Questo articolo è uscito sul «Manifesto»]
[Sabrina Justison, Study Guide to Old Possum’s Book for Practical Cats by T.S. Eliot (gm)].
L’editoria per bambini, oggi, non sembra affatto morta: gli spazi che le librerie le riservano non sono piccoli, ci sono libri illustrati, libri tridimensionali, libri con gadget annessi, libri giocattolo musicali… Ai bambini di oggi è dedicato uno spazio editoriale sicuramente superiore rispetto ai bambini degli anni ’60 e ’70. Il problema è che le storie, diciamo così, difficilemente fanno fiaba, favola, o letteratura in senso lato: sono piuttosto prodotti, attraenti oggetti colorati come giocattoli che cambiano versioni di anno in anno. Insomma, per i bambini più pagine e meno poesia. Ma anche il cinema d’animazione ha seguito una simile parabola: non c’è, in fondo, un po’ di nostalgia per i disegni su pellicola, la cui linea era quasi l’anima poetica delle storie colorate per il grande schermo?
Ho trovato su una bancherella dell’usato un’edizione Einaudi del 1975 di un libro di Scialoja, Una vespa che spavento, Poesie con animali, con disegni dello stesso Scialoja. In quarta di copertina uno scritto di Italo Calvino e la dedica del libro è alla figlia di Calvino stesso, Giovanna. Il libro è un po’ rovinato, ma poco mi importa. Ho usato e continuo a usare le poesie di Scialoja a scuola, come esempi di poesia non sense, o semplicemente per accostare gli studenti alla poesia in un modo che non sia canonico (insegno in una scuola superiore e al biennio si insegnano rudimenti di poesia: c’è chi usa Pascoli e D’Annunzio, chi Scialoja) e hanno sempre un discreto successo.